Con questo suo ultimo, incantevole film, Almodovar cambia tono, spiazza la critica, spiazza parte dei suoi appassionati.
Volver (2006), Parla con lei (2002), Tutto su mia madre (1999), sono tre apici inarrivabili, ma già si collocano lungo un percorso. Almodovar non ripete all’infinito lo stesso film; Almodovar si trasforma. Tutto su mia madre è il punto di congiunzione tra l’Almodovar della prima fase e quello “più maturo”: contiene tutto quello che viene prima, distilla un inno alla vita, e all’autenticità, attraverso la catarsi del dolore. Dopo la miracolosa parabola di Parla con lei, dove la morte è ancor più presente (ma ancora una volta, trionfa la vita), ecco Volver: inno alle donne, dove i toni sono già più pacati, il ritmo più lento.
Già con Volver, dai più osannato per quel capolavoro che è, aveva cambiato passo.
Certo, faceva ancora piangere, ridere, commuovere intensamente. Ma nel far commuovere già aveva ripetuto la scena madre del momento di canto: in Parla con lei Caetano Veloso, in Volver Penelope Cruz.
Volver (2006), Parla con lei (2002), Tutto su mia madre (1999), sono tre apici inarrivabili, ma già si collocano lungo un percorso. Almodovar non ripete all’infinito lo stesso film; Almodovar si trasforma. Tutto su mia madre è il punto di congiunzione tra l’Almodovar della prima fase e quello “più maturo”: contiene tutto quello che viene prima, distilla un inno alla vita, e all’autenticità, attraverso la catarsi del dolore. Dopo la miracolosa parabola di Parla con lei, dove la morte è ancor più presente (ma ancora una volta, trionfa la vita), ecco Volver: inno alle donne, dove i toni sono già più pacati, il ritmo più lento.
Già con Volver, dai più osannato per quel capolavoro che è, aveva cambiato passo.
Certo, faceva ancora piangere, ridere, commuovere intensamente. Ma nel far commuovere già aveva ripetuto la scena madre del momento di canto: in Parla con lei Caetano Veloso, in Volver Penelope Cruz.
Gli abbracci spezzati non è un film “spento”, non è un film “stanco”, non è un film “povero di idee”.
Almodovar semplicemente si rifiuta di fare il verso ai film in cui una sua certa “forma” è giunta a compimento.
Ma ha ancora qualcosa da dire. Perché, intanto, invecchia: e, invecchiando, guarda sempre più spesso al passato. E la vita, sempre più gli appare un film.
Così è l’Almodovar del 2009: introspettivo, retrospettivo.
C’è bisogno di chiedergli conferme di saper fare film come quelli che ha dimostrato di saper fare meravigliosamente? Non vogliamo prodotti in serie.
Invece lui altera il suo stile: diventa rarefatto; lavora di sottrazione; le musiche non sono sgargianti, sono in tono minore, come il film.
Siamo abituati a un autore che fa sinfonie in maggiore; questa è in minore.
Le musiche (laddove non prevale il silenzio) sono per lo più partiture per archi; i toni, bassi. E comunque sono meste, sottolineano (con pudore) emozioni di malinconia e momenti di dolore, emozioni però, sempre intensissime.
In questo film, Almodovar decide di girare le scene più intese e vive su di un isola dalla natura selvaggia, deserta come Lanzarote, ancor più deserta perché fuori stagione. La loro non è una vacanza, non è il culmine di una felicità immensa; è una fuga. Eppure lì vive e si è fermato in un abbraccio estraneo fotografato su una spiaggia deserta, un amore immenso, un amore acerbo, un amore che racchiude tutta la vita di un uomo talmente lacerato dall’esser sopravvissuto all’amata da sentirsi morto con lei, da scegliere il suo pseudonimo per una vita che non sarà più la stessa.
Ci vorrebbero pagine per indicare sfumature e momenti di intensità di un film così struggente (era mai stato “struggente” come questo un film di Almodovar?).
