Da Perriera a Yoshimoto: scrivere è comunicare?
Uno dei miei peggiori difetti è l’accumulo della carta. Fogli di appunti, ritagli di giornali, pagine strappate dalle riviste che il medico o il dentista lascia in sala d’attesa si accumulano nei miei cassetti. Periodicamente mi tocca mettere ordine e lo faccio mosso da una precisa speranza: che anche nell’immondezzaio più oscuro si possano trovare magnifici tesori.
Riesumo un ritaglio de La Stampa, purtroppo senza data, a firma di Michele Perriera: Il grande scrittore che vuole restare ignoto. Per farla breve, il direttore di una collana di teatro edita da Sellerio va a trovare uno tanto geniale quanto sconosciuto autore siciliano che, si dice, abbia nel cassetto diversi testi di altissima qualità. Purtroppo per lui, lo scrittore palermitano caccia Perriera in malo modo dicendo che non ha nessuna intenzione di pubblicare nulla. E in poche frasi condensa una critica spietata verso il panorama editoriale italiano.
Non vuole aver nulla a che fare con gli intelligentoni (gli editori) che usano il cervello “per difendere, sopravvalutare, propagandare l’immondizia” e che si dimostrano “ossequiosi verso il distratto gusto delle maggioranze o ruffiani verso le oscene minoranze”.
Il nostro autore sconosciuto sostiene una grande verità: nascosti in un mare di brutture o di testi a uso e consumo esclusivo di maggioranze ignoranti o minoranze perverse “i pochi libri buoni risultano invisibili”. Visto che i suoi rientrano (o rientrerebbero) di sicuro in questa categoria rinuncia a vederli pubblicati e, di conseguenza, ignorati da chi ama “festeggiare le oche o le marmotte”.
(Be’, a onor di cronaca l’autore conclude la sua dissertazione con un urlo di dolore che suona come un “pubblicatemi solo dopo la mia morte” un po’ troppo da tragedia greca. Degustibus.)
Ma facciamo un salto altrove e muoviamoci dalla rada e soleggiata Sicilia alle megalopoli grigie del Giappone. Banana Yoshimoto, L’abito di piume, Feltrinelli 2005.
Ho letto il libro non appena è uscito: anche in questo romanzo Banana riesce a raccontare le sfaccettature paradisiache o drammatiche della vita (l’amore, il sogno, la felicità, l’adulterio, la malattia, la morte, le speranze infrante) con una leggerezza e un’ingenuità davvero disarmanti. È stupefacente come riesca a rendere semplici i concetti che ci appaiono giganteschi e, per questo, ci lasciano spesso disorientati. Insomma, altro che Tamaro e Va dove ti porta il cuore.
La parte del libro che mi ha colpito di più è la nota dell’autore, divenuta un vero e proprio postscriptum da lettera a un amico. In quelle poche righe Banana commenta così la sua opera: “Non penso sia un romanzo strepitoso, il contenuto poi non è un gran che, qua e là ci sono però dei passaggi che mi piacciono molto.” E aggiunge di aver terminato la scrittura solo dietro l’insistenza del suo editore.
Credo che ogni persona che scrive lo faccia con l’obiettivo di esprimersi al meglio. Anzi, spero o mi illudo che sia così. Questo non vuol certo dire che tutto ciò che scriviamo sia ben riuscito: ci sono opere che vengono bene, altre meno e (si spera sempre poche) altre ancora che meritano di essere accantonate. Riprendere un testo messo da parte può essere produttivo, soprattutto perché certe idee hanno bisogno di decantare in una sorta di processo di maturazione da cantina vinicola.
Mi chiedo se rispolverare un libro solo a seguito dell’insistenza dell’editore sia o meno positivo. A volte dobbiamo essere spronati per raggiungere un traguardo altrimenti inaccessibile. In questo caso, tuttavia, l’insistenza dell’editore mi sembra indice di un processo fuorviante, che si basa su un presupposto tanto semplice quanto drammatico: “scrivi quello che vuoi e fallo in fretta, basta che tu mi dia qualcosa da pubblicare, perché tanto la gente compra i tuoi libri non basandosi sul loro contenuto, ma perché ti chiami Banana Yoshimoto. D’altronde lo dici tu stessa che il tuo libro non è un granchè. Ma fa lo stesso.”
Sembra che l’anonimo e ruvido autore siciliano descritto da Perriera e la giapponesina dall’animo leggero ci indichino due strade contrapposte. “Non pubblicatemi perché i miei cassetti chiusi sono meglio di un mondo pieno di ignoranti” e “Visto che il mio editore insiste ho portato a termine questa storia che, a dire il vero, è al di sotto delle mie possibilità.”
In mezzo a questo bivio sembra essere piantato un palo segnaletico con l’indicazione di due direzioni divergenti. Ognuna di esse risponde in maniera opposta alla stessa domanda: scrivere è comunicare?
Ne parlavo qualche tempo fa con un amico e autore torinese, Marco Cavicchioli che, a differenza dello scrittore di Perriera, non ci tiene né a restare anonimo, né a venir pubblicato postumo. In una mail Marco dice “In realtà quello che faccio non è scrivere, ma comunicare. (…) Tuttavia ho spesso l’impressione che in molti si dimentichino che anche l’arte, in fondo, è comunicazione.”
“Il fine è comunicare” non sembra essere lo slogan preferito dall’anomino siciliano e, almeno per quanto ci è dato capire, l’editore della Yoshimoto ha un’idea tutta sua del perché si scrive: il fine dovrebbe essere comunicare, poi ci sono le logiche di mercato con cui fare i conti.
Forse, però, la risposta al grande quesito ce la dà proprio Michele Perriera nelle ultime righe del suo articolo per La Stampa: “Non è poi così essenziale avere una folla plaudente tutto intorno”. I libri belli rimangono spesso sconosciuti e quelli meno riusciti, ma accompagnati da un nome di grido come Banana Yoshimoto, vendono sempre e comunque.
Un’ultima considerazione è proprio sull’assenza della folla plaudente. Possiamo o dobbiamo proprio farne a meno? Ma questo, al mio ego smisurato, chi glielo racconta?
Andrea Borla