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L’immaturo Michel

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L’immaturo Michel

Ero quieto. Seduto ad un tavolo di un bar del centro, con, soprattutto e innanzi tutto di non averne voglia.
La mia unica distrazione stava tutta nell’osservare il livello di birra nel mio bicchiere e provvedere ogni tanto alla sua stabilizzazione; formare una collinetta ipercancerogena dentro il posacenere pensando alle baruffe di quella volta che ho tentato di smetterci, e depistare una vocina che di dentro mi suggeriva di fuggire via.
"Bevi in fretta, presto, prima che sia troppo tardi", così mi diceva, con insistenza. E lei lo sa come va a finire, poi, se si sta troppo a tiro in un bar: qualsiasi avventore, oltre all’irrefrenabile desiderio di surplus in ginnastica per il proprio fegato, soffre vistosamente di crisi astinenza e, se non si sente in bocca il turbinio di parole e parole, se non rifila a qualcuno una mitragliata di pensieri concludenti su vari temi, dà di testa.
Soprattutto gli piace cianciare sui fatti altrui partendo dai propri.
Così, capita, che si siede uno, in procinto di esplosione di tic di loquacità a perdersi; mi chiede da fumare, contando, in uno sguardo, la fila di bottiglie di birra svuotate, le sigarette rimanenti dentro il pacchetto e i puntini rossi sul mio viso.
Ed esplode. Il suo argomento principe è lo sport, anche se tra un gol e l’altro e una formazione e un’altra, anche quelle storiche, chiacchiera con il fantasma della sua fidanzata, che è stata ammazzata anni fa, e rifa’ la monetizzazione delle ore di lavoro come rappresentante di biancheria intima per donne raffinate, e mi offre alcuni veraci goderecci espressivi sui miliardi presi da chi è in braghe corte e sugli inventori telematici, dà dei commenti alla cameriera e sul suo modo assai erotico di muoversi tra i tavoli e sottolinea con un "oh" dieci paia di gambe ignude che ci passano vicine, citando mille volle la sua preferenza che è tuttavia per le collant rosse e giammai coprenti, ma di seta.
Poi, zitto d’improvviso, si mette di profilo come Marlon Brando in "il selavaggio", ma con gli occhi più da orca assassina, e sussurra, mangiucchiandosi tutti verbi e a sette portate, che anche lui è venuto a sapere di quel mio amico (che non aveva né baffi e né un’auto rossa, perché andava solo in bicicletta) il quale, in fatto di sentimenti e di affetti non se la cava proprio bene, ma come da piuttosto cornuto. Ma, visto che i miei grugniti di risposta non gli danno sufficiente sazietà, e che non ho nessuna voglia nemmeno di dirgli che quel mio amico è omosessuale e da più di quindici annui, incrocia le braccia sul petto e si tira sui muscoli come un soldato al comando.
E mi pone l’infingarda domanda, che mi aspettavo:
"Come ti va la vita?"
E se la ride, ride da perfetto avventore, con persistenza improrogabile e in un modo che nessuno può parteciparci, il massimo è colui che comincia da appena varcata la soglia e ancora in risposta al vicinato che gli urla dalla propria finestra di andare a dormire. Forse continua anche a casa.
Comunque, rispondo:
"Bene!"
Ma già prevedo come andremo a continuare.
Così, con prima un gesto delle dita che dicono "denaro" e con la mano aperta mi scannarizza, mi chiede:
"Perché non ritorni a scrivere sui giornali? Perché non fai più il giornalista?"
Ecco, fatto!
Ulteriormente, come accade sempre quando sto troppo a tiro di avventore, finisco col parlare dei giornali, di aiutare a far lievitare le fantasie, ma solamente citando la favola degli orchi direttori e dei figlioli di magnati colpiti da imbecillità precoce, dicendo un milione di volte quanto costi al giorno d’oggi l’acquisto della carta e che sono tutti soldi rubati alle donazioni e alle associazioni terzomondiste, visto come si fanno oggi i giornali: piace e stimola!
Ma con l’anima imploro pietà e una sola domanda: "ma mi hai guardato bene?"
