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Tuttalpiù muoio – Edoardo Albinati e Filippo Timi

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Un libro scritto a quattro mani anche se a parlare è Timi che ha dettato allo scrittore romano la storia della sua vita. Nato  in una modesta famiglia, con una madre infermiera con i  capelli tinti rossi, la figura più forte  e meglio tratteggiata nel libro)  ed un padre assente, l’attore-scrittore rievoca le fasi salienti della sua vita: l’adolescenza vissuta a Ponte San Giovanni, la passione per Sonia Sorci, amore non ricambiato, le gare di pattinaggio artistico interrotte per mancanza di soldi,  gli amici dell’oratorio, la violenza sessuale subita da parte di un adolescente, il morbo di Stargardat, l’atrofizzazione delle cellule coniche che lo hanno fatto diventare, già all’età di 23 anni,  quasi cieco. Cosa può sperare un ragazzo nato povero, gay, balbuziente e quasi cieco in una piccolo paese di provincia? Tuttalpiù muoio, afferma Timi nel suo libro, di fronte ad un futuro nebuloso che lo attende, ma l’attore, premio Ubu come migliore attore under 30 nel 2004, è riuscito a vincere la sua battaglia, ad uscire dall’isolamento, dalla derisione dei compaesani che lo ritenevano “strano” e a trovare, nonostante le difficoltà fisiche, una propria strada:il teatro, potente mezzo d’espressione che gli consente di recitare, di regalare al pubblico emozioni non balbettando. Il libro è un viaggio a ritroso nel proprio passato, una sorte di catarsi liberatoria perché Timi scrive di tutto: di se stesso, della propria infanzia difficile, i vestiti e la biancheria indossati, dopo che erano stati usati dai cugini  degli amori vissuti e di quelli desiderati e non realizzati, come quello per David, gli incontri con i gay alle “Spiagge”, la cugina disabile Dani, le sorelle della madre che formano un clan, il rapporto non idilliaco con la sorella Cristina. Timi detta ad Albinati, dal profondo delle proprie viscere, tutto il suo vissuto e lo fa non con rabbia, ma con naturalezza, accompagnata da una vena di malinconia. Ne esce fuori il ritratto di una persona, in senso lato di un ambiente sociale ricco di pregiudizi, particolare. Un uomo desideroso di affetto, incompreso, non a caso il protagonista si paragona al personaggi dei cartoni animati Candy Candy, buono, ma capace di scene furiose per un nonnulla. Una persona che, di fronte agli handicap con i quali è costretto a convivere, ha ritrovato la propria dimensione di uomo, di attore, non provando risentimenti nei confronti di nessuno, senza domandarsi se la sua vita poteva essere diversa. Timi scrive  che ” forse perché sono mezzo cieco, forse per  le mie  difficoltà a vivere, ho deciso che la realtà non esiste e nemmeno la vita. Vivere non mi interessa. Voglio solo rappresentare la vita, anzi crearla, crearne una più bella o brutta, non importa”. Entra qui in gioco la dicotomia persona-personaggi, di pirandelliana memoria. La vita, scriveva il grande drammaturgo siciliano o la si vive o la si scrive. Timi ha scelto di rappresentarla perché con la recitazione dimentica i suoi problemi, la sua disastrata gioventù, comprende che sta per regalare gioia ed emozioni alla platea. Il libro, narrato in prima persona,  è interessante sia per la vita personale ed artistica dello scrittore che per il contesto familiare che tratteggia. Un microcosmo di una famiglia che abita in una provincia, ostile alla diversità di Timi e, in generale, di tutto quello che va al di là degli schemi precostituiti. Uno dei punti di forza del volume è rappresentato dalle riflessioni, acute ed intelligenti, di Timi, sulla vita e sulla morte. Il limite del volume consiste nel fatto che è eccessivamente prolisso e che a volte stenta il passo narrativo. E’ un libro che induce il lettore alla riflessione, ad amare il teatro, la lettura, la vita.

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