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Welles 1958/Eastwood 1999

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Welles 1958/Eastwood 1999

Ho avvertito un curioso corto circuito tra un cinema che negli anni 50 voleva sperimentare oltre il genere (e che è diventato un cult1 senza mai essere stato un successo) e un altro cinema, sempre americano, ma di oggi, che cerca di recuperare proprio quella classicità anni 50 (Hawks, Fueller) che l’altro tentava di ribaltare.
Insomma, questo per dire che vedendo di fila "L’infernale Quinlan" di Orson Welles e "Fino a prova contraria" di Clint Eastwood prima di tutto si gode molto (almeno a me è capitato questo) e poi ci si diverte ad annotare affinità e divergenze tra curiosi marginali, entrambi anche interpreti dei ruoli principali dei rispettivi film, che raccontano l’eterna lotta tra bene
e male, nell’individuo e nel mondo. "L’infernale Quinlan", tratto da un romanzetto nero di scarso valore, viene ripresentato nella versione che Welles avrebbe voluto (secondo un memorandum che ha lasciato) ma i produttori ampiamente ritoccarono2, aggiungendo scene girate da altri; oggi è possibile quindi per la prima volta apprezzare la struttura formale che era nelle intenzioni dell’autore, a partire dal famoso piano sequenza iniziale, con il montaggio alternato delle vicende parallele, i grandangoli, le angolazioni più pazzesche.
Welles interpreta un Quinlan "enorme", poliziotto laido e alcoolizzato, che si va ad ubriacare da Tanya la zingara, (un’incredibile Marlene Dietrich) nei momenti di malinconia, un personaggio shakespeariano, quasi un’anticipazione dei suoi film a venire.
Quinlan giudica sulla base del proprio istinto, e questo lo porta a manipolare o costruire false prove (ma poi i suoi sospetti si rivelano esatti), guidato dalla sua conoscenza della fragilità umana e dall’esperienza diretta del dolore (la moglie è stata assassinata non si sa
da chi, tanto tempo prima): mancanza di limiti morali o, meglio, la morale di una negatività positiva.
"Fino a prova contraria" ("True crime" nell’originale) è un thriller dalla narrazione lineare sui meccanismi e gli errori/orrori del potere assoluto, quello di dare la morte (legale), in questo caso a un proletario nero. L’ambiente è quello del giornalismo, il giornalismo dal lato umano contro la passione per la verità, incarnata, pur con tutti i suoi limiti, da
Eastwood/Everett, a cui non interessa se il condannato crede in Dio: al centro della sua personale inchiesta e del film c’è la macchina che sta intorno alla pena di morte, dove non c’è nessuno, tra poliziotti, secondini, avvocati, preti, che batta ciglio per un uomo che sta per morire, in questa presunta guerra giusta combattuta dalle istituzioni democratiche contro il male. Quinlan e Everett sono anti-eroi impresentabili: vecchi (o quasi), alcoolizzati (o quasi), uno pure puttaniere (Everett), ironici, energici, trasgressivi nella loro personale ricerca della giustizia: entrambi non si fidano della legge e delle regole, ma giudicano solo sulla base del proprio personale intuito, gamba o naso che sia a segnalarglielo, con un lato di sentimentalismo nascosto, in uno sfondo di corruzione, volgarità, immondizia presente in entrambi i film – il confine con il Messico o il mondo del giornalismo.
D’accordo, "L’infernale Quinlan" è un capolavoro recuperato mentre "Fino a prova contraria" non è certo l’opera più riuscita di Eastwood. Ma dopo aver assistito alla procedura che scandisce il passare delle ore verso l’esecuzione, registrata con una minuzia notarile, provate a dirvi a favore della pena di morte. E ci voleva l’ex-giustiziere dagli occhi di ghiaccio, che ora ha maturato una sensibilità nuova per i diritti civili, per raccontarci dove sta il vero crimine: altrove, non nei quartieri ghetto dei neri, ma in un sistema giudiziario-poliziesco in cui la stragrande maggioranza dei detenuti condannati a morte sono neri, spesso perché i loro diritti non sono garantiti, a meno che non si chiamino O. J. Simpson3 e si possano permettere avvocati da migliaia di dollari.

Paolo Baldi

1
Spesso è l’ingrato destino dei film cult o a volte è la loro fortuna… (intromissione di Benatti Michele)

2
Welles dovette scendere a compromessi con la produzione più di una volta, come già citato in questa rubrica quando si parlò di Quarto potere.

3
Per chi l’avesse dimenticato è quel tipo che scappava ai sessanta all’ora inseguito da polizia e giornalisti!

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