Visto che il perfetto avventore non è giammai spinto dallo spirito dell’ascoltare, allora gli dico:
"Facciamo che tu sei il direttore di questo giornale", gli mostravo il quotidiano della mia città che per tutti i suoi cinquantamila fans deve ringraziare la sua esistenza esclusivamente perché s’è dimostrato di impeccabile puntualità della pubblicazione dei necrologi. Tanto che lì solo s’è concentrato, e solo per non deluderli.
E aggiungo:
"Ecco, io ora vengo da te con questo mio articolo. E te ne chiedo un giudizio."
"Facciamo", ha detto lui.
"Ma prima ordiniamo una birra?"

"Dunque…
Una strada. Ai numeri pari ci sono delle villette bifamiliari ognuna con un piccolo giardino. Tutte eguali e talmente in ogni particolare abbellente che, per non creare troppi impicci di orientamento, si ha avuta la brillante idea di dipingerle in tinta diversa, alternato, in rosso mattone sbiadito e in rosa caldo. Ai numeri dispari si ergono dei larghi e alti condomini, in un tutt’uno come una grande scogliera marina, ma poiché risultavano troppo monotoni, diversamente da come si erano visti sulla carta, li si è vivacizzati dipingendoli in grigio e in verde pistacchio, piano per piano, e il piano di mezzo in giallo fosforescente.
Da come è disposta questa strada, nel gioco dei punti cardinali, e per la sua forma a ferro di cavallo, l’erba dei piccoli giardini delle villette non è mai baciata dai raggi del sole, se non qualcuno in riflesso dalle finestre dei condomini. Ed era questa l’unica nomea di quella strada, nota per i suoi giardini in ombra perenne.
Senonché si iniziò a parlare di cose strane che succedevano là. Soprattutto dello strano comportamento mattutino di una vecchia donna che, poco prima dell’albeggiare, si affaccia al suo balcone fiorito e da lì grida: "E’ venuto, è venuto". Ogni mattino.
La cosa incuriosì e non poco.
"Non ci date retta, non ci badate!"
Lo sostengono alcuni che della vecchia donna ti sanno raccontare ogni sua esperienza o desiderio. E con dovizia e ricchi particolari, sanno spiegarti il perché di questo suo tormento mattutino.
"E’ un’inezia! Non ci macinate un caso. E’ per via del doppio ricordo e del doppio rimorso. Solamente perché i suoi affetti non hanno trovata l’usura naturale. Né come mamma, né come moglie. Che disgrazia fu… E’ insonnia! E’ perché non dorme, altroché…"
La sua "prima volta" si dice che coincida proprio dopo quella prima notte, che per lei fu tragica.
"La terra sopra i suoi affetti era come un bel campo d’autunno. Che disgrazia, che disgrazia. Neanche da augurarla al peggiore nemico. Non le riusciva nemmeno più di piangere. E continuava solo a bere, tanto e col nervoso… solamente acqua!"
Uno, con il tono di voce come per far paura ai bambini, sovrasta tutto e cattura l’attenzione:
"Era un bel giovanotto. Grande, grosso e belloccio. Era un uomo allegro e sempre ben disposto, soprattutto se c’era da far baldoria. Aveva solo un brutto vizio, anzi due: beveva di tutto sopra i quaranta gradi alcoolici e poi si godeva un sacco a correre con la sua auto. Abitava là, all’ultimo piano, dove c’è appesa la bandiera biancorossa…
E con un tono più gufato, aggiunge:
"Il semaforo dalla sua parte, era sul rosso. Da destra giungevano, Gaspare e Cosimo, in bicicletta. Il figlio Cosimo aveva il comando del manubrio, rideva; Gaspare parlava e pedalava. Cosimo suonò tre volte il campanello e Gaspare, come era inteso nel loro gioco, non fece neppure in tempo a fare con la bocca il terzo "Perepepè" che in un baleno le loro carni si moltiplicarono e si unirono. Alcuni brandelli si spiaccicarono su quella finestra del primo piano."
Così morirono ammazzati, marito e figlio della vecchia donna, poco meno di tre mesi fa. Ed è da allora che ogni mattino lei si sporge dal suo balcone fiorito e grida:
"E’ venuto, è venuto! Anche stamane è venuto. Eccolo là! Lo vedete? E’ ancora lì giù."
