Io considero Michael Mann tra i maggiori registi Usa viventi (in particolare ora dopo la morte di Billy Wilder) e insieme a Scorsese il più intelligente di quelli che lavorano dentro Hollywood. Ritorna al cinema dopo Insider (il bel film con Russell Crowe e Al Pacino in lotta contro le multinazionali del tabacco) a raccontare un altro mito americano: Cassius Clay-Mohammed Alì, dal 1964, anno della prima conquista del titolo mondiale dei pesi massimi, al 1974, l’anno della riconquista nello storico match contro Foreman.
Il film è stato ignorato nella notte degli Oscar, ma c’è da sorprendersi? Quest’anno valeva di più il primo Oscar per un film d’animazione (Shrek) rispetto all’Oscar per il miglior film in assoluto (A beautiful mind, tradizione senza innovazione).
Alì ha un inizio strepitoso, con un medley di suoni ed immagini che va avanti e indietro nel tempo, l’incontro con Sonny Liston1 a 24 anni ed il primo titolo: Alì sul ring danzava come un farfalla (al ritmo di musica) e pungeva come un’ape, la lingua agile e scattante, polemica e provocatoria, le parole in rima (peccato sentirle doppiate) pesanti come un sinistro.
Il film non e’ una tradizionale biografia: gli eventi della vita di Alì e quella intorno a lui sono appena accennati: l’incontro con Malcom X, la conversione all’Islam e i suoi rapporti con la Nazione dell’Islam, il Vietnam, Martin Luther King, le moglie, la nascita dei figli, il suo clan; e poi la lunga traversata del deserto, dal 1967 quando si rifiuta di arruolarsi nell’esercito Usa che combatte i vietkong (perché non ha nulla contro di loro) e inizia invece un lungo combattimento contro il governo Usa e l’Fbi, per difendere la propria libertà e la dignità degli afroamericani, di cui diventa un simbolo. Poi la lenta risalita, fino al match di Kinshasa (voluto dal dittatore locale Mobutu e dal manager-trafficone Don King) contro Foreman, su cui è stato girato un bel documentario, "Quando eravamo re" di Leon Gast, che ha il pregio di avere come protagonista Alì in carne ed ossa, anche se l’attore che lo interpreta nel film di Mann, Will Smith, è molto bravo (e pure John Voight in un ruolo di spalla).
Alì trasforma l’attesa di quell’incontro in un confronto politico e razziale, con l’accusa a Foreman, pugile anche lui di colore, di essere uno strumento nelle mani del potere bianco, e l’appoggio del popolo dello Zaire (Alì uccidilo, gli urla la folla). La scoperta delle bidonville povere di Kinshasa è emozionante, il finale esaltante, con la pioggia liberatoria che quasi esplode al termine dell’incontro, sulla folla in festa nello stadio.
Il film trasmette un’immagine di Alì vitale, anche contraddittoria, irruenta, emotiva, ben diversa da quella che abbiamo oggi, di una persona malata che solleva tremante ad Atlanta la fiamma olimpica. E colpisce soprattutto per l’incredibile impatto emotivo, costruito attraverso primi piani, ralenti, chiaroscuri, corpi scolpiti come dei, che cadono e risorgono. Film da vedere e rivedere. Un unico dubbio: perché un film così non è riuscito a farlo un regista di colore?
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Un uomo chiamato Alì
Paolo Baldi
Sullo sfondo un’immagine originale del match.