The Last DJ
(Warner Bros, 2002)
Dopo Plant, recensito nel numero di settembre, un altro grande del rock torna in pista con un album nuovo di zecca: è Tom Petty, il biondo rocker americano in uscita in con la sua ultima fatica, The Last DJ.
I suoi fan da tempo sanno cosa attendersi dopo aver liberato il CD dall’involucro di plastica trasparente ed averlo inserito nel lettore: una dozzina di belle canzoni, terse e limpide come una bella giornata di fine estate. A memoria, Petty non ha mai tradito le aspettative, almeno da quando la sua ormai consolidata fama ha cominciato a generarne: difficile lamentarsi anche di questo suo lavoro, a meno di non essersi lasciati ingannare del titolo ed averlo scambiato per un vinile da mettere sul piatto in discoteca…
Con il passare degli anni la musica di Petty si è fatta vieppiù raffinata, elegante e smussata; il pianoforte è diventato presenza quasi fissa, spesso discreto ma intelligente; le ballate meditabonde hanno di gran lunga superato in quantità e qualità i pezzi più movimentati. Ormai prossimo ai cinquant’anni, più di metà dei quali passati a registrare dischi e suonare dal vivo, Petty ha raggiunto una maturità artistica invidiabile. The Last DJ è un album che non avrebbe potuto incidere vent’anni fa, eppure non contiene alcuna novità sbalorditiva rispetto a quell’epoca ormai remota. La differenza è nella pacatezza e nella confidenza che egli, da sempre peraltro artista musicalmente "conservatore" e di gran classe, sfoggia come mai in passato. Una volta citava i propri modelli, oggi può limitarsi a citare se stesso.
Tra reminiscenze byrdsiane e paralleli da tracciare con un altro grande quale Brian Wilson, al quale può essere accostato specialmente quando si siede al piano e regala interpretazioni rarefatte ma squisitamente melodiche, il presente album piace nel complesso fin dal primo ascolto ma ne richiede almeno tre o quattro perché le singole canzoni comincino ad entrare in circolo. Ad esclusione di qualche episodio, come la poco riuscita Joe, stiamo parlando di musica sussurrata, che abbraccia l’ascoltatore dopo essersi insinuata al suo fianco in punta di piedi; quel genere di sonorità delicate e sincere alle quali un esecuzione con un’intera orchestra ed una solo voce e chitarra acustica si adatterebbero in egual misura. In alcuni frangenti l’eleganza della proposta è tale da sconfinare, forse più in quanto ad attitudine che non propriamente a suoni, quasi nel jazz.
Difficile, giunti a questo punto, snocciolare i nomi dei brani più o meno convincenti. Citato quello che, pur non deprecabile di per sé, stona un po’ nell’insieme, più arduo è individuare le vette d’eccellenza perché spesso pare di trovarsi su un vero e proprio altopiano. Messo alle strette, segnalerei Money Becomes King, quasi una poesia recitata; la successiva Dreamville; oppure Like A Diamond, altra ballata da dieci e lode. Non manca neppure un divertissement, segnatamente una The Man Who Loves Women che pare uscire dal una sala da ballo degli anni ’40 ma che gli Heartbreakers interpretano senza calcare troppo la mano.
Una volta Petty suonava, a mio avviso, grande musica da viaggio, capace di evocare in due note le sconfinate distese del West americano solcate da autostrade di cui non riesci nemmeno ad immaginare la fine. Oggi di quel feeling, qui espresso in qualche misura da Have Love Will Travel, è rimasto forse poco: il Petty odierno è un’artista da veranda ombreggiata o da giardino fiorito che non da asfalto rovente o da Grand Canyon. La metafora non sottintende necessariamente alcun giudizio negativo, sia ben chiaro: cerca solo di illustrare un’evoluzione che c’è indiscutibilmente stata, senza peraltro mai prendere l’abbrivio di una rivoluzione.
Per quanto mi riguarda, continuerò vita natural durante a comprare album come questi a scatola chiusa. Ci fosse un solo caso in cui un nome è veramente garanzia di qualità e assenza di brusche sorprese, sarebbe probabilmente quello di Tom Petty.
Tom Petty & The Heartbreakers
Fabrizio Claudio Marcon