L’abuso è tale soltanto per chi lo subisce.
Stanislav J. Lec
Consideriamo il reato contro la Pubblica Amministrazione per antonomasia, la fattispecie in cui cioè un pubblico dipendente, violando i propri doveri di agente al servizio del bene collettivo approfitta del proprio
status per ottenere un vantaggio oppure per causare un danno ad altri soggetti privati. Questo provoca ovviamente una grave lesione del buon andamento, e della stessa immagine, della pubblica amministrazione, oltre che far emergere l’esigenza di tutelare il privato cittadino dalle prevaricazioni dell’autorità
[1].
L’art.323 del Codice Penale prevede e punisce l’Abuso d’ufficio, in realtà immediatamente definito come figura “residuale” di delitto contro la P.A. dallo stesso
incipit della norma: “
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”. Di conseguenza il “semplice” abuso può ricorrere solo quando non ci si trovi di fronte alle ipotesi più significative di
concussione[2] e
corruzione[3].
Il reato di concussione, in particolare, punisce solamente la condotta “costrittiva”: in altre parole, non è sufficiente che il pubblico funzionario induca il privato cittadino che si rivolge alla P.A., a “dargli qualcosa” oppure gli faccia capire “vagamente” che è tenuto ad avvantaggiarlo ingiustamente
[4]. Si ha concussione solamente quando la vittima si trovi davanti all’alternativa, priva di scelta, di accettare le condizioni illecite poste dal dipendente pubblico o di subire la minaccia prospettata
[5].
La sostanza della norma è contenuta nella seconda parte del I comma art.323: “…
il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni…”.
Ora è evidente, dalla formulazione della norma, che si tratta di un
reato proprio, nel senso che può essere commesso solo da un pubblico ufficiale, o un
incaricato di un pubblico servizio, nello svolgimento delle sue funzioni.
La definizione di
pubblico ufficiale si ricava dall’art. 357 del C.P.. E’ tale colui che esercita una funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria con o senza rapporto di impiego con lo Stato, temporaneamente o permanentemente
[6]. La qualità di pubblico ufficiale è stata riconosciuta nel tempo, soprattutto dalle sentenze dei Magistrati e limitatamente allo svolgimento delle peculiari funzioni, a diversi soggetti: i consulenti tecnici, i periti d’ufficio, gli Ufficiali Giudiziari e i curatori fallimentari, quali ausiliari del giudice; i portalettere e i fattorini postali; gli Ispettori e gli ufficiali sanitari; i notai; il Sindaco quale ufficiale del governo; i consiglieri comunali; gli appartenenti alle forze di polizia e armate; i vigili del fuoco e urbani; i Magistrati nell’esercizio delle loro funzioni
[7]. L’
incaricato di un pubblico servizio (art.358 C.P.)svolge, al contrario, funzioni residuali, ma non mansioni meramente manuali: ad esempio, l’infermiere è, di norma, un incaricato di un pubblico servizio
[8]. Sono incaricati di pubblico servizio anche coloro che sono investiti di una concessione pubblica: si pensi al settore delle concessioni radiotelevisive.
La condotta deve essere compiuta nello svolgimento delle funzioni o del servizio pubblico, e deve integrare la violazione di norme di legge o di regolamento (tra cui le norme che impongono al pubblico funzionario l’astensione in caso di “conflitto d’interessi”). Quindi la rilevanza del comportamento è collegata ad un quid di immediata verificabilità: la contrarietà a regole scritte. Di conseguenza, l’abuso effettuato mediante omissione, ricorrerà anche quando il comportamento violi un obbligo di attivarsi, di compiere un fare da parte dell’agente pubblico; in questo caso particolare nel caso ricorrano gli altri elementi richiesti dalla norma in esame, si avrà “abuso” e non semplice “Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione” (art.328 C.P.), figura che rimane assorbita, purché si tratti “del mancato esercizio di un potere esplicitamente attribuito al pubblico funzionario da una norma di legge o regolamentare” (Cass. n. 41697/2010).
L’ancora ampia formula della norma consente di ritenere oggetto del reato non solo i tipici provvedimenti amministrativi, bensì qualunque specie di atto o attività posta in essere dal funzionario, purché risultante da norma scritta.
Il reato di abuso d’ufficio è stato oggetto negli ultimi anni di due riforme legislative, con la L. n. 86/1990 e la L. n. 234/1997, che ne hanno profondamente modificato l’assetto, “ridimensionando” l’astrattezza e la genericità della norma e ridefinendo la fattispecie criminosa entro confini più delimitati. Come detto, a differenza della previgente disciplina, considerata una sorta di “norma penale in bianco”, la attuale formulazione dell’art. 323 C.P. subordina l’illecito penale al verificarsi di determinate condotte che intenzionalmente procurano un
danno ingiusto o un
ingiusto vantaggio: in altri termini, solo la condotta produttrice dell’ingiusto danno o dell’ingiusto vantaggio potrà integrare il reato
de quo. Infatti, l’abuso d’ufficio rappresenta un
reato di evento, il cui “disvalore penale” si realizza al momento dell’effettiva produzione di un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé (o altri soggetti) o di un danno ingiusto ad altri
[9]. Il danno per il terzonon viene, in realtà, specificato e, pertanto, può consistere in qualsiasi aggressione ingiusta nei confronti della sfera personale o patrimoniale del soggetto passivo
[10].