Le prime volte, qualcuno che lì giù c’era, s’è preso pure uno spavento e di quella sua esperienza racconta:
"E perché non lo sapevo! Non è che gridi. Nemmeno pare una disperata. Lo dice come una anziana signora a modo, una con una buona pensione. Più come se chiamasse il suo barboncino "fufù", che però non arriva."
Ma non fu solo una questione di farci l’abitudine, perché alcuni ci si imbufalirono:
"Lo sai che cos’è che ha quella là? E’ che s’è bevuta il cervello. Quella oramai come compagna c’ha sola la follia. E’ pazza! Pare una di quelli del film "qualcuno volo sul culo"…"
E lo dicevano tutti assieme in un unico fiato, accompagnando il loro coro con quelle tipici atteggiamenti che sono per lo più dei bimbetti di cinque anni e mezzo, viziatissimi, mentre sfidano un coetaneo, a chi la sa dire più grossa. E ognuno ci teneva anche a suggerire il fatto che erano tutti iscritti al cineforum del mercoledì e che a casa avevano anche la prima tessera: ben diciannove anni fa!
"E’ una vecchia schizoide!"
Così in molti si accorarono e anch’io che lo dissi ad altri con il gusto di sparlarci. Guai a farlo, però, perché avviene di venir insultato e in un modo tale che sovviene oltre anche il rimorso di essere nato.
"Lei si comporta come si sente di farlo." ti dicono, "E’ unicamente ispirata dal sentirsi sempre se stessa. Il resto è puro frutto dell’ignoranza."
E ci aggiunge delle gestualità con semplicità risolutrice, o il pragmatismo dei sospiri interpretanti.
E lei continuava.
Tanto fu, finché germogliarono le prime assemblee, dove si dovevano discutere su "parchetto sì, parchetto no" e di altre utili cose alla vita del quartiere, ma dove ci si finiva sempre col parlare della vecchia donna e del fastidio che recava alla popolazione, e non solamente a quelli con lei confinanti. Che alla nona assemblea, si decise che si doveva assolutamente mettere sotto chiave la vecchia donna e, poiché era rimasta sola al mondo e non aveva neanche un parente che di lei si potesse curare, e firmarne l’internamento in manicomio, si credette che lo dovesse imporre un comitato popolare.
"Non è che noi ce l’abbiamo con lei. Capisca, non è un nostro fatto personale. Siamo esclusivamente mossi da una pura questione di giustizia e in nome della pace sociale. Affinché anche lei capisca che alla comunità ci deve adeguare e giammai viceversa. Le ci vogliono dei freni, inculcarle dei principi generali…"
E con questi discorsi, ti fermavamo per strada, ti accerchiavano, ti spingevano in un cantuccio e ti mettevano un foglio in mano con in cima il titolo "La vecchia sotto chiave "il comitato popolare a favore…", e ti ritrovavi una penna in mano e davanti alla tragica sintesi: "firma!"
Di firme ne raccolsero tre pagine, tutte di una calligrafia indecifrabile e a dir poco criptica, ma, come si mormorava sugli autori, essere tutte di gente che conta o di altra che è entrata nel grande giro. E quasi si gridò alla vittoria.
Ma non ci s’era accorti che un altro comitato s’era dato da fare: il comitato popolare a favore. I promotori possedevano una dialettica agguerritissima e dei toni di voce possente. Tant’è che appena si presentava uno slargo se ne vedeva uno in cima ad una cassetta e da lì in cima sbraitava.
"La vecchia donna deve essere lasciata in pace. Anche lei paga le tutte le tasse! La vecchia donna ha tutti i sacrosanti diritti di dire ciò che le pare e anche di gridarlo se ne ha la voglia. Chi ce l’ha con lei ce l’ha anche con la libertà e con il mondo degli uomini liberi…"
E in mezzo ai capannelli che si formavano ce n’erano degli altri che giravano e sussurravano qua e là:
"Vi siete per caso scordati del vecchio Bamberi? Che fine ha fatto il vostro buon cuore? Perché allora non avevate niente da ridire sul vecchio gallo del Bamberi? Vi ricordate quanto volte cantava al dì? Quanti sonni perduti? Perché non siete così comprensivi adesso?"
