Perché alle persone piace vivere, vero?
Non sono nulla. Non puoi parlare. Non puoi raccontare. Non puoi descrivere. Nulla, niente. Nessuno.
Due mesi a ventidue anni non sono niente.
Non avevo rimpianti, del resto. Non riuscivo a pensarci, solo.
Ero salito da Monica, la sera. Tutto in tre anni, amore sesso cioccolato vacanze spinelli, tradimenti. Gli anni migliori, i nostri.
Perfetto, tutto.
Avevo approfittato del suo letto un paio di volte. Mentre spingevo parlavo, lei guardava, parlavo, prima durante, parlavo sempre. Libri, di film, parlavo dei miei racconti, di andare da qualche parte, a vivere, parlavo di traguardi, del nostro sbaglio, anche, coincidenza o motivo?, un anno prima, i conti dei giorni. Monica sorrideva, io spingevo, ci eravamo dimenticati.
Incenerito.
Fra cinquant’anni lo avrei raggiunto in una fossa comune. La società si sarebbe sbarazzata dei miei resti. The end.
Lo lavavo sempre, dopo. Saltellavo fino in bagno e lo immergevo nella schiuma rigonfia. A mollo, nel bidè. Si lasciava trascinare dalla corrente, pigro. Faceva parte del rituale. Bollente. Monica parlava, adesso, dalla camera da letto. Voleva raggiungere i suoi, in montagna.
Le piaceva sciare, divertirsi, andare in discoteca, dopo. Le piaceva farlo nel matrimoniale dei vecchi, fuori nevicava e tutti erano da qualche cazzo di parte, le piaceva Haendel mentre spingevo, gli inglesi e i tedeschi.
Guardavo il mio pene, trascinato dalla corrente. Ero stanco, sempre.
Debole. Lo stomaco. A volte dovevo sedermi, aspettare che finisse.
Monica continua a parlare, in camera. Non ho voglia di andare con lei.
Della montagna, di amici. Del nostro amore. Vorrei essere da un’altra parte, qualsiasi. Vorrei una donna, un’altra, scollata e con gli autoreggenti. Vestirmi adesso, uscire, pantaloni, il giubbotto. Le chiavi di casa. Bacio, ciao, ci vediamo. Addio, Monica, a presto.
Dolore di stomaco. Il dottore è un amico, cresciuto tra stellette e cliniche private. La porta. Non ho voglia di andare in montagna.
Milioni di volte, ci sono stato. Mi tocca sentire sua madre, le idiozie, i concerti grossi. Suo padre. Siede. Gli piace sentirsi chiamare colonnello. Preferisco starmene a casa. Scaffali enciclopedici, AAA-BAF, BAG-CAA, stronzate, c’è sempre una pillola per ogni stupido male, un chirurgo per tutte le infiammazioni, una farmacia dietro grasse cariatidi che parlano parlano dei dispiaceri della loro ineguagliabile età.
Non ho voglia di andare con lei. E’ più comodo a Modena, scoparla. Il dottore aspetta, attende, mi guarda, non capisco, il professore è paziente, dunque, il professore è capace, is waiting for me, qualcosa non va, intuisco?, che un pensiero prenda vita nel mio cervello, che un neurone si nutra dell’espressione imbarazzata sul suo volto, che un’idea si riproduca nel mio male crescente, che qualcosa sublimi negli occhi di mia madre, quattro anni prima. L’ultima volta.
Mal di stomaco.
Sono stanco. Voglio andarmene. I risultati non mi interessano. Il professore aspetta. Il professore ha vergogna. Il professore non parla. Il professore è impotente. Nulla, niente. Nessuno. Non è vero, eppure ho capito. Bisogna essere forti. E io sono forte. Affrontare la realtà. Confrontarsi, subito. In fondo sono calmo, ma è troppo improvviso. Voglio andarmene. Devo dire qualcosa.
“Cancro?” e non ho domandato nulla. E’ troppo importante per ridurlo così.
Silenzio, il mondo ha detto di sì, impercettibilmente. Sono stato condannato.
Mia madre, le urla, i pianti, le grida. La sua bellezza, i capelli, le sue debolezze. Sono stato condannato a morte. Ho voglia di distruggere qualcosa. Subito. Ho voglia di andarmene, di non sentire le sue risposte.
“Uno sbaglio?”
Ripetuto, controllato, le analisi, i campioni, ma non ci sono dubbi.
Bisogna riconoscere i propri limiti. Sempre.
“Quanto?”
Variabili, probabilità, statistiche.
“Quanto, colonnello?”
