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Elogio del cinema italiano

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Elogio del cinema italiano

Così si è intitolato, provocatoriamente, l’evento speciale della mostra del nuovo cinema di Pesaro 2000, che ha consentito un primo bilancio dei film dell’ultimo decennio del secolo e ha dato vita anche ad un volume (Il cinema della transizione) curato da Vito Zagarrio per le edizioni Marsilio. L’elogio del cinema italiano degli anni 90 l’ha fatto Adriano Aprà, già direttore della mostra e acuto critico di cinema, sostenendo che si è trattato di uno dei decenni più fecondi e creativi per il cinema italiano, dopo gli anni 40 e i 60: c’è da crederci? Di primo acchito, sulla base delle impressioni ancora fresche di questi ultimi tempi, si rimane un po’ perplessi, ma forse è bene meditare un po’ di più il giudizio.
Persino dai vicini francesi, vengono pareri migliori sui nostri film recenti, almeno rispetto al giudizio negativo espresso in patria sia dalla critica che dal pubblico, salvo poche eccezioni: si dice che l’Italia è l’unico paese europeo, insieme alla Francia, ad aver resistito al rullo compressore del cinema americano e che quella italiana è una delle cinematografie più vitali al mondo, tenuto conto delle vistose carenza infrastrutturali della nostra industria.
Gli anni 90 hanno visto, in effetti, una specie di uscita dal tunnel di crisi del decennio precedente, con un ricambio generazionale avvenuto in modo graduale e l’emergere di nuovi interessanti segnali: il decentramento produttivo a livello regionale, che ha significato anche l’emergere di nuove sensibilità e nuovi temi; pensiamo a quello che è stato prima il mondo dei film makers milanesi, da cui è uscito anche Silvio Soldini, poi il cinema toscano, oscillante tra commedia di qualità e comici televisivi, fino alle realtà del sud: Napoli, con Martone, Capuano, Incerti, Corsicato; la Sicilia, con Ciprì e Maresco, la Torre, Scimeca; la Puglia, con i recenti casi di Lacapagira e del cinema di
Winspeare2, per citare i più noti. L’immaginario collettivo si è allargato alla provincia italiana e a luoghi urbani inconsueti.
La diversificazione delle tendenze stilistiche ha articolato l’offerta del nostro cinema, tra attenzione alle tematiche sociali, neo-neo realismo e ultra-naturalismo, commedia pura e tentativi di costruire mix inediti (
Pane e tulipani viene definito dallo storico Rosario Villari come "una strada verso la riappropriazione di un cinema fantastico che la cultura italiana sembra aver perduto"), affabulazione e grande spettacolo, documentarismo e sperimentazione.
Nuovi autori sono emersi, anche con forza, o sono cresciuti dal decennio precedente: Gianni Amelio, Nanni Moretti, Mario Martone, Ciprì e Maresco, Silvio Soldini (anche se con una direzione mutata rispetto agli esordi); accanto a questi, sono da ricordare anche i molti autori indipendenti e sperimentatori: Piavoli, De Bernardi, Paolo Benvenuti, Gaudino, Segre, insieme a tanto cinema documentario, video e corto; con uno sguardo ancora più ravvicinato, agli ultimi due anni, sono da ricordare anche quei registi che hanno ricercato nuove forme estetiche, come Ferrario, Zanasi, Tavarelli, Maderna, Puglielli; alcuni autori degli anni 60 (Bellocchio e Bertolucci) hanno riacquistato vitalità e curiosità verso il paesaggio del nostro paese; numerosi artigiani del cinema, dai registi di genere (Luchetti, Zaccaro, Piccioni) ai direttori della fotografia (Bigazzi) agli scenografi, hanno dimostrato la continuità della scuola italiana; nuovi attori e attrici si sono ritagliati uno spazio nell’interesse del pubblico, pur senza riuscire a costruire uno star system nostrano.
La debolezza più forte dell’attuale cinema italiano sembra essere quella di un’assenza o limitatezza della visionarità, della capacità, cioè, di immaginare, intuire, saper leggere nuovi scenari sociali e mentali, fuori e dentro i corpi, insieme a un’estrema debolezza delle forme di racconto, legate a modelli banali, ripetitivi, con poche variazioni; non è un caso che le forme migliori del cinema italiano dei 90 siano venute da quei luoghi del paese in cui le culture locali sono ancora vive e le contraddizioni sociali più ribollenti (il sud, le periferie) o da autori singoli dal percorso autonomo e molto rigoroso.
A questi elementi critici, si aggiungono l’assenza di produttori coraggiosi, attenti e competenti, con un disegno anche imprenditoriale in testa; un organismo pubblico e leggi anti-trust poco efficaci; l’assenza di una regolamentazione delle uscite, che permetta a film di valore di raggiungere il pubblico: clamoroso in negativo è il caso del film Ormai è fatta; una critica poco attenta e lontana dagli autori.
Certamente, si può concludere, almeno provvisoriamente, che il cinema, come la cultura italiana intera, ha pagato 20 anni di disimpegno sociale e morale, che negli anni 90 sembrava in parte recuperato (ma oggi?); il cinema quindi ha rispecchiato una realtà confusa e superficiale, riuscendo solo in parte ad interpretarla, a far emergere dalla melassa ridanciana, consolatoria e maggioritaria quei fermenti vitali che possono essere i semi per un suo futuro sviluppo negli anni a venire.
Che non tutto sia perduto lo dimostrano anche le recenti dichiarazioni di Nanni Moretti, non certo incline ai giudizi generosi, quando afferma che il cinema italiano non è morto (forse era solo svenuto n.d.r.), che è in atto un lavoro lento di ricostruzione del racconto, del pubblico e dell’industria. Moretti è arrivato persino ad organizzare una piccola rassegna nel suo cinema romano, con i recenti film della Comencini, Piscicelli, Tavarelli, Muccino, Milani e altri; il titolo è significativo: Viva l’Italia.

Paolo Baldi

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E’ lui quello nella piccola foto che fa da sfondo. Recentemente è uscito il suo secondo lavoro "Sangue vivo".

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