E’ un film sul recupero del passato, sulla memoria, e sui limiti del recupero del passato; sul diritto – anche – a non ricordare. E poi sulla necessità di recuperare, per riprendere a vivere…anche se ormai, la vita è riprendere la lavorazione di un film …perché la vita vera è tutta racchiusa e finita a Lanzarote, dove si è fermata assieme a tante foto strappate.
Gli abbracci spezzati mi ricorda ossessivamente un altro film, tanto diverso e lontano eppure così affine: Hiroshima mon amour.
E poi vorrei dire la cura con cui sono delineati i principali personaggi secondari, primo fra tutti quello, splendido, di Judit (interpretato da una fantastica Blanca Portillo).
Tutti i personaggi di Almodovar, sempre, anche in questo film, anche i “cattivi”, sono personaggi che hanno bisogno di amore, che soffrono, che chiedono l’affetto di qualcuno – anche a costo di opprimere, soffocare, non far vivere. Tanti sono gli esiti, ma una matrice comune li lega (ci lega): il bisogno immenso di amore.
Due personaggi sono speculari: Ernesto e Judit. Essi sono un condensato del Mascolino e del Femminino secondo Almodovar. Ernesto, all’inizio, sembra un buon samaritano. Poi diventa un personaggio repellente. Eppure continua a far pietà, sempre, in quel suo disperato (e tanto umano) bisogno di Lena. Soffre sì, Ernesto: però il suo bisogno di amore non conosce il sacrificio. Ecco il Mascolino.
Forse, per Almodovar, si ama al Femminile. In questo film, non sono Mateo e Lena ad amarsi di più. Chi ama più di tutti, di amore più autentico (quell’amore che non vuole niente in cambio), è Judit. Si riveda la prima sequenza, quella dell’amante occasionale di “Harry”/Mateo: quando entra in casa Judit è gelosa e – soprattutto – apprensiva. Judit per 14 anni ha amato, senza chiedere di essere ricambiata, quest’uomo divenuto cieco, con lo stesso amore di cui è intriso ogni suo gesto…Si riveda la sequenza, meravigliosa, in cui sotto un cielo plumbeo, in una Lanzarote spazzata da un vento senza requie, ella si prende cura del “suo” Mateo, gli alza il bavero della giacca, non lo vorrebbe lasciare un minuto.
E’ madre, sorella, amante. E’ tutte le donne di Volver in una sola donna.
Poteva Almodovar negare a questa donna un figlio che fosse dell’uomo che ama e ha amato così tanto? Anche se la rivelazione è telefonata, noi gliela scusiamo.
Eppure, anche lei ha tradito, anche in lei è trascorso del male.
Far male è proprio di tutti gli esseri umani: Almodovar non dipinge personaggi ideali, e più che mai questi sono personaggi tutti labili, fallibili, deboli, irrisolti. Questo film, così disincantato, guarda alla vita con tanta mestizia, ma con ancora un piccolo sorriso d’ironia (il dolcissimo finale).
E a proposito dei figli, cosa dire dei figli che non sanno, e che vogliono sapere? Dei momenti giusti per sapere – che possono volerci 14 anni a trovarne uno? E’ giusto che sappiano, ma anche che continuino a sognare, i figli che non sanno – com’è la vita – perché sono ancora giovani (mentre Almodovar comincia ad invecchiare…).
14 anni sono tanti. Tutto il male ormai è passato. Quella del fu Mateo, è un’altra vita. Ma torna a pulsare, e il nome di Mateo torna ad essere usato. Magari, intanto, solo per farne un film. Perché la vita, si è spezzata a Nevers… ops, a Lanzarote.
Splendido melò raggelato, raffreddato, che contiene tutti i sapori della vita. L’amaro: anche. Almodovar non ce lo risparmia.
Per Almodovar, la vita è sempre venuta prima del cinema. E se il cinema è tanto importante, è perché vuole essere, per lui, lo specchio più autentico della vita.
Ho letto che Almodovar, prima di concepire questo film, avrebbe avuto una malattia che l’ha costretto senza vista per dei mesi.
Ma questo conta relativamente: Gli abbracci spezzati porta tanti altri segni di essere un film dalla profonda matrice autobiografica.