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Pane e ciliegie…

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PANE E CILIEGIE (OVVERO IL SILENZIO È D’ORO)

Chi ha avuto la fortuna di vedere il film "Close up" di Abbas Kiarostami ricorderà l’episodio, realmente accaduto, che ne è al centro: un disoccupato, innamorato del cinema e perfetto sosia di un famoso regista iraniano, si fa passare per lui e, con il pretesto di fare dei sopralluoghi per il suo prossimo film, si stabilisce nella villa di una ricca famiglia borghese.
Quel famoso regista iraniano era, nella finzione e nella realtà, Mohsen Makhmalbaf, autore di "Il silenzio", presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia (distribuito dall’Istituto Luce), e già conosciuto in Italia per "Il ciclista", premiato al Festival di Rimini alcuni anni fa, e per il bel "Pane e fiore", uscito nelle sale nel 1997. La stessa vicenda umana di Makhmalbaf è singolare: "puro e duro" della rivoluzione islamica – fanatico al punto da chiudersi gli orecchi per strada pur di non ascoltare la musica "profana" -, finisce in carcere sotto il regime dello Scià all’età di 17 anni nel nome di Allah, in seguito si "converte al cinema" allontanandosi dall’integralismo religioso, fino a diventare uno dei registi più popolari nel suo paese e subirne la censura, che lo costringe a girare gli ultimi all’estero.
È il caso anche di "Il silenzio", girato in una paese di lingua persiana pieno di colori e di poesia, che è il Tagikistan, la "metà perduta dell’Iran" – dice il regista – "che invece è ormai diventato un paese decolorato, dove il governo ha imposto di vestire con colori smorti". I colori degli abiti sono un aspetto che il piccolo protagonista del film, non vedente (mendicante preso dalla strada, nella vita), non può apprezzare. Ma gli occhi ingannano il cervello, fa dire il regista al suo non-attore, bisogna chiuderli per vedere meglio. Il ragazzo, che lavora come accordatore di strumenti presso un liutaio, scopre il mondo attraverso l’esperienza sonora, viene guidato e trascinato dai rumori della città, fino anche a perdersi nel mezzo di un mercato vociante, e, per ritrovarlo, la ragazza che lo accompagna nei suoi spostamenti chiude anche lei gli occhi e segue la musica. Immagini limpide, di forte suggestione visiva e, insieme, una riflessione sull’atto stesso del guardare. L’essenziale: pane e ciliegie (parafrasando un altro titolo del regista), il rumore del pane croccante, di cui il ragazzo sa apprezzare ogni minima sfumatura e scegliere la forma migliore, così come per le ciliegie, che poi la ragazza si mette alle orecchie come se fossero i più preziosi orecchini; e ancora, la danza della ragazza nella bottega del liutaio (niente di più casto, ma censurata in Iran). Peccato che nel finale il regista si perda in un autocompiaciuto estetismo, di immagini (con eccesso di ralenti) e paradossalmente proprio di suoni (la quinta sinfonia di Beethoven, la prima musica occidentale che Makhmalbaf dice di aver ascoltato, ossessivamente presente). Come sarebbe stato bello continuare a far esperienza del silenzio.
La "maniera" del cinema iraniano che ha successo in Occidente – quella eclettica di Makhmalbaf e quella certamente più geniale e davvero "rifondativa" di un nuovo cinema di Abbas Kiarostami -, fatta di storie minimaliste, con al centro bambini e ragazzi, di un paese popolato da "poveri ma buoni", di soggetti scelti per non incappare nella censura, suscita comunque alcuni interrogativi sulla possibile esistenza anche di un altro cinema iraniano, interrogativi che hanno trovato in parte una risposta nella rassegna itinerante "Il cinema dei paesi del sud – Uno sguardo sull’Iran", organizzata dalla Cineteca del Comune di Bologna, che ha circolato per l’Italia nei mesi scorsi. In Iran si girano 70 film all’anno: un terzo sono film di propaganda, un terzo commerciali e un terzo d’autore; il cinema americano ufficialmente non c’è, almeno nelle sale, ma circola clandestinamente in cassetta. All’interno di questo cinema d’autore, abbiamo potuto vedere, finalmente, storie "adulte", amori tra uomini e donne, passioni e tradimenti, avidità e debolezze umane. Da segnalare, in particolare, due autori, ancora sconosciuti per il pubblico e la critica occidentali, come Varuzh Karim-Masaihi – il cui "L’ultimo atto" è una raffinata storia in cui si intrecciano realtà e finzione teatrale – e Yassamin Maleksnar, regista e attrice di "The common plight", la cui protagonista rifiuta di vivere per e attraverso il marito e sceglie la sua vita. Uno sguardo diverso.

Paolo Baldi

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