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La notte di villa Diodati, dove tutto ebbe inizio

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Il 1816 fu un annus horribilis.
Una vasta cappa scura, causata dall’eruzione del vulcano Tambora nelle Filippine, nascose il sole trasformando l’Europa in una trappola di ghiaccio. Il cielo era giornalmente attraversato da un reticolo di lampi, la luce del sole parzialmente oscurata da una nube di pulviscolo e cenere vulcanica.

Dureante l’estate di quel funesto anno, per la precisione il 16 giugno, un gruppo di persone in cerca un’oasi di tranquillità e pace, decise di recarsi a Villa Diodati, una piccola e graziosa costruzione settecentesca con velleità neoclassiche appoggiata su una sponda del lago di Ginevra, la cui fine architettura aveva già colpito e ispirato il poeta John Milton.
La variegata compagnia era composta dal famoso poeta inglese Lord Byron, John Polidori, suo medico e segretario, Mary Wollstonecraft Godwin, insieme a Percy Bysshe Shelley, poeta romantico e suo prossimo marito, e Claire Clairmont, sua sorellastra ed ex-amante di Byron, dal quale aspettava una bambina. Erano in fuga da un mondo che sembrava stesse per finire, ma soprattutto dai loro complicati problemi personali.

Byron cercava di lasciarsi alle spalle le accuse (per altro fondate) di incesto e sodomia; Mary cercava di superare la depressione per la morte prematura della figlioletta e che la nascita del piccolo William non le aveva affatto evitato; Percy tentava di trovare pace per un animo tormentato perfettamente in tema con la sua figura di poeta romantico e decadente; Claire doveva decidere cosa fare della sua gravidanza (la vita di Allegra, la sua figlioletta, sarà purtroppo comunque di breve durata: solo cinque anni); Polidori, succube della soverchiante ed invasiva personalità del suo compagno/paziente/idolo/padrone, era alla ricerca di una qualche forma di riscatto.

Quest’ultimo aveva seguito Byron nel suo Grand Tour europeo per raccontarne pregi (pochi) e difetti (molti) in una specie di diario che gli era stato commissionato e che però non vedrà mai la luce. Durante il viaggio era diventato oggetto di scherno del poeta che non perdeva occasione per divertirsi alle sue spalle mettendolo continuamente in imbarazzo.
Questa strana comunità, divisa tra villa Diodati e Maison Chapuis, di poco distante, costretta dal tempo inclemente ad una forzata convivenza, finì per cercare di superare ansie e frustrazioni anche tramite l’utilizzo di massicce dosi di laudano, in quei tempi molto usato a questo scopo.
Questo pulsare magmatico di tensioni emotive ed iperstimolazioni sensoriali, sarà il substrato ottimale per la nascita (diretta o indiretta) di due dei pilastri della futura letteratura fantastica: Frankenstein e Dracula.
Narra la leggenda che, a seguito della lettura di Phantasmagoria, un’antologia tedesca di racconti di fantasmi che andava molto di moda in quegli anni e all’interno della quale c’è la famosa novella La sposa cadavere, portata sullo schermo da Tim Burton, i quattro decisero di organizzare una sfida letteraria, per ingannare il tempo, mettersi alla prova o cercare di esorcizzare le loro paure.
I frutti delle loro fatiche furono di varia natura e qualità: Percy Shelley produsse un fragile poemetto The assassins o forse un abbozzo di una storia di fantasmi o ancora un racconto non meglio identificato e basato su una vaga esperienza giovanile; Lord Byron poco più di un frammento poi chiamato La sepoltura; Polidori scrisse Il Vampiro breve racconto, non eccelso ma seminale, nel quale si narra la vicenda di Lord Ruthven, enigmatico, affascinante e mortifero personaggio. In realtà lo scrisse solo qualche settimana dopo l’ipotetica sfida, sulla scia del frammento di Byron del quale è un plagio/continuazione. La sua prima scelta infatti, era stata un banale raccontino che vedeva come protagonista una dama con la testa da teschio.
Ma fu soprattutto Mary Shelley con quello che, nella versione definita si intitolerà Frankenstein o il Prometeo moderno, a creare l’opera più completa e meglio riuscita. Ne esistono almeno due versioni: la prima concepita proprio durante quei fatidici giorni, la seconda rimaneggiata dal marito Percy.