Ci misero solo cinque giorni per farla patta con il comitato avverso. Le loro tre pagine erano leggibilissime: nome e cognome in stampatello, indirizzo e numero di telefono e alcuni ci aggiunsero dei propri fatti intimi e personali.
La parità, non aiutò a sedare gli animi.
E la vecchia donna continuava:
"E’ venuto, è venuto! E’ ancora lì giù…"
Ci abitano poi in quella strada chi agli angeli ci crede per davvero e che, oltre ad aver inseriti cinque minuti nelle loro preghiere interamente dedicati alla vecchia donna, andavano in giro redarguendo con l’anima tutti gli esagitati dei due comitati chi li sostenesse.
E se per caso gli chiedevi informazioni sulla vecchia donna, subito questi congiungevano le mani al petto e con gli occhi bassi dicevano:
"E’ una grazia! Una gioia immensa averla nella nostra strada. Un dono insperato. Ah, se fossimo tutti come lei, benedetta!"
E stanno delle ore a parlarti degli ordini gerarchici lassù in Paradiso, sottolineando l’immensa importanza che hanno i ministri di Dio, e cioè gli angeli.
"Chi è in contatto con i ministri di Dio e un’anima prescelta. E’ una santa! Capisce? Lei li vede…"
In verità però, se si contano tutte le teste che si sono espresse con una loro opinione sulla vecchia donna, si tocca una bassissima percentuale degli abitanti di quella strada. Il resto, ovviamente, si impegna con tutta l’energia nello sport preferito dalla nazione e se ne frega!
Eppure…
Eppure si dice che, quand’ancora la notte è l’indiscussa padrona, poco prima d’ogni mattino, e il destino degli incontri si confonde coi sogni, scenda in quella strada un canto desolato.
"Michel, Michel, vieni a me, mio piccolo Michel. Te ne prego piccolo mio, vieni a me."
Sottile, prima leggero, come una malinconia che non lascia la propria preda; poi deciso e tuttavia indefinito, come un nuvolone del tramonto che rappresenta qualcosa. Poi straziato.
"Michel, Michel, vieni a me, mio piccolo Michel. Te ne prego piccolo mio, vieni a me."
Di questo canto desolato nessuno però ne parla. E anche se si sa che sono in molti ad averlo udito, e anche se si sa che sono in molti che sono scesi in strada e ne hanno cercato la fonte, e anche se la curiosità per gli angeli è immensa, ognuno è poi pronto a rinnegarsi. Soprattutto quando passa sotto il balcone fiorito della vecchia donna.
"Dice a me?";
"No, no, non c’ho tempo cara signora. Sono anche in ritardo al lavoro…";
"Ma mi lasci perdere. Che vuole da me?": è proprio là sotto, che, con le mani, con la testa, con il cuore, con tutto l’impegno possibile, le si dà mille volte torto.
Ma quel canto c’è:
"Michel, Michel, vieni a me, mio piccolo Michel. Te ne prego piccolo mio, vieni a me."
Puntuale ogni mattino; incominciò tre mesi fa.
Si insinua in un’eco tra i canaloni dei condomini, ridesta la vita del muschio dei giardini in ombra perenne, sale poi con un urlo finale, disperato, che sveglia i bambini e i vecchi, che di scatto si levano dal letto e si mettono in ginocchio sul materasso e gridano tutti assieme:
"No, pietà, pietà… i funghi no! Né per cena, né per pranzo. Per favore funghi oggi proprio no."
