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Intervista con Francesco Schepisi

12 min read

Un’idea, una melodia, un passaggio armonico. Frammenti di suono che prendono forma, si uniscono, si intrecciano, si allargano, si separano, si plasmano secondo una dinamica che vede cuore e intelletto fondersi nel processo di scrittura.

L’iniziale scintilla creativa, seppur nella sua apparente e autonoma purezza, definisce il proprio significato solo attraverso un incontro con lo strumento. Le sensazioni incontrano i tasti del pianoforte. A questo punto i suoni ti guidano, suggeriscono, ora ti avvolgono, ora ti ostacolano… per dar vita a una musica che sia esteticamente in linea col tuo IO interiore.

Ogni scelta presa, ogni tassello, è frutto di una costruzione più o meno intellettiva, volta a preservare il significato emotivo, lungo un perfetto equilibrio fra quello che mi piace ricondurre allo spirito apollineo e dionisiaco di nietzscheana memoria.

Tale approccio alla scrittura nasce da una nuova visione musicale e di vita che ho sperimentato a partire dalla fine dell’anno 2015.

Allo stesso tempo, non ho voluto sacrificare il contributo di quella versione di me meno consapevole e più immediata. È così che ho voluto inserire un brano come “Nature”, scritto di getto intorno ai 16 anni e suonato nella sua versione di allora, senza particolari rimaneggiamenti. Di un periodo immediatamente precedente alla registrazione dell’album è, invece, “Feeling Unreal”, brano che più di tutti spinge con forza, verso questo contrasto fra ordine e caos.

Ciascuna traccia di questo disco coinvolge ed esplora parti diverse della mia interiorità, le descrive, le destruttura e le riconsegna in musica.

Un viaggio di crescita personale, lungo sentieri di cambiamenti, sofferenze, rinascite…. alla scoperta di sé stessi.

Francesco Schepisi

Francesco è cresciuto rapidamente nel giro di pochissimo tempo. Ma la cosa che deve essere sottolineata è che non si tratta solo di una crescita che lo ha portato ad una maturità tecnica e di raffinata competenza strumentale e compositiva, bensì una crescita legata a una sensibilità peculiare nei confronti dell’oggetto sonoro in sé. La capacità di guardare “oltre” l’organizzazione della partitura e respirare ciò che vi è sopra, sotto, intorno, dentro. trasportare nei suoni quel che vede con gli occhi, quel che tocca con la pelle, quel che approda nella sua esperienza vitale. Questa cosa, oggi, nel momento in cui la “produzione” artistica è nel pieno della ossessiva ripetitività, è un fatto maiuscolo. Francesco apre le prime pagine di questo suo diario con grande rispetto della memoria (una memoria non legata a un genere o a un mero esercizio), quella di un archetipo del Mediterraneo che traspira fin dalle prime impronte sue e dei compagni di viaggio che qui guida abilmente.

Roberto Ottaviano

Dalle note di copertina

Francesco Schepisi, piano, keyboards.

Antonello Losacco, double bass, electric bass.

Gianlivio Liberti, drums.

Vito Tenzone, drums.

+

Michael Rodriguez, trumpet, flugelhorn.

Aldo Di Caterino, flute.

Samantha Spinazzola, vocals.

Dario Schepisi, vocals.

Giovanni Astorino, cello.

Abeat records, 2025.

 

Intervista

Davide

Buongiorno Francesco. Come dialoga “Elevation” con le tue precedenti esperienze discografiche, cosa ne continua e cosa ne aggiunge o evolve?

Francesco

Ho avuto la fortuna di partecipare a diversi progetti discografici in qualità di co-leader e sideman e ognuna di queste produzioni, ciascuna con le proprie peculiarità e differenze (anche stilistiche, pur restando in ambito jazzistico)  ha certamente contribuito a definire e arricchire la mia personalità in termini artistici ed estetici.

È capitata anche l’ occasione di incidere mie composizioni all’interno di album non esclusivamente a mio nome (penso al progetto da co-leader “Jazz Art Quartet” con Dino Plasmati, all’album “Respira” di Antonello Losacco e “Now You Know” di Gianluca Aceto).