L’idea base del romanzo nacque da un incubo che Mary ebbe qualche notte dopo la famosa sfida. Insieme a Polidori fu l’unica a prenderla sul serio, mentre Shelley e Byron già il giorno successivo, dopo aver frettolosamente scritto il loro apporto, l’avevano praticamente dimenticata.

Lo stimolo onirico del poema potrebbe avvicinarla a quello che sarà poi considerato il loro degno erede: quell’Howard P. Lovecraft che, sognatore compulsivo e personalità disturbata, decise di psicoanalizzarsi riversando i suoi incubi, notturni e non, sulle pagine bianche.

Egli era dotato della non comune prerogativa, di ricordarsi pienamente dei sogni (o incubi) che faceva e dei mostri che li popolavano che lui chiamò i magri notturni.
Nella creazione del mostro di Frankenstein, Mary fu sicuramente influenzata dalle allora circolanti teorie del dott. Erasmus Darwin, nonno del più famoso Charles, che venne infatti citato nella prefazione della prima edizione del libro, scritta da Percy.

Le tesi del dottore si basavano sulla possibilità di far nascere la vita dalla materia inerte.
Un decennio prima, il fisico italiano Giovanni Aldini (1762-1834), nipote di Luigi Galvani, che era diventato famoso nel secolo precedente per essere stato il primo ad aver teorizzato un rapporto fra elettricità e vita, aveva iniziato a sviluppare gli studi del nonno, utilizzando per i suoi esperimenti non più rane ma cadaveri. Si era recato addirittura fino a Londra per procurarsi il materiale per gli esperimenti. Si può anche fantasticare sul fatto che in quell’occasione egli incontrò Burke e Hare, i famigerati ladri di cadaveri che fornivano i corpi per chirurghi e anatomisti e che ispirarono Robert Louis Stevenson (l’autore di un altro classico del fantastico: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, 1886) a scrivere The body snatcher che tratta lo stesso argomento e dal quale Robert Wise trasse il film La jena (1945) con Boris Karloff e Bela Lugosi. Questi ultimi, per chiudere il cerchio, furono i protagonisti delle classiche versioni cinematografiche della Universal di Frankenstein e Dracula.

D’altronde la capitale inglese di inizi ottocento, era lo sfondo ideale per storie di questo tipo: fumosa, nebbiosa, intrisa di umori malsani e nella quale convivevano fianco a fianco i più differenti strati sociali, il degrado e la ricchezza, creando inevitabili e mortifere conseguenze. Jack lo squartatore, ad esempio, nobile o chirurgo che fosse, dedito ad affettare prostitute, o il meno famoso ma più leggendario Spring-heeled Jack (Jack dai tacchi a molla), il ladro gentiluomo che, si diceva, dopo aver rapinato leggiadre nobildonne, saltellasse di tetto in tetto merito delle sue prodigiose calzature.

In una capitale così torbida e oscura, era ovviamente abbagliante, e confortante, la luce della giustizia frutto della ferrea logica analitica di un tal Sherlock Holmes.
Torniamo ad Aldini: il 17 Gennaio 1803, al Royal College of Surgeon di Londra, un attonito pubblico di studiosi e non, assisteva alla danza macabra del cadavere di un assassino impiccato da poco che, stimolato da opportuni elettrodi, sembrava realmente essere tornato in vita.
Tutto questo Mary lo conosceva bene. Aveva anche ascoltato attentamente un articolo di madame de Staël sull’argomento, che i suoi compagni avevano letto ad alta voce.

Nel 1814, in una tappa del suo viaggio in Europa, Mary e Claire avevano attraversato la zona dove sorgeva il castello della famiglia Frankenstein e vicino al quale, agli inizi del seicento, era nato l’alchimista Johann Konrad Dippel, famoso per i suoi esperimenti che includevano furti di corpi nei cimiteri della zona.
Tutto questo, insieme all’atmosfera carica di elettricità per le frequenti tempeste, ma soprattutto al dolore per la morte, qualche anno prima, della propria figlioletta, convogliarono la creatività di Mary verso una rappresentazione di queste ipotesi pseudo scientifiche che in qualche modo le accendevano una speranza, e perciò un conforto, per la propria perdita.

