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Splendidi Amori (irrealizzabili)

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Splendidi Amori (irrealizzabili)

Trascorsi altri 365 giorni di vita e di cinema: ci lasciamo alle spalle, ma ancora bene in mente, delle sensazioni, delle immagini e dei suoni di un anno di film, che disegnano talvolta percorsi che si incrociano e si rincorrono, rimandi da un capo all’altro del pianeta cinema. Guardando indietro, ripenso a due (grandi) film, diversi ma molto vicini tra di loro nello spirito e nei toni, provenienti da angoli lontani di un tempo passato, attualizzato ed arrivato fino a noi.
Le spire del fumo di una sigaretta, la pioggia battente controluce, i colori gialli che illuminano una
faccia malinconica di un uomo, i vestiti multicromatici che fasciano fino al collo un sinuoso corpo femminile, gli orologi che segnano il tempo: così passano i giorni, canta Nat King Cole, nella disperazione di non riuscire ad afferrarli, nel non saper vivere un amore solo sofferto. Entrambi immobili, bloccati lungo un corridoio di tende rosse passione e di passi perduti, senza esser capaci di fare quel passo in più verso l’altro/a. "Non dobbiamo esser come loro", come i rispettivi partner, amanti nascosti.
Un walzer ipnotico scandisce i momenti in cui i corpi si incrociano, sfiorano, iniziano a desiderarsi, in un melodramma raffreddato da tutta la pioggia che cade su Hong Kong ma caldissimo dentro. E poi una luce bianca accecante ci risveglia dal trance e ci riporta negli spazi fisici angusti di una città sovraffollata.
Alcuni oggetti incarnano i sentimenti (la gelosia, il ricordo), è come se ricevessero la vita da chi li possiede o li ha posseduti: una borsetta, una cravatta, un paio di pantofole rosa.
Slittamenti dell’occhio della cinepresa abbassano la prospettiva, i due (possibili) amanti li vediamo spesso dietro grate, riflessi negli specchi, vicini ma separati da muri, interstizi neri della visione.
Eppure si rinuncia ("Vorrei esser preparato a lasciarti"), destini paralleli che non si incrociano e poi si allontanano. "Il passato si può soltanto vedere nel ricordo, come attraverso un vetro polveroso, sfocato, indistinto, ma non si può più toccare". Un’epoca se ne va, tutto quello che c’era prima non esiste più: possibilità ("Se ci fosse un biglietto in più verresti con me?/mi porteresti con te?"), incontri, ma alcune persone continuano a portarsi dentro dei segreti, da rivelare soltanto ad un foro in un tempio buddista, sotto l’occhio testimone (ma che non può intervenire) di un bambino (piccolo budda?); e da quel segreto/desiderio ancora così forte nasce una forma di vita (vegetale).
Hong Kong 1960, Parigi 1678 o 1999; stessi sentimenti di rinuncia, ancora un amore irrealizzabile e senza domani, scissione tra volere e non potere. Non si può tradire, neanche la memoria.
La principessa di Clèves, romanzo di Madame de La Fayette, traslato ai nostri giorni, in un cinema limpido, quasi astratto, concentrato di parole ed emozioni rarefatte. Una messinscena di un romanzo mai così pura, fedele e classica, senza essere superficiale. Dal XVII secolo, ritroviamo un dissidio tra fedeltà alle regole, ai valori sociali, a quello che si ritiene il proprio onore e il desiderio, la passione, l’eros (sempre non consumato). Austerità e rigore, impassibilità e (rari) sorrisi. Chiostri silenziosi, salotti eleganti e concerti rock, dove si può sfogare la propria passione insoddisfatta.
Astrattezza della rappresentazione di un senso etico che appare così anacronistico oggi e che si può mettere in scena solo in forme non realistiche, con recitazione stranita. La signora de Clèves è prigioniera del dovere ma anche del suo desiderio/paura di una passione assoluta, senza fine; marmorea nella sua bellezza e nella sua fissità ad un ruolo a cui ci si sente chiamati.
Il suo amante (mancato), forse amato, rappresenta i tempi moderni (pop star), frivoli (vestiti bizzarri), veloci (macchine sportive), convulsi (sempre in giro per il mondo).
Anche in questo caso, l’unica soluzione è una fuga (per lei), per sfuggire ai propri fantasmi, per paura di soffrire; partire per donarsi agli altri, cercando di sopire i propri sensi di colpa per quello che si è soltanto pensato, con il desiderio di dimenticare, anche se sappiamo che non sarà mai possibile.
A lui che non sa darsi pace (ah, gli occidentali avrebbero molto da imparare dagli orientali, in quanto a capacità di accettare il destino), non resta che cantare la propria passione, confessarla di fronte a migliaia di persone: "Io so che sarai sempre mia, non c’è notte senza giorno, né giorno senza fine …".
La felicità è irrealizzabile in questi splendidi amori.

(In the mood for love di Wang Kar Wai
La lettera di Manoel De Oliveira)

Paolo Baldi

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