Lo si sappia: è esclusivamente di funghi che in quella strada ci si nutre, ce n’è in abbondanza; talmente tanti, e sempre, ci crescono che anche gli appassionati vanno a raccoglierli là. E ce ne sono in tutto l’anno. Si presentano in pantaloni di pelle di camoscio, coi calzettoni verdi di lana, con il cappello di panno grigio adornato di vario piumaggio e la camicia a scacchi o rossi o gialli; s’affacciano ai cancelli, fanno amicizia coi cani, giocano coi gatti, portano giochi ai bebè, pagano la cauzione, e poi si mettono a cercare, e anche se i giardini ne traboccano, girano comunque per ore e ore e a volte anche sudano come docce. Cacciano un urletto e anche esclamazioni da super eroi dei cartoons… salutano l’avversario e gli mostrano il loro campione, che è sempre una mitezza al paragone di quelli che si trovano nei sottoboschi di montagna. E appena scende la sera fanno ritorno alle loro case e narrano agli altri le meraviglie micologiche di questa strada e mille e mille storielle su una vecchia donna che abita in una bicocca, una casina che secondo il loro parere dovrebbero radere al suolo, perché stona col resto; una casina isolata dal resto e zeppa di fiori ai balconi e anche gerani di mille specie e chissà di che altro che potrebbe essere nocivo per i funghi.
Sono loro che mi hanno messo spinto a saperne di più. Dicevano:
"E’ una vecchia donna, che si chiama Rosina, che ogni mattino si affaccia al balcone e si mette a gridare, dice che bisogna cercare un angelo che sta in strada";
"Sì è vero. E’ un bellissimo angelo custode…";
"Si chiama Rosetta, e non Rosina. Ha i capelli color rame, due soli denti davanti, ma aguzzi e gli occhi bianchi. Dicono che in un sol giorno aumenti e diminuisca di peso di venti chilogrammi;"
"Ma no! E’ una vecchia nonnina tutta uncinetto e preghiere per i nipotini. Una di quelle che si vedono il dì di festa. Va alla prima messa tirando giù dal letto il parroco. Che colpa ha se trova conforto cogli angeli";
"Ve lo dico io come è questa faccenda. Si è inventato tutto! Ecco. Ha imbastito questa storia, perché la vogliono sfrattare dalla sua casa e perché lì ci vogliono costruire un centro commerciale, che servirebbe a tutti. La tele è già lì pronta e vedrai che casino viene fuori da questa storia. Gli angeli è solo un trucco, un richiamo per gli allocoli";
"Tutte bestemmie. La verità è che lei quell’angelo lo vede veramente ogni mattino. E’ un angelo custode, disperato perché è disoccupato. Si dice che in quella strada ci abiti una bellissima donna gravida, una celebrità. E che il suo bimbo non vuole nascere: è già in ritardo di tre mesi. Si sono tanto stancati d’aspettarlo che gli hanno già fatto il battesimo, con l’acqua santa sulla pancia della donna e gli hanno messo nome, Michel. L’immaturo testardino, ha messo in subbuglio tutti i medici, anche un premio Nobel. Lo capite? E’ vivo, ma non viene fuori. E quell’angelo è lì che lo aspetta, lo reclama ogni mattino. Anche se per me gli angeli sono tutta una balla";
"Per me vi siete bevuti il cervello: tutti! Si vede che non avete studiato, che non vi informate. E’ una mera questione di umidità. In quella strada ce n’è così tanta che sei ci vai, ti bagni in cinque secondi più di due ore sotto un acquazzone. I bambini lì soffrono di reumatismi dall’età di tre anni. E i vecchi hanno la pelle così liscia e così tenera che viene la voglia di dargli un morsetto. Tutta questa umidità dà però alla testa. La strada non è nuova a dei fatti eclatanti. Una volta là ci abitava uno che hanno pizzicato al reparto maternità dell’ospedale mentre tentava violenza a due gemelli siamesi. Alcune donne si sono viste crescere una terza mammella e un vigile in pensione è sfrecciato con la sua auto nell’incrocio dove aveva sorvegliato e smistato per tutta la sua carriera, a centottanta chilometri all’ora. La vecchia donna e la leggenda dell’angelo è niente al confronto di ciò che succede là. Tutto per l’umidità".