Leggenda e non, qualcosa nacque davvero tra quelle mura e durante quelle sere (l’inizio in un determinato giorno è un espediente puramente drammaturgico): il fantastico, un nuovo genere letterario, diretto erede di quello gotico che con Il Castello d’Otranto (1764) di Horace Walpole, I misteri di Udolpho (1794) di Ann Radcliffe e Il Monaco (1796) di M. G. Lewis, aveva raggiunto le sue più alte rappresentazioni. La presenza di quest’ultimo a villa Diodati, anche se è successiva alla sfida, potrebbe essere vista come un passaggio di testimone, una testimonianza dell’importanza di ciò che stava nascendo.

Frankenstein (il dottore) è davvero un moderno Prometeo, colui che dona all’uomo la libertà dalla schiavitù della carne e della morte, ma che cade vittima della propria imperfezione non riuscendo a gestire completamente tale dono.
Il mostro che egli crea è un Golem attualizzato, ma che, purtroppo, ha coscienza di sé ed è perciò ottenebrato dalla paura di essere senz’anima, un mero figlio della scienza destinato ad una perenne ricerca della propria identità e del proprio scopo esistenziale e che finisce per diventare lo strumento della punizione divina per l’arroganza del proprio creatore.

Mostro dal latino monstrum, vuol dire prodigio o meraviglia, una deviazione di percorso della natura necessaria per evolvere, il gene recessivo che può anche diventare dominante.

P.T. Barnum (1810-1891) ne fece materiale per i suoi affari. Con il suo Circo delle Meraviglie (di mostri, appunto), costruì un vero impero sulla diversità.
Donne barbute, scheletri umani, nani e giganti: tutto serviva per attirare il pubblico.

Anche la fantomatica, e falsissima, Sirena delle Fiji, un abile manipolazione tassodermica.
Myrtle Corbin era dotata di altre due gambe, troppo deboli per permettere elaborate esibizioni e che lei si accontentava di mostrare.
J. L. invece aveva un gemello che gli spuntava dal ventre con le sole gambe e che muoveva freneticamente come se tentasse di uscire.

Annie Jones era affetta da ipertricosi che la faceva assomigliare ad una scimmia: a differenza del primate, era gentile ed educata.

Il più famoso di loro, John Merrik, meglio conosciuto come l’uomo elefante, era affetto dalla sindrome di Proteo che lo rendeva irriconoscibile e non gli permetteva di esprimersi. Venne salvato dal dottor Frederik Treves che gli dette la possibilità di mostrare finalmente al mondo la sua dolce anima poetica imprigionata in un corpo mostruoso.

Barnum non era un filantropo o un benefattore; tutto quello che faceva era per lucro.

Offriva comunque la possibilità ai diversi di raggiungere l’indipendenza economica, un modo di esprimersi e di trovare fiducia in se stessi.
Molti gli si offrivano volontariamente, cercando di costruirsi, tra risate e urla isteriche, la propria Scala per il Paradiso.
Il fascino del diverso richiamava folle di curiosi morbosamente attratti dal vedere, anche solo per un istante, la parte oscura della natura; un modo per confermarsi migliori o semplicemente più fortunati.

Frank Lentini fu uno di loro. Egli nacque il 18 maggio 1889 a Rosolini, un piccolo borgo della campagna siciliana.

La natura lo dotò di una terza gamba completamente funzionante, l’eredita lasciatagli da un gemello siamese che il suo corpo aveva inglobato.
Questo arto sussidiario a cui egli si appoggiava disinvoltamente come un treppiede umano, divenne il suo marchio distintivo, ciò che lo rese famoso in tutto il mondo.

Durante i suoi spettacoli, lo usava disinvoltamente come un vero e proprio attrezzo di scena esibendosi, ad esempio, in complicate acrobazie con un pallone.
Gli inizi non furono facili.
La Sicilia di fine ottocento era un mondo chiuso e superstizioso e da subito gli dimostrò tutta la sua ostilità e diffidenza.
Alla nascita, i suoi vagiti si confusero con le urla di orrore della levatrice.
Anche i genitori, nonostante fossero di cultura superiore alla media, vennero sconvolti dalla sua venuta.

