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L’inganno – Veronica Tomassini

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L' inganno - Veronica Tomassini - Libro - La nave di Teseo - Oceani | IBS

La nave di Teseo (Milano, 2022)

pag. 194

euro 20.00

La prosa di Tomassini è l’atto illecito delle lettere. Con “L’inganno”, il romanzo da oggi in libreria per i tipi delle edizioni più avventurose dell’ex Belpaese, “La Nave di Teseo”, ci ricordiamo d’almeno un paio o tre o quattro conseguenze che dovrebbe sempre darci la lettura d’uno scrittore, d’una scrittrice, d’una poetessa, d’un poeta; e – premesso (che) – se la distinzione di base rimale la medesima di sempre: nella narrativa ci si deve trovare e nella poesia ci si deve perdere, ecco il resto: – a ogni libro, e di Tomassini abbiamo letto i romanzi “Sangue di cane”, “Christiane deve morire” e “L’altro addio” oltre che diversi articoli pubblicati sul Fatto Quotidiano e saggi usciti su Pangea News, a ogni libro dicevamo dobbiamo rintracciare la voce/stile dell’autore, dell’autrice nel caso di specie; da ogni libro, dunque, dobbiamo essere scossi forte; in ogni libro, appunto, dobbiamo essere in difficoltà ma perché presi e lanciati nella trama, messi nella storia raccontata e nei fatti-luoghi detti.
Io ho visto poche volte Milano nella mia vita, e sempre per motivi diversi e sempre in angoli diversi e sempre con gli stessi occhi. Allora capisco più che bene il punto di vista della scrittrice Tomassini, che prima di tutto sente i romanzi che ha letto farsi carne e nebbia e alberi sciocchi in verticale a fare da contraltare e, addirittura, termine di paragone coi e dei parchi con gli alberi tenuti ancora in forma di verità nello spazio della città terrestre e pedestre, fuori dal mondo perché in competizione costante col mondo, fiera dei suoi mondi nonostante siano spiaccicati sull’asfalto e sulle mura delle famose periferie.
Ho ascoltato poche volte Milano nella mia vita, ma mi ritrovo nei ragionamenti narrativi creati ed evocati in questo romanzo ovviamente disperatamente felice, “L’inganno”. In bilico durante la volontà della scrittrice, sostenuta dalla sua forza letteraria d’ogni parola, di mettere in discussione – finalmente direi – la parola “nostalgia” – appunto – al rintocco d’altri termini della modernità antica: speranza. Veronica Tomassini, poi, in tutto ciò ha il coraggio e la sublime spudoratezza di non giocare con la cultura; ogni riferimento della maturazione dai classici, diciamo, è esplicitata. I libri che vede camminare nelle pagine ovvero dentro una città che questa siciliana non-siciliana si mette a vivere a discapito dell’inganno degli amori che non dovrebbero esserci epperò si cercano, li mette con fuoco sul bianco.
La cifra stilistica, farebbero sapere i tecnici della parola di mercato, magari a bordo dell’adorazione d’una spontanea quanto mercatara scelta di tante autrici e autori italiani di farsi semplici semplici e lizza dell’ottenimento dell’ultima citazione a disposizione sugli ultimi giornali disponibili a propagandare, è materia di vita però per Veronica Tomassini. Nel senso che questa scrittrice, per rimanere in tema col romanzo portato adesso in libreria, fa della parola la vita che anticipa i fatti vitali e di sopravvivenza.
Io penso che Tomassini, come si desume dallo scorrimento del libro e perfino dai suoi post di facebook, da tempo abbia scelto senza poter scegliere davvero di guardare il mondo ma avendolo prima scritto. Nei passaggi destinati a litigare con le brillantezze illusorie di Milano, per esempio, Tomassini trova facilmente la chiave per tenerci muti a toccare ogni angolo d’un processo fermo che sta messo prima d’un rientro in un altro posto vergato coi tanti colori del falso da altre penne gaudenti (“Io vengo da una città del Sud violenta, volta diffidente”, racconta invece la voce narrante a pag. 33). In poche righe esemplari, ci confrontiamo con il dubbio di cosa sia davvero la Sicilia insomma. E in tante squisite righe viviamo con una serie di personaggi presi a modello di una parte di realtà da rivedere nelle nostre menti, poi.
Più che di Javier, di Sergej e del “francese”, ma anche più che dei manichini preziosi dei romanzi di De Marchi e di Pratolini e di Buzzati, sono la domenica meneghina, la signora Ottilia e le sue amiche a tenerci la mano in “un conclave di estraneità”, “in una lunga continuità atona, se non fosse per il frastuono metropolitano, simile allo sferraglio di spiritelli impazziti”. Pur se non si dovrebbe dire.

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