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The Vines – Highly Evolved

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The Vines
Highly Evolved
(Capitol, 2002)

Il nome dei Vines mi è stato fatto per la prima volta da una mia corrispondente americana, la quale me li additava spassionatamente come "a breath of fresh air" e mi consigliava di cuore "go out and get ‘em". Avendo una certa stima della persona, nonché vantando con lei una certa affinità in quanto a gusti musicali, non ho esitato molto prima di seguire le indicazioni e valutare in prima persona se tutti gli elogi da lei spesi fossero in definitiva meritati.
I Vines sono una giovane band australiana, attiva già dal "lontano" 1994 (anno in cui debuttò sulle scene in occasione di una festa di compleanno) ma partita da Sydney alla conquista del mondo solo in tempi relativamente recenti: il loro singolo d’esordio ha visto la luce solo nel novembre 2001, mentre il presente album Highly Evolved solo a luglio di quest’anno. La loro musica, così come emerge dal disco, è un significativo compendio di quanto il mondo del rock abbia partorito e portato al successo negli ultimi venti anni, con ammiccamenti e riferimenti che affondano le proprie radici anche più indietro.
La title-track che apre il disco è veloce, sporca e grezza: ricorda un po’ i Blues Explosion di Jon Spencer e regala da subito al gruppo l’aria sbruffona e navigata di chi stia calcando i palcoscenici da una vita intera.
Pronti per il primo cambio di scena? Autumn Shade, eloquente fin dal titolo, è una ballata malinconica non abbastanza lontana dal pompatissimo acoustic rock dei Coldplay ma assai più godibile per la minima indulgenza nel falsetto e per una chitarra solista vagamente accostabile a quella del James Iha dei tempi d’oro.
Outtathaway recupera l’ispirazione di Highly Evolved e si stampa presto in mente, grazie ad un ritornello a presa rapida ed a vocals opportunamente sguaiati.
Sunshinin ha un attacco ed un giro alla Oasis prima maniera, tanto che ci si aspetta di riascoltare la vecchia Shakermaker. I ragazzi ci sanno fare: la carne al fuoco è già parecchia, ma le influenze sono rimescolate con perizia e non danno mai l’impressione di un plagio scoperto.
Un sottofondo pianistico accompagna Craig Nicholls nell’introduzione di Homesick, lenta e forse un tantino manieristica ma ravvivata a metà strada da un assolo semplice e grintoso.
Get Free è una bella flebo di adrenalina della durata di due minuti, molto nirvaniana, sottolineata da una linea vocale strappata di peso a Kurt Cobain.
Country Yard: ancora una volta, un titolo che è tutto un programma. Potrebbe trattarsi di una outtake di Beck risalente al suo periodo folk-rock acusticheggiante: visto comunque che il pezzo è a firma Vines, tanto di cappello alla buona resa dell’insieme.
Non si fa in tempo ad adattarsi e subito questi ragazzi ti tolgono il tappeto da sotto i piedi… Factory, primo singolo tratto dall’album ad essere uscito in Inghilterra, ha il sapore giamaicano di un divertissement da studio che poi però secondo dopo secondo evolve verso un brano con capo e coda.
Una bellissima intro apre In The Jungle, che però più avanti si banalizza un po’, perdendosi in vocals urlati e in cambi di tempo poco convincenti.
Arrivati a questo punto, che c’è di meglio di una bella ballata? Eccovi servita Mary Jane, quasi sospesa fra sogno e realtà, conclusa da uno struggente passaggio strumentale che forse sarebbe potuto uscire dall’immaginazione di Billy Corgan.
Ain’t No Room è l’ultimo assalto frontale, sulla falsariga di Highly Evolved: riuscito pur senza far saltare dalla sedia, grazie anche a qualche effetto di filtro sulla voce. Tanto per dare le coordinate, siamo dalle parti dei Supergrass.
Il gran finale è rappresentato dai sei minuti e mezzo di 1969, una specie di confessione a cuore aperto ("it’s 1969 in my head / I just wanna have no place to go") che alterna strofe pennellate con grazia a ritornelli incisi a fuoco sulla trama della canzone.
Che dire? Stoffa e talento questi Vines ne hanno, insieme alla capacità di macinare stili e citazioni senza vergogna ma anche senza limitarsi al taglia e incolla. Come avrete avuto modo di concludere dalla breve analisi dei singoli pezzi, i richiami al passato sono abbastanza evidenti eppure mai troppo fastidiosi. Impossibile immaginare quest’album senza tenere conto di una valanga di fonti e predecessori, ma d’altra parte questo vale per ogni opera d’arte prodotta in qualunque epoca: attendiamo e vediamo cosa i Vines saranno in grado di combinare al secondo tentativo.

Fabrizio Claudio Marcon

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