Frank dovette fare i conti con le angosce della madre, perennemente combattuta tra affetto e ribrezzo, e con le preoccupazioni del padre, pienamente consapevole delle difficoltà che la società avrebbe creato a lui e a suo figlio, in questo preciso ordine.
Venne affidato alle cure di una zia e, per un breve tempo, ad un orfanotrofio specializzato in disabilità.
Ciò che per il piccolo Frank poteva risultare deleterio, divenne invece l’inizio del riscatto.

Il suo innato pragmatismo lo convinse che, a conti fatti, lui era più fortunato di quelli che incontrava nei corridoi dell’istituto, spesso fortemente menomati anche nella mente.
Crebbe in lui la forte determinazione a sviluppare le sue potenzialità.
Non era infrequente incontrarlo pescare in riva al fiume, appoggiato alla sua appendice come una seggiola da campeggio, mentre meditava e pianificava.

Se magari, camminando tranquillamente per le vie del paese, sentivi improvvisamente un colpo in fondo alla schiena, e ti giravi per cercare il colpevole, potevi incrociare lo sguardo furbetto di un ragazzino, fermo sulle due gambette, la terza opportunamente nascosta in ampi calzoni.
Il mondo doveva accettare la sua diversità, esattamente come lui aveva fatto.
Iniziò ad allenarsi in un campetto passandosi un pallone fra le tre gambe: divenne presto così bravo da organizzare brevi spettacoli.
Aveva assunto un completo controllo, emotivo e fisico, della propria condizione.
La famiglia gli propose invece di risolvere la questione con la chirurgia ma la risposta del dottore fu, fortunatamente, lapidaria: il gemello residuale era troppo intimamente legato a lui e l’operazione sarebbe stata estremamente pericolosa.
Così Frank si mise il cuore in pace ed iniziò ad esibirsi in altri paesi e regioni, finalmente appoggiato dai suoi genitori che cominciarono ad intravedere interessanti tornaconti economici.
U maravigghiusu” ebbe da subito un successo travolgente.
La famiglia decise così di fare un salto di qualità e trasferirsi in America dove incontrò Barnum.

Durante il XVII secolo, i cosiddetti mostri venivano esibiti nelle fiere di paese, incatenati e trattati come merce.

Alcuni, più agiati degli altri, diventavano imprenditori di se stessi, girando le corti con un vero e proprio spettacolo itinerante.

I fratelli Colloredo erano il frutto della fusione di due gemelli siamesi, uno dei quali spuntava con tutto il torso dal ventre dell’altro, che, prima dell’esibizione, teneva nascosto da un drappo.

Quando improvvisamente lo rivelava al pubblico, lui si agitava e sorrideva, le uniche cose che riusciva a fare. I loro spettacoli finivano sempre in grida di sorpresa, risolini isterici ed applausi.

Dopo che i genitori di Frank morirono, lui abbandonò Barnum ed iniziò ad esibirsi da solo.
Al di là dell’effetto scenico, ciò che affascinava e conquistava il pubblico, era la grande tranquillità e sicurezza con cui egli mostrava la sua diversità.
Le persone andavano per vedere l’ennesimo mostro e si trovavano davanti un artista, un uomo in fondo più normale di tanti altri.
Scrisse una piccola autobiografia, che distribuiva durante i suoi spettacoli, per rendere il pubblico partecipe della sua esperienza di vita.
Dopo la crisi finanziaria degli anni venti, durante la quale molti circhi rischiarono di chiudere, si prodigò per pubblicizzare la tragica situazione dei suoi ex-compagni di sventura che rischiavano di perdere in un istante tutte le loro speranze.
Ebbe una lunga carriera, una felice vita famigliare coronata dalla nascita di ben quattro figli e perfino il lusso di un’amante.
Fu un esempio di orgoglio e determinazione, riuscendo a dimostrare che si possono superare le difficoltà imposte da una natura ostile.
Frank aveva un sogno e riuscì a realizzarlo.

Torniamo al Frankenstein.

In una delle prime stesure del romanzo, all’inizio viene citato Milton (che come abbiamo detto conosceva bene villa Diodati) che nel Paradiso perduto faceva dire ad Adamo: “Ti avevo chiesto io, mio creatore, di modellarmi dal fango in forma d’uomo, ti ho mai sollecitato a trarmi dalle tenebre?”
Byron invece, che aveva già frequentato il personaggio del vampiro nel suo poema The Giaour del 1813 (dove il protagonista, colpevole di omicidio viene maledetto e trasformato in un essere assetato di sangue), era troppo compreso nel suo ruolo di poeta decadente e libertino (soprattutto preoccupato dall’imminente nascita del figlio, suo e di Claire), per prendere sul serio la sfida, ed il suo apporto, si limitò al succitato breve frammento.

