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III guerra mondiale o guerre del III millennio

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il mondo globalizzato si interroga
 
«E oggi noi siamo in un mondo in guerra, dappertutto!
Qualcuno mi diceva: “Lei sa, Padre, che siamo nella Terza Guerra Mondiale, ma a pezzi?”»
(papa Francesco, 18 agosto 2014)
 
Dal 1945, con la fine della II guerra mondiale, il mondo ha conosciuto un ininterrotto periodo di pace sanguinosa: i conflitti armati si sono susseguiti senza sosta, in maniera più o meno cruenta, più o meno diffusa, più o meno mediatizzata.
Tutti, comunque, hanno lasciato sul campo morte, distruzione, e profonde ferite che marcano la storia dell’umanità intera, non solo delle popolazioni direttamente coinvolte.
La comunità internazionale ha tentato di controllare il fenomeno bellico: con le Nazioni Unite[1], imponendo la ricerca soluzioni non violente alle controversie tra Stati, con il sistema delle Convenzioni di Ginevra[2], per normare i conflitti, con i vari Tribunali Penali Internazionali[3], per perseguire le violazioni. Ma in tutti i casi, gli strumenti ideati per prevenire, regolare o giudicare hanno dimostrato la loro incapacità nell’evitare un fenomeno tanto umano quanto diabolico che è quello della guerra.
A maggior ragione oggi, dopo l’11 settembre 2001, con la tanto declamata “guerra al terrorismo globale”, dove si mantiene il termine “guerra” per poter procedere ad una generale chiamata alle armi ma si scolora l’identità del nemico in un generico “terrorismo globale” per poter poi affibbiare questa scomoda etichetta all’antagonista del momento in maniera strumentale e demagogica.
 
Le guerre nel diritto internazionale
Il diritto ha la sua vocazione intrinseca a normare ogni fenomeno umano, ma capiamo bene come il momento di maggior disordine nelle relazioni tra uomini, quale quello rappresentato dalle guerre, sia di difficile se non impossibile regolazione.
Nel vigente diritto internazionale non esiste una definizione precisa di “conflitto armato”, termine che in maniera eufemistica ha sostituito il precedente “guerra”, e ci si riferisce dunque alla produzione giurisprudenziale per avere una fattispecie condivisa.
Nello specifico, la nozione che trova il maggior consenso tra i giuristi è quella coniata dal Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia[4] nel caso Tadic[5] ove si afferma che si ha conflitto armato nei casi di «ricorso alla forza armata tra Stati», di «esercizio protratto della violenza tra autorità governative e gruppi armati organizzati» o «tra gruppi armati organizzati, all’interno di uno Stato»[6].
Dunque, in sintesi, secondo tale nozione si ha conflitto armato nel caso di esercizio della violenza tra Stati o gruppi armati organizzati protratto nel tempo, comunque all’interno di uno Stato.
Come inserire in questo quadro la cosiddetta “guerra al terrorismo”, lanciata dall’amministrazione statunitense all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001? La realtà pare condurre a sostenere che uno Stato, o una coalizione di Stati, non possa entrare in guerra contro una realtà così fluida come una organizzazione terroristica e, ancor meno, contro “il terrorismo globale”.
La stessa dottrina giusinternazionalistica sostiene che «le guerre sono fatte da Stati, suppongono confini e territori, eserciti regolari e nemici certi e riconoscibili»[7] e già nel XVI sec. Alberico Gentili, uno dei padri del diritto bellico, lapidario dichiarava che la guerra è «publicorum armorum contentio»[8].
A questo punto, però, molte delle situazioni di conflitto in atto nel mondo paiono fuggire dalle rigide definizioni dei trattati internazionali e anche dalle formule, comunque soggette ad interpretazione, adottate da asettiche corti di giustizia lontane migliaia di chilometri dai campi di combattimento.
 