Ma lì, uno, pallido in viso, incominciò a tremare e balbettò:
"L’ho visto anch’io! Pazzesco… C’ero andato perché il mio amico Tony, che è il postino di quella zona, mi disse che al numero ventotto aveva veduto un porcino di due chili e mezzo. Così sono andato là alle quattro e mezzo di notte, per fregarvi tutti. Poco prima dell’alba ho sentito un canto. Faceva: "Michel, Michel", soave e dolce dapprincipio. Poi un urlo, disumano e voci di bimbi e vecchi che gridavano in coro "No i funghi, no", il canto diventato più un pianto, ma uno che mai avevo udito. E poi la vecchia donna che s’è messa a gridare…. un attimo di silenzio e mi vedo davanti un piccolotto, bello e fatto, ignudo; mi guarda. Dietro a lui, a pochi passi l’angelo… il bimbetto guarda me l’angelo e anche la vecchia donna; tira su le spalle e corre via. E ancora l’angelo, un canto più straziato e la vecchia donna che grida e tende la mano verso l’angelo. Il bimbo mi passa davanti. L’ho visto! E’ tutto vero…"

Tant’è che mi decisi e un mattino andai in quella strada."
"Perché?", mi chiede il mio interlocutore.
"Il perché è uno solo: mi piacciono i se e i ma, mi piacciono i dubbi e credere che si possa dire anche "preferirei altrimenti."
"E allora?"
"E allora ci andai.
Mi sedetti in una panchina, vicino ad una edicola e a tre fontanelle. Davanti a me, a pochi metri stava il balcone fiorito della Rosina, e da lì coprivo un’ottima visione, abbastanza ampia e lunga, della strada.
E’ notte, ma nell’istante che il tempo è inquieto. Ovunque c’è un rumore assordante che se ne sta in silenzio, come se l’autore sia il più timidissimo degli esseri con la fissa di non disturbare gli altri, d’impaccio anche per il proprio respiro. Ovunque è come la caduta di una vaso di cristallo poco prima di frantumarsi sul marmo. Solo pipistrelli, che tornano silenziosi alle loro tane, ma strani, più come un via vai in un’arteria stradale all’ora di punta dove il più piccolo inconveniente potrebbe dar avvio ad un improvvisa sinfonia su spartito di soli acuti.
La luce è solamente quella naturale. Un nero che tende al blu , ma solamente se si fissa un punto.
Poi, d’improvviso il tutto si esaspera, è un piccolo pettirosso ad aver dato il la, che ha cominciato: un cinguettio generale, tutti nell’esercizio dei massimi o nel tentativo di imitarsi l’un con l’altro uccello.
E io concentrato.
Un soffio di vento, ma foglia non si muove, è la sensazione del calore che sta per giungere. Qualche intonaco arrossisce e i contorni si risaltano dentro il buio.
Il primo sole! Perché è blu e giammai giallo?
E assieme compare l’angelo.
Di porta in porta va, a balzelli come un cangurino, pestando il buio che resta; di tanto in tanto si guarda alle spalle, attento e nel muoversi, come un gatto mentre caccia.
Piano, dolcemente, come una meccanica ben oleata, senza il minimo rumore, le ante di legno del balcone fiorito, si sono schiuse. Compare lei, Rosina: due pupille chiare, un naso, un mento e due mani raggrinzite, che cercano.
L’angelo s’è fermato di fronte ad una porta. Liscia, ma senza toccare, con le nocche il legno. Tutto proteso in avanti, ma come se avesse cento mani che si sono aggrappate a lui e lo tirano indietro.
La vecchia donna? Allunga il collo, spuntata è la sua testa tra i gerani, si muove come quella di un serpente.
Il blu si tinteggia di rosa e di giallo tenue, e di bianco. D’improvviso è di nuovo silenzio, mentre la notte scompare, metro su metro. Un uccellino che si tira col becco il piumaggio, un altro che si strofina con un ramo, due altri che fanno far fare esercizio alle ali e altri in piccoli saltelli. Il sole non è ancora spuntato.
L’angelo?
Ha la testa all’indietro sin dentro le scapole… le ali… e sale il canto, tenero e dolce, in sofferto ma sicuro e deciso:
"Michel, Michel, vieni a me, mio piccolo Michel. Te ne prego piccolo mio, vieni a me."
E’ tutto un volo generale, uccelli in picchiata, altri che puntando il cielo, altri in planate, altri in doppi giri della morte, le prime scaramucce, qualche piuma e gli insetti e il sole.
"E’ venuto, è venuto! Anche stamane è venuto. Eccolo là! Lo vedete? E’ ancora lì giù."