Sicuramente tutte le esperienze discografiche precedenti, hanno consolidato un modo di gestire il materiale musicale sempre più consapevole e personale. Questo può essere di certo un punto di connessione, un ponte, con la produzione di Elevation.

La differenza sostanziale, invece, sta nel fatto che in questo mio primo lavoro da band-leader io mi trovi, effettivamente, totalmente immerso nella veste di compositore e arrangiatore, per tutta la durata del disco. Significa misurarsi molto più a fondo con l’organizzazione del materiale compositivo e improvvisativo, oltre che con sé stessi.

Ecco, questo è stato per me, senza dubbio, un motivo di crescita e arricchimento importante.

Davide

Come sono nate queste nuove composizioni, attraverso quale primaria idea esplorativa fondante?

Francesco

Non è raro che la scintilla compositiva parta da una piccola idea che ho in testa, magari una cellula melodica, o ritmica, che poi si sviluppa al pianoforte.

Quasi sempre, le mie composizioni partono dal pianoforte solo, nel senso che l’idea musicale risulta autosufficiente già dall’esecuzione pianistica. Può essere che mi affiori alla mente una melodia limpida e cristallina fin da subito (vedi “La mia terra lontana” o “Baby Fly”) oppure, più frequentemente, la creazione di una linea melodica procede di pari passo allo sviluppo dell’armonia: è come se questi due aspetti si influenzassero costantemente a vicenda, determinandone la rispettiva direzione, e convogliando, alla fine, in un’unica soluzione sonora. Forse si tratta di un approccio tipicamente pianistico, ma cerco quasi sempre di concepire una melodia da subito come parte di un movimento armonico. Spesso la melodia risulta semplicemente la nota al canto di una serie di accordi, collegati fra loro da note di passaggio.

Mi piace anche l’idea di “incastonare” la melodia all’interno di arpeggi, come succede nella parte introduttiva de “Il Sentiero”. Altre volte, invece, concepisco il brano da subito come suonato da strumenti che ricoprono ruoli ben definiti e a sè stanti: ad esempio su “Feeling Unreal” il pianoforte crea un massiccio tappeto di arpeggi su cui si sviluppa la melodia, affidata al sassofono.

Davide

Rispetto al passato c’è un brano, “Nature”, che hai composto di getto a sedici anni e che, come hai scritto, hai voluto suonare come nella versione di allora, senza particolari rimaneggiamenti. Perché dunque l’inserimento di un brano del tuo passato e questo in particolare?

Francesco

“Nature” è un brano che ho scritto nella mia tarda adolescenza, quando ancora non conoscevo bene l’armonia. È un brano costruito per lo più su arpeggi di triadi maggiori e minori che però si muovono con una certa libertà (all’epoca non del tutto consapevole). È una composizione la cui genuinità ho voluto preservare, proprio evitando di apportare modifiche.

Per me rappresenta quella parte di me più istintiva, scevra da sovrastrutture, genuina, appunto. Semplice, se vogliamo. Non ultimo per importanza, è il significato affettivo che questo brano porta con sé: mia nonna materna adorava questa melodia, a tratti nostalgica, e mi chiedeva spesso di suonarla. Mi diceva che le portava alla mente un paesaggio bucolico e boschivo… da qui il titolo.

Davide

Oltre alle tue composizioni, hai scelto due brani del cantautore Steven Wilson, già fondatore e frontman del gruppo Porcupine Tree, “The raven that refused to sing”, e di Duke Ellington, “Prelude to a kiss”. Perché in particolare queste due scelte e come li hai rivisitati, attraverso quale tua chiave personale?

Francesco

Ho ascoltato per la prima volta “The raven that refused to sing” qualche hanno fa. Ne rimasi subito incantato. Così, provai a suonarlo al pianoforte… liberamente, con qualche improvvisazione.

È una canzone molto intensa e struggente, sia nella musica che nel testo.

La mia non è stata un’operazione di stravolgimento: ho voluto enfatizzare la dimensione acustica del piano trio con interventi di violoncello e con la voce che fa capolino nella parte finale, quasi da lontano, richiamando un verso del testo originale. Questa dimensione sonora mi attrae molto, ed è già in parte presente nel brano originale, in pieno stile progressive rock.