“Due mesi, qualcosa di più.”
Devo pensare qualcosa, una qualsiasi, adesso, ora. Due mesi non sono nulla.
“Domani cominceremmo le cure”
Non sono niente. Qualcosa di bello, un bacio, il primo, un cancro.
“Ci sono speranze?”
“Rallenteremo, faremo il possibile”
“Ci sono speranze, colonnello?”
“Il tumore è avanzato, i tessuti si generano con troppa velocità. Alla tua età non ci sono speranze. Intanto cominceremo le cure.”
“Senza speranze?”
“Soffrirai di meno”
“Non voglio soffrire”
“Non abbiamo alternative.”
“La morte”
“E’ stupido”
“Morirò comunque, colonnello”
“La morte si può affrontare”
“La morte è la morte.”
“Non è come pensi”
“A ventidue anni è un’infamia”
“Inizieremo le cure, non ci sono soluzioni”
“A ventidue anni è un’infamia, colonnello”
Sono calmo. Sono cosciente. Salgo in vespa. Accendo una sigaretta. E’ l’ultimo giorno. Volo contro Monica, università, programmi, vederla, adesso. Subito. Due mesi e crepo. Scendo. La cerco. Non faremo più l’amore, non farò più niente. La trovo. E’ circondata da amici. Un tizio sproloquia, ci siamo visti a una festa, dice, ma ero ubriaco, troppo per ricordarmi di lui. Fuck you. Ho un cancro. Monica è eccitata. Mi guarda. Ride. C’è la possibilità di trovare un appartamento a Tarifa, per le vacanze. Bisogna prenotarlo per tempo, solo. Andremo a informaci domani, dopo l’esame. D’accordo, Tarifa, vacanze. Sono stanco Monica, capisci?, sempre più stanco. D’accordo,
Tarifa, vita. Salgo. Ciao Monica. Torno.
Mio padre è a Parigi, Cecilia si è trasferita da Marco, l’eterno ragazzo. Nella mia stanza, musica, sigarette, birra, tutto troppo in fretta, troppo veloce, chiuso in me stesso a godermi l’ultimo giorno della mia vita, l’ultimo giorno di pace. Sono perfettamente consapevole di cosa significa “iniziare le cure”. The end. La fine.
Chi mi ricompenserà di tutto questo?
Ascolto la musica e penso alla vita che non avrò, che non vivrò, a emozioni negate, ad amici che continueranno, tutto continuerà, panta rei, tranquillamente, nulla è accaduto, nulla è successo, io sono morto, tutto continua, penso a Monica e alla sua vita, ricorderà, dimenticherà? ha qualche importanza? penso a mia madre, sarai da qualche cazzo di parte ad aspettarmi?
Il mio stomaco, un male come gli altri, sembrava. Ma la citrosodina non sarebbe bastata, questa volta. Bastardi gli svedesi, bastardi i sudafricani, bastardi gli inglesi. Bastardi gli americani, sono cent’anni che ci lavorate, bastardi francesi e bastardi canadesi.
Bastardi gli italiani, bastardi sarei crepato il tredicesimo giorno della settantaquattresima conferenza mondiale sul cancro. Bastardi, tutti bastardi.
Penso a Fenoglio e a Bedeschi, ragazzi crepati in una guerra che non avrebbe migliorato il loro destino, diceva l’italian teacher, mentre pensavo alle tette della Anderlini e a mettere il mio cazzo tra le sue cosce. Se ci avessi provato, almeno. Cosa mi aveva trattenuto? Cosa sarebbe cambiato, adesso? L’avrei scopata di gusto, l’Anderlini.
“Sergentmagi£, ghe rivarem a baita?” Soldati, partigiani, più fortunati di me, raggiunto la consapevolezza nell’attimo del trapasso, diceva l’italian teacher, cresciuti vent’anni per crepare da eroi.
“Sergentmagi£, ghe rivarem a baita?” No, non ci arriveremo.
Avrei aspettato qualche giorno a uccidermi. Tre bottiglie di whisky e un tuffo nel vuoto, piano quarto. Facile. Sarei stato forte, senza paura. L’impatto delle mie ossa contro l’asfalto. Farmi coraggio. Era meglio di affrontare le cure. E se mi fossi salvato? Tutto ingessato con un tumore allo stomaco. Troppo pensare. Agire. La beretta nello studio. Parla di disfarsene, papà, di portarla in questura. Qualcuno può farsi male, dice, ha tolto i proiettili. Si possono comprare, quelli. Medito qualche gesto spettacolare, trascinare qualcuno nel vuoto con me, un ministro? abbrevio l’agonia, se mi abbattono, se mi prendono non arrivo alla fine dell’istruttoria.
