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Venezia 2019

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76a MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA
 
Il Festival 2019 conferma, in generale, il buon livello delle ultime edizioni, anche se ho trovato, mediamente, le pellicole del Concorso Ufficiale leggermente inferiori a quelle visionate negli ultimi anni. Non possiamo parlare di brutti film, ma di una “piattezza” diffusa, pellicole ben fatte ma poco emozionali. Solamente quelle premiate hanno mostrato una qualità effettivamente superiore. I due premi più importanti, il Leone d’Oro per il Miglior Film ed il Leone d’Argento – Gran Premio Della Giuria, sono andati rispettivamente a “JOKER” di Todd Phillips (Usa) ed a “J’ACCUSE” di Roman Polanski (Francia, Italia), anche se personalmente ne avrei invertito l’ordine.
Il “JOKER” di Todd Phillips ha la forza di non essere il solito film di supereroi ed effetti speciali. È un Joker nella sua disperazione embrionale, ancora là da divenire il super cattivo nemico di Batman. Gotham City (nel film del 1981) è una New York contemporanea e piena di problemi, homeless, sporcizia, degrado, disuguaglianza e disperazione sociale, dove Arthur Fleck (interpretato da un superlativo Joaquin Phoenix), aspirante cabarettista con problemi psicologici e affetto da “risata patologica” (disturbo emotivo di origine neurologica), cerca di sopravvivere nel sogno di un successo professionale. Lo scontro con il proprio passato e con l’angosciante società intorno a lui, ne decreterà la discesa definitiva verso la pazzia e la rinascita nel personaggio di Joker, paradossalmente nuovo simbolo di riscatto sociale per tutti gli emarginati della città. La presenza nel cast di Robert De Niro nel ruolo di un presentatore di un talk show televisivo, è un chiaro omaggio a “Re Per Una Notte” di Martin Scorsese, una delle fonti d’ispirazione della pellicola.
“J’ACCUSE” di Roman Polanski è il film più bello, a mio parere, visto nel Concorso Ufficiale. È l’adattamento cinematografico del famoso “Affaire Dreyfus” (già ricco di numerosi adattamenti sia cinematografici che televisivi), clamoroso caso di discriminazione antisemita nella Francia della Terza Repubblica di fine ‘800, quando un ufficiale di artiglieria ebreo alsaziano dell’esercito francese, venne accusato dai servizi segreti di spionaggio a favore dell’Impero Tedesco. Il titolo fa riferimento alla famosa lettera di Émile Zola pubblicata su “Le Figaro” che si schierò contro le gerarchie militari, in seguito alla scoperta, da parte del colonnello Picquart nuovo capo dei servizi segreti, di fatti comprovanti l’innocenza di Dreyfus, e che in seguito alle sue rivelazioni venne poi rimosso dal suo incarico.
La ricostruzione di Polanski è solida e rigorosa, il film trasmette in pieno le atmosfere della Parigi dell’epoca con la trasposizione cinematografica delle scene dei quadri impressioni contemporanei. Una pellicola di spessore superiore, che meritava un giudizio più neutrale rispetto alle polemiche innescate dalla Presidente di Giuria di questa edizione del Festival, Lucrecia Martel, nei confronti di Polanski, peraltro unica e vera polemica in un Festival che i più hanno giudicato eccessivamente tranquillo. Questi a mio parere i due film migliori del Concorso Ufficiale ai quali si è aggiunto in extremis l’ultimo giorno “LA MAFIA NON È PIÙ QUELLA DI UNA VOLTA” di Franco Maresco (Italia), vincitore del Premio Speciale Della Giuria. Maresco continua il percorso intrapreso nel precedente “Belluscone – Una storia siciliana”, ripescando l’inquietante personaggio di Ciccio Mira alle prese con l’improbabile nonché sospetta organizzazione di uno spettacolo allo Zen di Palermo per commemorare i giudici Falcone e Borsellino. Il film di Maresco parte dalle celebrazioni ufficiali che ogni anno, il 23 maggio, vengono organizzate a Palermo, affiancato dalla fotografa palermitana Letizia Battaglia, per addentrarsi nelle contraddizioni di una città che in realtà, soprattutto nei suoi strati più popolari, ne sembra piuttosto lontana, se non addirittura in netto disaccordo. La pellicola, in perfetto stile del regista, diventa anche una divertente ed inquietante passerella d’improbabili personaggi che si muovono borderline fra la voglia di apparire ed il rifiuto di schierarsi apertamente contro la mafia. Per quanto riguarda gli altri premi, il Leone d’Argento – Premio per la Migliore Regia è andato a Roy Andersson per il film “OM DET OÄNDLIGA (ABOUT ENDLESSNESS)” (Svezia, Germania, Norvegia), regista che personalmente adoro, ma che stavolta non mi ha particolarmente impressionato, con una pellicola, a mio parere, decisamente inferiore al precedente “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” con cui vinse il Leone d’Oro qui a Venezia nel 2014. La Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile è andata a Luca Marinelli per il film “MARTIN EDEN” di Pietro Marcello (Italia, Francia), premio, credo, frutto anche dalla voglia di premiare il cinema italiano in Concorso, quest’anno emerso, causa anche un livello generale più modesto, in maniera più evidente. Per inciso, “MARTIN EDEN” è il film fra i tre italiani del Concorso, che ho apprezzato meno. L’altra Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile è andata a Ariane Ascaride per il film “GLORIA MUNDI” di Robert Guédiguian (Francia, Italia), premio più che per lo specifico film, soprattutto un omaggio alla brillante e lunga carriera del regista francese. In particolare, questa pellicola mi ha particolarmente colpito, lasciandomi piuttosto turbato, perché Guédiguian, che attraverso i suoi film ha sempre rappresentato la classe operaia alle prese con mille problematiche economiche e lavorative e che alla fine trovava un riscatto nella famiglia e nella solidarietà umana, stavolta getta uno sguardo senza speranza su una società odierna che ha intaccato anche i valori umani, lasciandoci disorientati sulla direzione da seguire per perseguire la tranquillità.