In generale, non amo discostarmi troppo dall’originale: è un vezzo abbastanza comune fra i jazzisti, quello di stravolgere i brani pop, rock o di musica classica. È un’esigenza che non mi appartiene. Trovo più  interessante farmi guidare dal suono e poter improvvisare su armonie e ritmi non necessariamente di stampo jazzistico.

“Prelude to a kiss” è una sorta di omaggio alla tradizione. Una ballad meravigliosa che, insieme alla voce di Samantha, abbiamo deciso di eseguire nella sua esposizione tematica, senza improvvisazioni.

Un modo per ricordarci da dove tutto parte, ed essere grati ai padri di questa musica.

Davide

Ci presenti gli altri musicisti che hanno preso parte al progetto? Come descriveresti il contributo dato dagli altri musicisti alla realizzazione della tua musica? Che tipo di intesa si è creata con loro?

Francesco

Partirei dal legame più “antico”, quello con Dario Schepisi, mio padre, anche lui musicista e compositore, mi ha fatto innamorare della musica da quando ero bambino e da oltre quindici anni collaboriamo anche sul palcoscenico.

Con la cantante Samantha Spinazzola, mia compagna nella musica e nella vita, condivido un forte legame anche in termini musicali. In “Prelude to a kiss”, ho voluto ricreare la dimensione del duo, particolarmente congeniale per entrambi.

Con Antonello Losacco c’è un rapporto di intesa particolare, consolidato da tanti anni di concerti insieme e dalla continua condivisione di composizioni e progetti originali, lungo indimenticabili esperienze di musica e di amicizia. È il musicista presente nel maggior numero di brani del disco.

La sua cura nel suono e il gusto raffinato nell’interplay, lo rendono il compagno ideale per questo tipo di viaggio sonoro.

Ed è proprio in un lavoro discografico di Antonello che ho conosciuto Giovanni Astorino, violoncellista dalla rara sensibilità e maestria. Ricordo di avergli fornito pochissime indicazioni durante le registrazioni, ciononostante si è mostrato in forte sintonia con la mia musica.

Alla batteria si alternano Gianlivio Liberti e il più giovane Vito Tenzone, entrambi con una forte personalità e perfettamente riconoscibili.

Adoro il modo in cui Gianlivio utilizza il piatto e la sua capacità di colorare gli spazi; Vito è musicista dalla grande tecnica ed inventiva: una fonte inesauribile di idee, spesso porta i brani verso direzioni inaspettate

Con Aldo Di Caterino e Vincenzo Di Gioia ho coltivato negli ultimi anni un rapporto di amicizia e di stima artistica, oltre che di collaborazione dal vivo e in sala d’incisione.

Entrambi giovanissimi talenti, si sono resi protagonisti con interventi incisivi e di grande impatto. Il forte senso della melodia di Aldo da un lato e il fraseggio moderno e sofisticato di Vincenzo, hanno esaltato e offerto una spinta decisiva alla musica.

Per quanto riguarda la special guest internazionale, è stato per me un grande onore poter ospitare in questo mio primo lavoro il trombettista newyorkese e pluripremiato Michael Rodriguez.

Fu per me amore a prima vista (o a primo ascolto, è il caso di dire) quando ascoltai un suo assolo in un disco di Charlie Haden. Ho provato così a contattarlo e lui ha accettato di incidere su due tracce del mio album, rendendomi felicissimo. Michael è un musicista straordinario ed è stato in grado di immedesimarsi perfettamente nella mia musica, sublimandone il contenuto.

Davide

Nelle note di copertina fai riferimento allo spirito apollineo e a quello dionisiaco, il razionale e l’ordine oppure l’istinto e il caos o il potere vitale. Nietzsche scriveva: “Avremo fatto un grande acquisto alla scienza estetica, quando saremo giunti non solo al concetto logico, ma anche all’immediata certezza dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla dicotomia dell’apollineo e del dionisiaco, nel modo medesimo come la generazione viene dalla dualità dei sessi in continua contesa fra loro e in riconciliazione meramente periodica”. In che modo hai vissuto questa antitesi nel corso del tuo lavoro e come vi si riflette musicalmente? E, più in generale per te, in che modo la musica aiuta a esplorare l’umano e i suoi vissuti?

