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New York – Parigi, dal terrorismo alla guerra globale

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«Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere,
ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile
che prima o poi provocherà l’esplosione»
(papa Francesco, Evangelii gaudium)
 
Sono serviti alcuni giorni per metabolizzare quel che è avvenuto a Parigi e tentare di non unirsi al frastuono dei tanti che, sin da subito, hanno voluto coprire il sangue con parole, commenti, critiche, giudizi. Terrorismo islamico, guerra di civiltà, barbarie inaudite, e poi diritto di parola, libertà di pensiero, stato di diritto, e ancora medioevo contro illuminismo, kalashnikov contro matite, tutti contro tutti, senza cogliere il fatto che, per costruire un mondo migliore e diverso, dovremmo invece individuare qualcosa su cui impegnarci responsabilmente insieme.
 
Il terrorismo internazionale di ieri
Sembra ieri, e sono passati quasi quattordici anni: quella mattina dell’11 settembre 2001 che, per molti, ha cambiato la storia si è riproposta nitida o sfuocata davanti agli occhi del mondo, ma in un contesto diverso, in un anonimo palazzo parigino.
Nel settembre 2001, i quattro aerei dirottati e usati come folli bombe per colpire i centri nevralgici della più grande potenza del pianeta hanno raggiunto il loro obiettivo: non tanto quello di creare distruzione e morte quanto di destabilizzare la comunità internazionale e legittimare ogni successivo passo volto a combattere il “male”.
In effetti, i danni materiali furono relativamente lievi visto che solo a Manhattan ci furono danni consistenti, mentre a Washington il Pentagono venne solo “scalfito” e la Casa Bianca risparmiata dal sacrificio del quarto aereo. Dunque, i poteri economico, militare e politico posti sotto attacco da un nemico tanto evanescente quanto pericoloso che, pur nella sua inconsistenza, è riuscito a colpire al cuore con una azione circoscritta, di inaudita violenza e di forte carattere simbolico: niente di più e niente di meno di ciò che ci si aspetta dai terroristi! Destabilizzare psicologicamente il nemico, più che infliggere veri e propri danni materiali.
Ciò che poi seguì a quei fatti è a tutti noto: guerra in Afghanistan, poi in Iraq, e innumerevoli altri interventi indistintamente posti sotto l’etichetta sempre valida di “guerra al terrorismo”, dicitura che nulla ha a che fare con la nozione classica di “guerra” e che spesso è stata impiegata in maniera alquanto leggera anche per avversari che nulla avevano a che fare con il “terrorismo” che si diceva di combattere.
Un po’ polemicamente, ricordiamo che pure Gesù venne accusato di terrorismo contro i poteri costituiti nella Palestina romana, e Silvio Pellico dall’autorità austriaca nel Lombardo Veneto, e Osama Bin Laden da coloro che pochi anni prima lo avevano finanziato e utilizzato per altri fini. Forse è azzardato accostare questi tre personaggi?
Nonostante questo, o forse proprio a causa di questo, al momento attuale il diritto internazionale non conosce ancora una nozione universalmente accettata per descrivere la fattispecie di “terrorismo” e i lavori delle molte commissioni che dovevano portare alla redazione di convenzioni ad hoc si sono sempre conclusi con un nulla di fatto, lasciandoci dunque navigare a vista con le definizioni che ce ne offrono le enciclopedie, la nostrana Treccani[1] o la Britannica[2].
In sostanza, possiamo dire di essere di fronte ad atti di terrorismo quando si realizzano episodi di violenza perpetrati al di fuori di contesti di legittimazione, nei confronti di una specifica comunità, al fine di perseguire precisi obiettivi politici, con lo strumento del terrore.
Definizione alquanto vaga che permette di ricomprendervi tanto, e di essere impiegata in maniera strumentale da chiunque, in buona e mala fede.
 
