Dancer in the dark è tra di noi, ad illuminare le nostre (grigie?) vite, a farci piangere e sognare e forse, tutto sommato, tirare un sospiro di sollievo perché la nostra esistenza non è così tremenda e segnata dal fato (speriamo) come quella di Selma/Bjork.
Ancora una volta un sacrificio femminile (ma le ama o le disprezza le donne, il nostro caro Lars?), enorme e quasi impossibile, ma che alla fine si realizza: ne è valsa la pena, allora, soffrire, lavorare fino allo sfinimento, in un’America da guerra fredda e da sfruttamento intensivo dei corpi, privarsi di tutto, essere costretti ad uccidere (ma come è difficile!), finire in carcere, subire un processo con un pubblico ministero cattivissimo, una giuria insensibile (ma come poteva non esserlo se non conosceva la storia di Selma?) ed infine una morte atroce, ma proprio all’ultimo illuminata dalla notizia che il caro, piccolo figlio di Selma (del cui padre non sappiamo nulla) non rischia più la cecità. Anche Selma sta diventando cieca, tara ereditaria: Lars forse vuol dirci che il cinema è oramai incapace di farci vedere i mondi al di là dell’apparenza (ultravista)?
Un melodramma musicale straziante e sopra le righe, tra religiosità e cinismo, che non ci risparmia niente in termini di crudezze e patetismi, ma anche che ci affascina, nonostante tutto.
Una vorticosa commistione di generi: cinema alla Dogma (luce naturale, macchina a mano, ecc.), ma anche il cinema classico più artificiale di tutti (che cita Sette spose per sette fratelli), video, danza, performance, tutto in digitale. E soprattutto, il meccanismo evasivo del musical e del cinema tout court all’opera, anche su di noi spettatori, la potenza del mito più grande di fronte alla realtà della storia che schiaccia i più deboli.
Infatti, noi come Selma troviamo a tal punto insostenibile la realtà (o la sua rappresentazione) da desiderare che il suo (nostro) mondo si colori, si illumini, e che Bjork trasfiguri tutto con la sua fantasia, il suo orecchio così sensibile ai ritmi, al punto da far scattare l’immaginazione semplicemente con il suono della macchina in fabbrica, il rumore del treno, i passi che la avvicinano alla morte. Soltanto il silenzio, l’assenza di suoni provoca la vera disperazione.
Ricorderete che, soltanto pochi mesi fa, un altro film, Il miglio verde, ci aveva fatto provare questo stessa sensazione: quando il gigante nero, destinato anche lui a morire per un estremo sacrificio, per salvare il mondo da una parte del suo male, chiede come ultimo desiderio di poter vedere ed ascoltare Fred Astaire che balla e canta I’m in heaven, quasi annunciandogli la sua prossima destinazione.
Film coraggioso, per la sua insostenibilità, questo Dancer in the dark, ma anche ambiguo fino al cinismo per il suo spingere il pedale del patetismo: amore e odio: è questo che sentiamo per Lars Von Trier, e forse è proprio quello che il perfido danese desidera farci provare.
Paolo Baldi
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Bjork, sogna per noi
Lars Von Trier è tornato. Si è portato con sé questa volta un piccolo elfo (Bjork1), umile ma molto determinato, dalla voce miracolosa e una affascinante signora (la Deneuve), che avevamo conosciuto un po’ perversa molti anni fa e oggi ritroviamo nelle vesti di un’operaia, molto ordinaria.
E’ raffigurata nella foto dello sfondo.