Le guerre oggi nel mondo
Per cercare di mediare a questa distanza tra il reale e il legale, alcuni importanti istituti di ricerca ogni anno provvedono a pubblicare studi aggiornati sullo stato delle guerre nel mondo, studi per i quali hanno elaborato set di criteri fattuali alla luce dei quali individuare e classificare gli atti di guerra.
Il rapporto più noto e completo è quello pubblicato annualmente dall’Uppsala Conflict Data Program[9], del Dipartimento per la Pace dell’Università di Uppsala in Svezia.
I ricercatori svedesi hanno individuato alcuni parametri per  discriminare tra i differenti scenari di violenza presenti a livello mondiale, senza ricadere nelle classificazioni giuridiche classiche. In particolare, si prende in considerazione il numero di vittime accertate nel corso dell’anno (sopra le 1.000 si parlerà di guerra conclamata, tra 25 e 1.000 di conflitti armati di bassa o media intensità), e la natura delle parti (forze militari governative o gruppi armati comunque organizzati).
In applicazione di detti criteri, nel periodo 2013-2014, i paesi più martoriati da guerre sono Siria (oltre 70.000 vittime), Sud Sudan e Messico, nella “guerra” delle cosche per il controllo del traffico di droga (ognuna con più di 10.000 morti), Iraq (quasi 8.000 morti), Afghanistan e Pakistan (più di 5.000), Israele-Palestina (2.200), Nigeria (oltre 1.600), Ucraina, Egitto e Repubblica Centrafricana (più di 1.000); mentre conflitti di bassa e media intensità coinvolgono Algeria, Libia, Mali, Uganda, Mozambico, Sudan, Etiopia, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Yemen, Turchia, Russia, Azerbaijan, Cina, India, Myanmar, Thailandia, Malesia, Filippine, Colombia e Stati Uniti (fuori del proprio territorio).
Altro interessante studio è offerto dal Barometro dei Conflitti dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research[10] dell’Università di Heidelberg, in Germania.
In questo caso, il “barometro” impiega indicatori più variegati per classificare le ostilità: armati in campo per mese, numero di vittime dichiarato, distruzione di edifici pubblici e privati, numero di sfollati a causa dei combattimenti.
Con ciò si arriva ad una classificazione che va da 1 per una semplice contesa, anche di natura diplomatica, a un massimo di 5 per un conflitto armato vero e proprio.
Dall’applicazione di questi parametri, risulta che vi sono 15 paesi coinvolti in 20 guerre, mentre altri 11 sono interessati da 25 conflitti “ristretti”: i primi, Messico, Mali, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Sudan, Egitto, Somalia, Yemen, Iraq, Siria, Afghanistan, Pakistan e Filippine; i secondi, Colombia, Brasile, Algeria, Tunisia, Libia, Kenya, Uganda, Turchia, Russia, India e Myanmar.
Dall’analisi tedesca, emerge evidente come le situazioni maggiormente esplosive non siano dovute a confronti inter-statuali bensì a conflitti interni, tra forze governative e gruppi organizzati di varia natura (su 176 casi registrati, 165 sono riconducibili a scontri tra fazioni all’interno di una stessa nazione)[11].
 
Le guerre di domani
Se quella sopra descritta è la situazione ad oggi, difficile è prevedere come gli scenari potranno evolversi nei prossimi decenni.
Sicuro e terribile è il trend assunto dalla bellicosità umana: secondo i dati dell’Heidelberg Institute, siamo passati dai circa 80 conflitti registrati fino al 1945, agli oltre 400 negli ultimi 70 anni; e tra questi, la maggioranza sono di media intensità, meno distruttivi sul breve periodo ma più pervasivi e sfibranti per le società coinvolte.
Le analisi svolte dai ricercatori portano ad evidenziare che le cause di simili confronti sono in prevalenza legate a “motivi ideologici”, variamente intesi, ivi comprese le cosiddette “guerre di religione”; seguono le violenze per la “conquista del potere”; da ultimo, le ragioni “etniche” e il controllo di determinate “risorse” (acqua, petrolio, uranio, oro).
Residuali, ma ultimamente riportate in auge dalla crisi in Ucraina e dalle consultazioni referendarie in Scozia e Catalogna, vi sono poi le dispute legate alla richiesta di autonomia e indipendenza di determinati territori dagli Stati unitari di appartenenza.
È possibile che, a causa del perdurare dell’attuale crisi economica planetaria e dell’incancrenirsi di situazioni di instabilità regionale, aumenteranno i conflitti di bassa intensità dovuti a “rivendicazioni ideologiche” (giustizia sociale, equa ripartizione delle risorse, diritti civili), si amplieranno le “spinte centrifughe” (richieste di secessione) anche impiegate in maniera strumentale, verranno alimentate guerre tra poveri per il “controllo delle risorse vitali” (acqua e terre coltivabili).
In tutto ciò, la comunità internazionale avrà l’arduo compito di elaborare nuovi modelli di governance globale che dovranno dimostrarsi credibili, efficaci ed efficienti, in mancanza dei quali lo stato di guerra planetario potrebbe divenire permanente e condurre al progressivo annientamento dell’umanità.
Ma questa è un’altra storia, e speriamo di non doverla scrivere.

[1]Cfr. http://www.un.org.
[2]Cfr. https://www.icrc.org/applic/ihl/dih.nsf/vwTreaties1949.xsp.
[3]Cfr. http://www.icc-cpi.int.
[4]Cfr. http://www.icty.org.
[5]Cfr. http://www.icty.org/x/cases/tadic/tjug/en/tad-tsj70507JT2-e.pdf.
[6]Cfr. Sperotto F., Lineamenti di diritto internazionale dei conflitti armati, Padova, 2013.
[7]Cfr. Ferrajoli L., Il diritto penale del nemico e la dissoluzione del diritto penale, Milano, 2006.
[8]Cfr. Gentili A., De iure belli libri tres, Holland,1598.
[9]Cfr. www.pcr.uu.se.
[10]Cfr. www.hiik.de.
[11]Cfr. Pescali P., Di guerra in guerra, in Missioni Consolata, n.11, novembre 2014.

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