Per questo è interessante segnalare la prossima uscita anche nelle sale italiane, dopo esser passato a Venezia, di My generation, un bel film di Barbara Kopple, regista statunitense di documentari militanti ed impegnati (il rockumentario No nukes, Harlan County, U.S.A. e American dream, sulla working class americana, premiati con l’Oscar, Wild man blues, sul Woody Allen uomo e musicista), che sta per esordire anche nella fiction.
Questa volta ci racconta delle tre edizioni differenti del festival di Woodstock: dal concerto originale del 1969, passando per quello del 1994, fino all’edizione del 1999 (ma di quest’ultima chi se ne è accorto, almeno dalle nostre parti?).
E’ una testimonianza divertente, provocatoria, a momenti molto intensa, costruita sulla base di decine di interviste, brani e performance musicali (da Janis Joplin ai Red Hot Chili Peppers).
My generation attraversa 30 anni di cultura giovanile, con le generazioni rock, beat, hippie, yuppie, X, Y e quant’altro, evoca le battaglie per la liberazione sessuale e sociale dei figli dei fiori degli anni ’60 e cerca di descriverci cosa ne è stato di quegli ideali e come sono stati assorbiti e modificati dalle generazioni successive, che sembrano avere molte meno illusioni e speranze, però appaiono sempre animate dal desiderio di comunità e di vivere un rito "sacro" come quello di Woodstock, dalla ricerca di rapporti umani migliori, se pur per qualche giorno o qualche ora, in una specie di oasi protetta dal resto del mondo, per poi tornare ad essere cinici, spietati e competitivi. Forse sta proprio qui la differenza vera con la generazione dei ’60, la quale sembrava credere che si poteva essere e vivere in maniera diversa dai suoi padri, sempre e ovunque, non solo per qualche momento.
Pace, Amore, Rivoluzione sessuale (almeno nel ’69) e Mercha{Ip2}ndising, tema dominante degli anni ’90: il film ci mostra infatti, impietosamente, anche il lato commerciale di queste operazioni, via via più esplicito (per quanto gli organizzatori affermino sempre di non averci guadagnato un dollaro), cercando di sfruttare la fame delle sempre nuove generazioni di vivere l’evento Woodstock. Per altro, l’ultima edizione ha visto, un po’ sorprendentemente direi, l’esplodere finale di molta rabbia dei giovani contro la commercializzazione dell’evento, con falò degli stands e scontri con la polizia.
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Tutta un’altra musica, verrebbe da dire, nel film di Tony Gatlif (regista di Gadjo2 dilo, Lo straniero pazzo, del 1997), Vengo, fuori concorso a Venezia: un inno ai suoni gitani, alla cultura del Mediterraneo e dell’Andalusia in particolare, incrocio di popoli e religioni, forse esempio e speranza per un’Europa sempre più meticcia. Andalusi e flamencos: eroi ordinari del vero sud. Dopo aver fatto una lunga ricerca sul flamenco, il regista ha cercato di cancellarne ogni lato folcloristico, etnologico o ammirativo (l’esatto opposto, per intenderci, di The man who cried della Sally Potter), per viverlo dall’interno, cercando una identificazione totale con questa musica, in un film dalla struttura narrativa leggera, con attori non professionisti.
In Andalusia, Gatlif sembra aver ritrovato la sua infanzia algerina, un mondo e una cultura fatti di istinto, famiglia, feste, musica, tolleranza verso esseri diversi ma anche di vendetta, ingiusta, arcaica ma ancora inevitabile per retaggio ancestrale e peso del passato.
La musica e i ritmi del film sono davvero travolgenti (sempre che si voglia esserne trascinati): la voce di Ahmad Al Tuni, uno degli ultimi maestri del canto sufi egiziano, canta l’amore mistico, che porta alla trance, l’abbandono del corpo e dell’anima; un’altra voce, quella della Caita, dell’Estremadura, è violenta, tesa e selvaggia; la gitana Paquera canta la pena e il lutto della vita, tra le palmas e le chitarre del gruppo Gritos de guerra e gli echi dei canti tzigani dell’Europa centrale.
Paolo Baldi
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Un Mondo Di Musica
Si possono raccontare delle storie anche con forme di narrazione diverse dalla finzione, come ci ha insegnato la letteratura di reportage di questi anni. Lo stesso vale anche per il cinema, naturalmente, anche se questo terreno è forse meno esplorato, o meno visibile nei normali (e normalizzanti) circuiti cinematografici.
Bellissimo, secondo me (Michele). Scusate l’intrusione.