Come ho detto, il racconto di Polidori è una sua rielaborazione, e ciò fu fonte di ulteriore attrito tra i due. Nello stesso modo il Dracula di Stoker (1897) deriva dal racconto di Polidori. Anche se non ci sono prove di un collegamento fra le due opere, Stoker non poteva non aver letto il racconto di Polidori ed averlo perciò in qualche modo metabolizzato.
Sicura è invece l’influenza che il racconto ebbe su Charles Nodier, scrittore francese che nelle sue opere frequentò spesso la figura del vampiro: Infernaliana ad esempio del 1822; Le vampire, del 1820 che è l’adattamento teatrale del testo di Polidori e il suo seguito letterario , Lord Ruthwen il vampiro, del 1820 (unico cambiamento, la v diventa una w).
Con il personaggio di Lord Ruthven, nobile altezzoso che si nutre delle vite degli altri e riesce così a sconfiggere anche la morte, Polidori, si prese una piccola personale rivincita, almeno letteraria, sul suo freddo e crudele datore di lavoro: Lord Ruthven è, ne più ne meno, la rappresentazione letteraria di Byron.

L’idea del vampiro energetico verrà ripresa da Tod Browning nel primo film su Dracula (il Nosferatu di Murnau non aveva avuto l’autorizzazione dalla famiglia Stoker e rischiò l’oblio).

Nella pellicola del 1931 il vampiro, magistralmente interpretato da Bela Lugosi, che s’immedesimò talmente nel ruolo da farlo diventare parte del suo modo di vivere, viene identificato non per i lunghi canini, che non appaiono mai, ma per lo sguardo intenso, magnetico e mesmerizzante.

Franz Anton Mesmer (1734-1815) diede forma alla teoria del magnetismo animale, che poi Lugosi utilizzò per ammaliare anche il grande pubblico, l’idea che bastino gli occhi, specchio dell’anima, a condizionare, guarire, affascinare, asservire.
Purtroppo la rivincita di Polidori fu di breve durata: per un’atroce beffa del destino, il racconto, dimenticato per ben tre anni, venne stampato come fosse stato scritto dal ben più famoso lord Byron (Goethe scrisse addirittura che era una delle sue opere migliori) e Polidori, dopo aver cercato inutilmente di far valere i propri diritti, si arrese alla malasorte suicidandosi nel 1821 a soli 26 anni.

La sua non sarà l’unica tragica morte: Shelley morì annegato un anno dopo, Byron nel 1824.

Il merito più significativo del racconto di Polidori è stato quello di aver sdoganato la figura del vampiro che fino ad allora appariva solo nei racconti della tradizione popolare europea (in Grecia il brucolaco, in Romania lo strigoi, in Russia l’upy e il vurdalak, in Germania il nachzehrer) dove non aveva certo l’immagine che ci ha donato in seguito il cinema e la letteratura, ma era piuttosto una lamia, uno zombi ante litteram.

Essere smunto e pallido, con unghie e capelli lunghissimi, che talvolta si nutre del suo sudario, oppure florido e rubizzo, ma solo dopo essersi cibato come una vera e propria sanguisuga antropomorfa, che si nascondeva in putride tombe, lontano dagli occhi degli uomini, temendone la rabbia e la paura.

Poco più di un animale, a volte solo un orrido cadavere affamato, un’eterea presenza.

Nella miglior tradizione pagana, la figura del vampiro serviva per spiegare le morti bianche, in culla, che, avvenendo spesso di notte quando i genitori dormivano tranquilli, venivano associate alla presenza delle strigi, rapaci notturni (civette o gufi) i cui versi striduli erano sempre di cattivo auspicio.

Polidori, con la sua operazione letteraria, gli donò invece una certa nobiltà, rendendolo parte integrante della società e facendolo così ancora più temere, perché non più facilmente riconoscibile.