Francesco

Mi sono permesso di scomodare Nietzsche all’interno delle note di copertina del disco, perché credo fortemente che le vicende interiori di qualsiasi essere umano siano tutt’altro che unitarie e coerenti.

Ho sperimentato un periodo particolarmente buio, qualche anno fa, in cui avevo l’impressione di aver perso il controllo della mia mente.

Ho indagato, così, su me stesso, a tal punto da restare affascinato da questa dinamica di dualità che governa l’uomo, in un’eterna lotta fra razionalità e spontaneità, controllo e libertà.

La musica esprime questi contrasti in maniera abbastanza eloquente.

A livello sia compositivo che improvvisativo, ho cercato di far coesistere questi elementi, la cui antitesi, in realtà, produce ciò che permette di sentirci vivi.

Dunque, tale concetto di “istinto controllato” è particolarmente presente nel mio approccio alla composizione e alla musica in generale.

Davide

Quali sono stati gli autori e interpreti o i dischi più significativi nella formazione del tuo gusto musicale, quello che ora stai esprimendo anche come compositore e musicista?

Francesco

É davvero difficile menzionare tutti gli artisti che hanno contribuito, anche in minima parte, a formare la mia estetica musicale… ma posso provare a citarne alcuni, la cui musica per me ha rappresentato qualcosa di davvero importante. Pat Metheny e Lyle Mays, ad esempio, sono stati in cima alla lista dei miei ascolti per tanti anni, a partire dalla mia adolescenza, e ancora oggi hanno su di me un’influenza fortissima. Se dovessi citare un disco, direi “Still Life (Talking)” del  Pat Metheny Group, perché rappresentò il primo, folgorante, ascolto.

Un altro pianista che ha forgiato il mio gusto musicale è senza dubbio Keith Jarrett. Per me il più grande pianista vivente… proprio pochi giorni fa ha compiuto ottant’anni. Un suo disco che amo molto si intitola “The melody at night, with you”, in cui suona solo ballads, un album in piano solo registrato subito dopo un lungo stop per problemi di salute.

Un altro pianista che mi sento di citare è sicuramente Brad Mehldau, mentre negli ultimi tempi sto apprezzando molto il modo di scrivere di Immanuel Wilkins, giovane ma già molto affermato sassofonista afroamericano.

Davide

“Se suona bene e ti fa sentire bene, allora è buona.”, così diceva Duke Ellington. Quando per te una tua composizione è finalmente buona e terminata?

Francesco

Premesso che sono d’accordo con il Duca (per quel che può contare), per rispondere a questa domanda mi ricollego al concetto di antitesi fra istinto e ragione, di cui parlavamo prima. Soprattutto nel mio modo di scrivere più recente, sto cercando di creare un equilibrio fra questi due poli. Nel processo di scrittura non sempre l’istinto conduce a risultati soddisfacenti. Per intenderci, suonare “col cuore” non è necessariamente sinonimo di autenticità. Al contrario, credo che il materiale frutto di un’ispirazione o di uno spontaneo fluire, possa e debba essere processato, organizzato, collocato, rimodellato, sostituito o – se necessario- eliminato. Insomma,  quello che i poeti latini chiamavano “labor limae” e che, a mio parere, è alla base di una composizione musicale ben strutturata nella forma e nella sostanza, così come in un’opera letteraria. Quando una mia composizione soddisfa questo equilibrio fra cuore e intelletto, per me è “buona”.

Davide

Cosa seguirà?

Francesco

Sarò impegnato prossimamente nel portare in giro la musica di Elevation. Dopo un concerto di anteprima e uno di presentazione, nella mia città, sono in calendario diversi appuntamenti estivi, fra cui segnalo quello del 1 agosto al Beat Onto Jazz Festival. Parallelamente, continuo a portare avanti diverse collaborazioni, fra cui quella con Roberto Ottaviano, Ettore Fioravanti, Gaetano Partipilo e Alberto Parmegiani. In cantiere ci sono altri progetti discografici, di cui vi parlerò nei prossimi mesi!

Davide

Grazie e à suivre…

 

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