Appoggio la pistola sul comodino. Racimolo due giornaletti. Una videocassetta. Guardo il mio pene. E’ tutto improvviso, troppo.
L’ultima sega. E’ ancora più triste pensarlo.
Non ci sono speranze.
La segreteria registra messaggi di Monica, del colonnello, lo stereo riproduce canzoni, sempre le stesse, il tumore continua a diffondersi.
Il mio futuro è solo sofferenza, angoscia, non ho avvenire, non ho speranze, non ho niente. Ci penso sempre. La mia vita è finita. Chi mi ricompenserà?
Il male è capace di durare mezz’ora, adesso. Devo sdraiarmi, aspettare che finisca. Devo sperare. Sperare in che cosa? Non ho speranze, ricordo? Meglio buttarsi dalla finestra, adesso. Subito.
Ospedale. Mi sveglio. Monica mi guarda, mio padre dorme, sono in un film americano. E’ notte, la stanza è illuminata da luci schermate.
C’è un secondo letto, vuoto. Brutto segno. Sono stanco, debole, hanno cominciato le cure, senza avvertirmi. E’ finita.
Monica sorride, mi carezza, mi prende per mano. Non faremo più l’amore
Monica, non c’è più spazio per noi, non c’è più spazio per niente. Mio padre si sveglia. E’ stanco. Ci guardiamo, camus, la prima può essere l’ultima.
Di giorno si alternano al mio letto, i medici. Di notte papà e Cecilia si scambiano come con mamma. Di mattina la terapia. Non voglio parlarne, parlatene voi quando sarà il vostro turno. Di pomeriggio mi legge romanzi, Monica, finché non mi stanco. Scrivere e leggere sono le uniche emozioni della mia vita, la sua voce è il mio mondo, le sue parole la mia esistenza, l’ultima cosa a cui aggrapparmi, punto, i suoi occhi sono l’isola di Montecristo, i suoi fianchi un paesaggio di
Stifter, il suo sesso l’angoscia di K., il suo viso di sera – ma lo dico solo per vederla arrabbiata – ricorda la rubizza fisionomia di
Miss Marple.
Questo è il mio mondo. Le cure e i romanzi. Fuori non c’è nient’altro.
Non c’è speranza, non c’è futuro. C’è il nulla.
Una sera le ho chiesto cosa avrebbe fatto, dopo, i suoi progetti. Si è messa a ridere, ha detto che non lo sapeva, che non ci aveva pensato, che era il genere di domande che le faceva sempre sua madre. Come poteva saperlo? Monica dimmi qualcosa. Non lo sapeva, finiti gli studi, forse, avrebbe viaggiato, sarebbe andata a lavorare all’estero, non sapeva, forse si sarebbe sposata con un californiano, di quelli che fumano nelle zone riservate e mangiano hamburger fin dal mattino, avrebbe allattato due maschietti da portare a Disneyland tutte le estati. Qualcosa avrebbe fatto, comunque. Rideva.
No. Ci vuole coraggio. E’ la possibilità più grande per dimostrare di avere carattere, dicono. A dir la verità non ci sono riuscito, io, non sono riuscito ad accettare di non avere futuro. Ci ho provato, penso, ma non ci sono speranze, davvero. Sono passati due mesi, due mesi di clinica, tutti i giorni stai peggio mentre speri che vada meglio, il tuo corpo marcisce, è brutto marcire, le tue funzioni vitali ti abbandonano sempre più in fretta, è che non riesci a fare le cose più semplici, è che non ti va di impegnarti nelle cose più elementari, sei sempre stanco per farle e sotto sotto hai una voglia impotente di farle, no, non di farle, solo di aver voglia di farle, è che mentre osservi il tuo corpo imbruttire sotto il peso dei medicinali qualcuno pensa a come migliorare i suoi record per essere ammesso alle olimpiadi.
Non c’è nient’altro da dire, così ho chiesto a papà il permesso di interrompere le cure, di morire a casa, come si era fatto con mamma.
Monica e Cecilia hanno allestito la stanza matrimoniale con le solite comodità, i libri, la musica, la televisione, il videoregistratore, i compact, le spremute, ma sono troppo stanco per tutto, è tutto troppo improvviso e inutile. Guardo mio padre, guardo il viso di Monica, il suo corpo, e spero di morire il più presto possibile, di non svegliarmi più, di allontanarmi da tutto questo, domani.