Il vampiro, che Stoker definì completamente, vaga in un perenne limbo tra la vita e la morte, non appartenendo a nessuna delle due. Nonostante la valenza sessuale, è un essere tragico, un drogato perennemente solo con la propria dipendenza.

La vicenda di villa Diodati è stata portata efficacemente sullo schermo da Ken Russel nel 1986 con il film Gothic. Nel suo stile grottesco il regista fa prendere vita agli incubi dei protagonisti che, come nel famoso quadro di Fussli, incombono su di loro.

I pallidi ed eterei fantasmi di M. R. James (1862-1936) che infestavano abbazie, dimore di campagna ed antichi manieri ed i cui racconti venivano tradizionalmente letti nelle famiglie inglesi la notte della vigilia di Natale, iniziavano così la loro parabola discendente, lasciando spazio ad orrori ben più concreti e perciò inquietanti. Orrori che la psicanalisi freudiana avrebbe definitivamente portato alla luce.

Erano il subconscio fattosi carne (almeno quella letteraria).

Nella letteratura gotica l’evento soprannaturale (o anche solo weird) era stato il perno intorno al quale si era focalizzata la fantasia, ancora vergine e piena di meravigliose potenzialità, degli scrittori vittoriani.

L’opera di Edgar Allan Poe (1809-1849) è un lungo ponte tra il racconto gotico (Il barile di Amontillado, Il pozzo e il pendolo), quello soprannaturale (La maschera della morte rossa), lo psicanalitico (Il cuore rivelatore), fino a quelli di genere giallo con la trilogia di Dupin (I delitti della Rue Morgue, La lettera rubata, Il mistero di marie Roget).

Come molti scrittori weird, venne sfruttato dai suoi editori, visse in estrema povertà ed ebbe gloria riconoscita solo dopo la morte. Il fisico gracile, la psiche instabile, una cronica depressione, la schiavitù dell’alcol prima e dell’oppio poi, una giovane moglie morta di tubercolosi: tutto questo contribuì ad una vita sregolata ed infelice.

Dopo essere misteriosamente scomparso da casa, venne trovato delirante con indosso vestiti non suoi. Morì poco tempo dopo per cause che risultano ancora miseriose.

Ora toccava al mostro prendersi la scena.

Divenne una vera attrattiva per i lettori, la dimostrazione del fascino che il diverso ha sempre avuto, in questo infinito gioco a rimpiattino tra attrazione e repulsione.
L’archetipo diventò lo specchio in cui si riflettevano tutte le contraddizioni dell’uomo: il vampiro, orrido parassita ma anche simbolo di liberazione sessuale dal perbenismo; il licantropo (che appare per la prima volta nelle Metamorfosi di Ovidio, poi nel Satyricon di Petronio, e successivamente in Wagner the Wehr-wolf di G. W. Reynolds, Le loup di Maupassant, Male di luna di Pirandello e infine The Door of the Unreal di Gerald Biss) orrore ferino ma anche espressione degli istinti più primordiali; il mostro, terribile distruttore ma anche simbolo della paura dell’esistere.

Ma anche il doppio malvagio, come il bieco mr. Hyde di Stevenson, la rivelazione della parte oscura dell’animo umano, la rappresentazione dell’eterna lotta tra il super-io (ciò che definisce la nostra capacità di socializzare e la nostra moralità) e il subcoscio (i pensieri torbidi, il dolore, i traumi, ciò che, come una palla immersa nell’acqua, tentiamo di far sparire ma che torna sempre a galla).
Ciò che risultò fondamentale fu liberare il mostro dal suo fardello macchiettistico e donargli spessore narrativo e psicologico.
Diventerà lui l’unico e vero eroe della storia, mentre il buono o il normale (il Jonathan Harker della situazione), anche se si sforzerà di mettersi in luce, finirà inevitabilmente in secondo piano.
Nel Dracula di Stoker, il tortuoso percorso narrativo fatto di lettere e brani di diario, alla fine prende una strada ben precisa che arriva al cospetto dell’unico, vero terribile, carismatico protagonista: il conte. Il suo arrivo a bordo della Demeter, della quale è l’unico sopravvissuto, è lo sbarco di un vero e proprio regnante, con i topi a fargli da valletti.

Gli anni tra la metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento furono floridissimi per la letteratura di genere fantastico.