Un’ulteriore recente riforma (L. 6 novembre 2012, n. 190), ha previsto un aumento di pena, prima prevista nei limiti edittali da sei mesi a tre anni, negli attuali da uno a quattro anni di reclusione.
Si sottolinea ancora che l’abuso deve essere commesso dall’agente “pubblico” allo scopo di perseguire un ingiusto vantaggio o causare un danno
“intenzionalmente”.L’attuale formulazione non delinea più, come nel testo precedente alle riforme citate, un reato di evento a dolo specifico bensì a
dolo generico, che assume la forma necessaria del “dolo intenzionale”
[11].
Da quanto finora detto si può comprendere che l’abuso di ufficio è un reato a forma libera, nel senso che può essere integrato in diversi modi. In altre parole, non esiste un’unica condotta che possa realizzare il reato, ma i comportamenti vietati possono essere molteplici. Ad esempio, il pubblico ufficiale che riveli il titolo delle tracce delle prove scritte di un concorso pubblico, violando così la norma che impone il dovere del “segreto di ufficio” per i dipendenti della pubblica amministrazione, commette abuso d’ufficio. Altro esempio di reato di abuso d’ufficio si riscontra nel rilascio, da parte del dirigente, di un permesso di costruire in violazione delle norme che disciplinano le costruzioni edilizie, ecc.
“In quarant’anni di Pm non ho mai visto un sindaco finire in galera per l’evanescente reato di abuso d’ufficio. In compenso, le spese legali, le sofferenze psicologiche, le aggressioni mediatiche e, non ultima, la solita richiesta di «autosospensione in attesa dell’esito» sono tali da esasperare, e talvolta annichilire, anche gli animi più vigorosi”[12]. Le recenti parole del Magistrato Carlo Nordio ci permettono di affrontare il “punto politico” relativo alla disciplina del reato di abuso d’ufficio: una parte di giuristi, magistrati ed esponenti politici ritengono che l’abuso d’ufficio sia una fattispecie di reato da eliminare dal nostro ordinamento, come rimedio radicale alle difficoltà dei pubblici amministratori, vessati da una marea di inchieste giudiziarie.
In altre parole, il timore da parte di Sindaci, Assessori e altri Pubblici amministratori in genere, che ogni loro atto amministrativo sia prodromico ad una denuncia per “abuso d’ufficio”, soprattutto per ragioni di opposizione politica, è fenomeno effettivamente ricorrente che ha comportato, in numerosi casi negli ultimi anni, una paralisi dell’attività della P.A. Per di più quasi tutte le inchieste hanno dimostrato, statisticamente, di finire nel nulla. Per verificare l’abuso d’ufficio, infatti, occorre dimostrare sia l’illegittimità dell’atto emanato, sia la volontà di realizzarla, per il conseguimento di un profitto o la produzione di un danno (ingiusti) ad altri. In pratica, il magistrato deve ripercorrere tutto l’iter amministrativo conclusosi con il provvedimento incriminato, e dimostrare che non si è trattato di errore, ma di preordinazione dolosa. Un percorso lungo, una ricerca difficile, una prova diabolica con un esito negativo, sovente, scontato.
Per altro verso c’è chi sostiene una posizione meno estrema, richiedendo almeno una riforma dell’istituto
[13], riconoscendo l’estrema difficoltà nel distinguere il fatto penalmente rilevante dalle mere irregolarità amministrative, e il fenomeno ricorrente della “fuga dalla firma” dei provvedimenti amministrativi.
Le denunce per abuso d’ufficio rappresentano circa un terzo di quelle presentate per reati contro la Pubblica amministrazione, ma in maggioranza i fascicoli si chiudono con l’archiviazione. Quelli per i quali viene disposto il rinvio a giudizio si concludono con una condanna in meno del 20% dei casi. Insomma, una differenza enorme rispetto alle risorse impiegate per avviare le indagini.
Tali criticità non giustificano affatto l’idea che sia possibile eliminare il reato; i favoritismi o i danni arrecati volontariamente da amministratori pubblici non possono “non essere puniti”, perché sono comportamenti di grave distorsione dell’azione amministrativa degni di sanzione penale, per di più spesso spia di fatti più gravi; molte delle ipotesi di corruzione vengono scoperte proprio a seguito di indagini partite per abuso di ufficio e l’eliminazione di questo reato comporterebbe un danno enorme nel contrasto al più grave fenomeno corruttivo.
L’obiettivo di un’eventuale riforma dunque deve essere chiaro; nessun cancellazione per una fattispecie che resta indispensabile per il controllo di legalità dell’azione amministrativa, ma maggiore precisione nell’indicazione dei presupposti, in modo che gli episodi di mera irregolarità non consentano nemmeno l’avvio di un’indagine penale e debbano essere trattati attraverso gli ordinari “controlli amministrativi”.
Occorre elaborare, al di fuori di ogni scontro ideologico e lontano da esigenze di “campagna elettorale”, un testo che possa servire davvero per le indagini penali e al tempo stesso impedire ingiustificati alibi per non agire contro gli abusi nell’attività pubblica.
Finisce per cadere nel torto chi abusa delle sue ragioni.
Georg Lichtenberg