Da segnalare il Premio per la Migliore Sceneggiatura al film “JI YUAN TAI QI HAO (NO.7 CHERRY LANE)” di Yonfan (Hong Kong SAR, Cina), unico film di animazione del Concorso Ufficiale. Al di là della specifica qualità del film, personalmente non lo avrei inserito in Concorso perché è un prodotto particolare che andrebbe giudicato in un ambito più specifico all’interno di un festival di animazione. Non ci troviamo di fronte a un Hayao Miyazaki o un film Disney con caratteristiche riconoscibili ai più. Ho paura che il giudizio possa non essere stato completamente obiettivo sul valore della pellicola. Per il resto, il Concorso ha ospitato film più o meno convincenti. Fra i convincenti sicuramente “MARRIAGE STORY” di Noah Baumbach, regista che continua a proporci il suo cinema di grandi dialoghi ed ottime prove di attore (in questo in particolare Scarlett Johansson e Adam Driver). Molti però, come già anticipato, i deludenti. Dal film di Olivier Assayas più adatto ad un Fuori Concorso, al già citato Roy Andersson, ai film di Atom Egoyan, di Haifaa Al Mansour, e di James Gray con il suo fantascientifico “AD ASTRA”, prodotto ed interpretato da Brad Pitt. Nemmeno il primo film europeo di Kore-eda Hirokazu ha lasciato particolarmente il segno. Un ultimo discorso a parte lo merita il nuovo lavoro di Pablo Larraín “EMA”, che dopo la sua trilogia della storia del Cile (Tony Manero, Post Mortem, No – I giorni dell’arcobaleno) e le sue biografie (Neruda, Jackie), ci spiazza con un film che è “Una meditazione sul corpo umano, sulla danza e sulla maternità”. Film che non ho particolarmente apprezzato, a tratti anche irritato, sicuro però che una parte della critica ufficiale lo abbia adorato. Sospendo quindi ogni giudizio per chi vorrà visionarlo in sala.
Numerosi premi anche nella bella sezione “Orizzonti”, di cui volevo segnalare soprattutto il film vincitore “ATLANTIS” di Valentyn Vasyanovych (Ucraina), un’eccezionale fotografia sul drammatico conflitto in atto nell’Ucraina orientale, la Guerra del Donbass. Il regista ambienta la pellicola nel 2025, a conflitto terminato, un “auspicio” odierno che la guerra possa, in quella data, non essere più in atto. “Atlantis” è il mondo che ci lascia il conflitto, una civiltà perduta dove si dissotterrano i cadaveri da riconoscere, dove le persone che hanno combattuto impazziscono, dove le fabbriche sono distrutte e l’economia e l’ambiente sono totalmente da ricostruire. In questi spazi di drammatica memoria, si torna alla ricerca di una normalità di rapporti e di una ricostruzione se non altro di solidarietà umana. Anche “Le Giornate degli Autori”, che in questo Festival ho ricominciato a frequentare in maniera un po’ più seria rispetto alle ultime edizioni, hanno offerto buoni spunti. Fra i film da me visionati, da segnalare “BARN” di Dag Johan Haugerud (Norvegia, Svezia) e “BOŻE CIAŁO” di Jan Komasa (Polonia, Francia).
Per ultimi, due documentari Fuori Concorso da segnalare. “COLECTIV” di Alexander Nanau (Romania, Lussemburgo), ha seguito in tempo reale un’inchiesta che un giornale rumeno fece in seguito all’incendio del Colectiv, un locale notturno andato a fuoco durante un concerto, a causa del sistema di sicurezza non a norma, in cui trovarono la morte 64 persone e vi furono 153 feriti. Il fatto portò alle dimissioni del governo dell’epoca, dopo che una folla di circa 20.000 persone manifestarono per le strade della capitale. L’inchiesta sulle morti portò ulteriormente alla luce un drammatico sistema sanitario corrotto, causa di ulteriori morti dopo i ricoveri negli ospedali di persone in condizioni non particolarmente gravi. Un vaso di Pandora scoperchiato su un sistema che toccava la politica, le multinazionali e le strutture ospedaliere, con l’aggravante di aver riportato al governo forze populiste che hanno difeso in realtà il proprio sistema sanitario, inadeguato, però alla luce dei fatti, ad affrontare certe emergenze. La ciliegina sulla torta di una situazione che ha del paradossale, è sapere che il giornale che fece l’inchiesta fu la Gazzetta dello Sport rumena.
L’altro documentario da segnalare è italiano, “SE C’È UN ALDILÀ SONO FOTTUTO. VITA E CINEMA DI CLAUDIO CALIGARI” di Simone Isola e Fausto Trombetta, commovente omaggio al regista morto nel 2015, appena terminato il montaggio del suo ultimo film “Non essere cattivo”. Ripercorrendo la vita e soprattutto le pellicole (solamente tre in una carriera di 45 anni), ci si rende conto di come il cinema italiano abbia gettato al vento la grande occasione di valorizzare un regista che, nelle sue poche opere venute alla luce, avesse dimostrato un talento ed una visione della realtà contemporanea nettamente in anticipo sui tempi. Regista che, probabilmente considerato troppo “scomodo”, ci lascia in eredità, con tanti rimpianti, una marea di sceneggiature di film non realizzati ed una generazione di attori lanciati da lui (Mastandrea, Giallini, Tirabassi, Borghi, Marinelli) che lo hanno conosciuto, ne sono diventati amici, e portano avanti il suo ricordo.
 

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