La guerra globale di oggi
Dal settembre 2001 al gennaio 2015 abbiamo assistito ad una continua e crescente contrapposizione asimmetrica tra soggetti statuali e altre entità più o meno organizzate: Al Qaida, la prima e più famigerata, per non parlare di stati-canaglia come l’Iraq di Saddam Hussein o il Sudan, per passare poi a Boko Haram e al califfato dello Stato Islamico che, dai deserti della Mesopotamia, sembra riuscire ad influenzare schegge isolate ai quattro angoli del pianeta, da ultimo Parigi.
Una Parigi ben differente da New York, benché le parole sembrano le stesse: “siamo tutti americani” ieri, “siamo tutti Charlie” oggi; guerra di civiltà, tra religioni, senza quartiere, con l’unico risultato concreto di svendere i diritti civili in cambio di una apparenza sicurezza, di rivitalizzare gli atteggiamenti xenofobi e razzisti terreno di cultura di formazioni politiche di estrema destra, di chiudere le comunità di Europa e Nord America in individualismi sempre più autocentrati in balia di paura e sospetto.
Ma se siamo tutti qualcuno o qualcosa d’altro, chi sarà in grado di rimanere se stesso?
Jacques Attali, noto economista francese, ha scritto «In un mondo oggi già insopportabile e che, presto, lo sarà molto di più, è tempo per ciascuno di prendersi in mano, senza attendere indefinitivamente soluzioni miracolose. Non si tratta di resistenza, né di resilienza. Ma di diventare se stessi. Da Gandhi a Steve Jobs, da Buddha a Picasso, sono molti, coloro i quali si sono liberati da determinismi e ideologie, per scegliere il proprio destino e cambiare il mondo. Oggi, migliaia di traiettorie umane, celebri o sconosciute, danno il segnale di un nuovo Rinascimento. Tutte spingono a riflettere sul cammino che ciascuno deve intraprendere, per scegliere e e avere successo nella propria vita. Più numerosi saranno quelli che non si rassegneranno, più profonda sarà la democrazia, più energie verranno liberate, maggiori ricchezze saranno create»[3], ma noi ne saremo capaci? E la comunità internazionale?
All’indomani dell’attentato presso la redazione del giornale satirico francese, le reazioni sono state molteplici e prevedibili: sdegno verso la violenza, sostegno alla libertà di pensiero e di espressione, lodi alla laicità di stato di stampo illuministico, piena solidarietà tra grandi e piccoli governanti uniti contro il comune nemico. E tutto ciò senza pensare alla violenza che anche noi continuiamo a fomentare con le nostre bombe, alle libertà che calpestiamo quando riteniamo possano ledere i nostri interessi, al terrore che si sviluppò dalle illuministiche ghigliottine, a quanto siano translucidi certi capi di stato e di governo che hanno marciato col sorriso per le strade di Parigi salutando le folle ma che non esitano ad aprire il fuoco sulle strade di casa propria.
Di sicuro, la Francia, a differenza degli Stati Uniti di Bush, non dichiarerà guerra a nessuno per due ragioni entrambe valide: la prima è che i terroristi coinvolti pare fossero tutti di nazionalità francese; la seconda è che l’ipotetico mandante sembra essere lo Stato Islamico, che non è uno stato ma contro cui la Francia è già impegnata militarmente. Dico “pare” e “sembra” perché ancora molti sono gli elementi non chiari nella vicenda e, probabilmente, così rimarranno a lungo.
 
Lo scenario possibile di domani
A questo punto, prendo a prestito le parole della giornalista argentina Ivonne Bordelois che, in maniera polemica ma condivisibile, dice «morire per mano di terroristi islamici a Parigi o New York vale più che morire sotto le bombe cristiane nei deserti dai nomi impronunciabili in Medio Oriente. Fanatismo, no. Ipocrisia, tantomeno»[4].
Perché il rischio a cui possiamo andare incontro è questo: ammantarci della nostra superiorità per imporre ciò che riteniamo giusto a tutti gli altri, senza renderci conto che già le analoghe operazioni a stelle e strisce per l’esportazione della democrazia hanno prodotto fino ad ora effetti nefasti.
Dobbiamo invece prendere coscienza che solo l’avvio di serie analisi sulle cause delle diseguaglianze nel mondo e il riconoscimento delle responsabilità di ciascuno può condurre ad adottare misure efficaci per intraprendere processi di “mondo migliore” che comprendano riforme sociali, politiche, giuridiche, economiche.
Utopico? Forse. Impossibile? Non credo. Arduo? Certamente.
E altrettanto certe saranno le opposizioni che da più parti si frapporranno su un simile cammino futuro.
A noi resta di fare del nostro meglio affinché questo ulteriore episodio di sangue non generi solo altra cieca e stupida rabbia, non serva da alibi per coprire meschine mosse di grandi interessi politici, non venga strumentalizzato per scrivere pagine di storia addomesticata dimenticando le vere persone coinvolte.
Molti anni fa, già Bertolt Brecht sentenziava che «Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico»: mi auguro di cuore di avere tutti la capacità di distinguere il fratello dal nemico, di impegnarci con lui a migliorare il mondo, di riuscire a convertire il nemico o abbandonarlo nella sua valle di lacrime. 
 
 

[1]    Cfr. http://www.treccani.it: «L’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili».
[2]    Cfr. http://britannica.com: «The systematic use of violence to create a general climate of fear in a population and thereby to bring about a particular political objective. Terrorism has been practiced by political organizations with both rightist and leftist objectives, by nationalistic and religious groups, by revolutionaries, and even by state institutions such as armies, intelligence services, and police». 
[3]    Cfr. Jacques Attali, Devenir soi, Fayard, 2014.
[4]    Cfr.  Ivonne Bordelois, Otra mirada sobre Charlie Hebdo, La Nacion, 13 de enero de 2015.

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