Nel delicato passaggio di secolo, mentre la società cambiava rapidamente, sviluppandosi e industrializzandosi, il mostro decise di sfruttare tutta la sua capacità adattativa, fondendo le sue caratteristiche basilari (la forza bruta di un Golem o la fame atavica del vampiro) con altre tutte nuove (la potenza dell’elettricità che riporta in vita i cadaveri, lo sguardo mesmerico che ammalia e circuisce) e che evocano una nuova paura per l’uomo moderno: la scienza.
Tutto questo porterà a cercare nuove strade da percorrere, ad affrontare territori inesplorati, oscuri ed indefiniti, affollati da creature umanamente inconcepibili, immense ed inafferrabili.

Tre sono i protagonisti di questo fertile periodo e che furono le colonne portanti della rivista antologica Weird Tales (1923-1954) fondata da J.C. Hennenberger e portata al successo da Farnsworth Wright: H.P. Lovecraft, R.E. Howard, C.S. Smith.

Howard Philip Lovecraft (1890-1937), il solitario di Providence. Ogni suo ciclo narrativo è pervaso da un orrore impalpabile, così immenso che diviene impossibile da comprendere, iperuranico ed infinito. Il ciclo dei Sogni e quello di Chtulhu fanno parte di un unico universo popolato da dei spaziali, libri maledetti, culti innominabili. La sua vita non è stata meno orrorifica. Un padre psicotico e una madre iperpossessiva (entrambi morti in manicomio), un matrimonio fallito, una perenne crisi finanziaria, incubi terribili e sfiducia in se stesso. Una vita difficile e una fama che gli verrà risonosciuta soprattutto dopo la morte per cancro.

Queste sue lapidarie affermazioni riassume il suo atteggiamento nei confronti della vita, degli uomini e dell’arte: «Sono talmente stanco dell’umanità e del mondo che nulla suscita la mia attenzione se non comporta almeno due omicidi a pagina, o se non tratta di innominabili orrori provenienti da altri spazi.», «… l’unico lettore che ho in mente è me stesso.»;

Robert Ervin Howard (1906-1936), il padre della sword and sorcery. Nonostante la vastissima ed eclettica produzione viene ricordato soprattutto per la saga di Conan il cimmero e quella dello spadaccino purtiano Solon Kane. Introverso, perennemente bullizzato dai ragazzi e dai propri genitori, vivrà profondamente immerso nei propri mondi di fantastia come fossero reali, ed avrà come unici compagni i propri eroi, burberi poliziotti o selvaggi barbari che fossero.

Come Emilio Salgari non toccherà mai con mano i paesaggi esotici dove ambientare i suoi racconti, limitandosi a documentarsi sui libri e a dare sfogo alla propria fantasia.

La morte della madre, la cui opprimente presenza gli impedì di avere forse l’unica possbilità di rapporto con una donna, lo fece entrare in una crisi che culminò con la decisione di porre fine alla propria vita con un teatrale colpo di pistola alla tempia;

Clark Ashton Smith (1893-1961) uno dei fondatori del genere fantascientifico. A parte una opprimente agorafobia, fu dei tre quello che ebbe una vita più vicina alla cosiddetta normalità. Riuscì abilmente a mixare il genere fantastico con il fantasy e la fantascienza, ambientando i suoi cicli di racconti in mondi immaginari (Xiccarph), in continenti perduti (Zothique) o sullo sfondo di un riconoscibile medioevo (Averoigne). Maghi, guerrieri, mostri, orrori di ogni genere e specie: tutta la sua opera è intrisa di queste presenze che si amalgamano perfettamente spiazzando continuamente il lettore.

Seguendo le tracce di Shelley e Stoker, questi tre monumenti della letteratura americana di genere fantastico, aprirono le porte a nuove dimensione della paura, dando forma agli incubi che ogni lettore covava nel profondo e che finalmente potè toccare con mano.

Uniti da stima ed apprezzamento per il rispettivo lavoro, si scambiarono lettere, giudizi e critiche, poco consci, probabilmente, di far parte di una generazione che avrebbe segnato la storia di questo genere letterario.

Dopo Ambrose Bierce, Sheridan Le Fanu, Algernon Blackwood, William Hope Hodgson, Arthur Machen e prima di Ramsey Campbel, Robert Bloch, Brian Lumley e, ovviamente, Stephen King.

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