La vecchia donna grida, si muove sul suo balcone fiorito come una marionetta. Il canto s’è fatto desolato, quasi chi ha il cuore straziato… e davanti a me un bimbetto ignudo, bello come una mela un attimo prima di marcire.
Mi fissa.
"Dove vai Michel?"
"Vado dove mi pare!"
"Dove? E perché? Che ci fai qui?…"
Parto come una mitraglia. Lui mi guarda, e anche la vecchia donna, anche l’angelo che sta venendo verso noi, ma come se non possedesse forze e che, quasi l’avessero sgozzato, chiama "Michel, Michel". Si aggiunge il latrato di una cane e tante voci di bimbi e di vecchietti e un coro generale "No, i funghi no".
"Vado al molo numero tre!"
"Che ci vai a fare là, Michel?"
"Là c’è la vita, tutta la vita che mi è negata ancora prima di cominciare."
"Ma…"
Nemmeno il tempo di dire, che Michel è corso via, veloce veloce. E io dietro e l’angelo dietro a noi e le grida della vecchia donna tra gli "smettila"e "benedetta"è oramai una scenografia lontana.
E poi io e Michel al molo numero tre.
"Vengo qui da undici mesi."
"Che ci vieni a fare?"
"Perché qui c’è la vita, quella vita che mi è negata, che quella donna mi nega non amando la sua di vita. Appena posso, le scivolo via e vengo qui. Lo sai cosa mi dice ogni giorno?"
"No…"
"Lo faccio! Una volta o l’altra lo faccio, mi butto. Non ne posso più. Perché a me, proprio a me? perché a me questa disgrazia? Ma io mi butto! Vedrete… Cento, mille e più volte al giorno me lo ripete."
"Michel, Michel… dove sei mio caro Michel?"
E’ freddo, troppo freddo.
"Michel, Michel… Michel…"
"Che vuoi da me angelo? Vattene!… Beh che aspetti?"
"Michel, mio povero Michel, mio piccolo Michel…"
"Non ti voglio angelo, vattene te l’ho ben detto…"
"Michel, mio piccolo Michel, mai mi avrai. Devi tornare, Michel! Tua madre l’ha fatto io ti ho perduto ancor prima di ritrovarti."
L’angelo sfiora la fronte di Michel, come se volesse stringerlo a sé ma con mille mani addosso che lo tirano indietro.
E sono solo. Al molo numero tre. Mi passa accanto una tartaruga gigante, che nuota dritta verso i due orizzonti, là dove acqua e cielo si confondono, come due mondi che sono diversi ma che sanno toccarsi, come i sogni e la vita che ogni tanto si toccano e ci fanno stare al di là. Ho solo un pensiero: che il mondo possa esistere senza la paura dei se, che ci sia tutto quello che si è immaginato un attimo prima.
Poi torno là.
La strada è ancora deserta.
Gli scuri di alcune finestre lentamente s’aprono al giorno, un cigolio nient’affatto sinistro ne accompagna il movimento. D’altre già stese stanno le lenzuola e le poche coperte stanche dell’inverno.
Pietro, lo spazzino, dà fondo alle ultime energie rimastagli. Il suo turno sta per completarsi.
In fondo alla strada, sotto il balcone fiorito, a pochi passi l’attende l’ultimo bidone da riempire. Se ne sta lì seduto sul suo grande triciclo, col coperchio spalancato come il becco di un pulcino mai sazio. Pietro guarda, alternando un’amorevole occhiata all’ultimo carico sulla lercia padella, e uno gonfio d’odio all’insoddisfatto recipiente lagnoso come un capoufficio. Tra poco il turno di Pietro terminerà e così anche lui potrà andare a riposarsi.
"Ma guarda se le devono proprio nascondere…"
Pietro infila la mano dietro il paracarro:
"Chi mai dovrà essere questo che si mette in testa di nascondere le carte a questo modo."
Poi cacciò un urlo, un pianto, e ancora un urlo… due corpi stretti stretti in un tenero abbraccio, un corpicino e una donna, stretti stretti, ancora legati dal cordone, lui sulla pancia di lei, e tanto sangue.. e due angeli che salutano.
Ecco!"
"La vecchia donna? Che fine ha fatto la vecchia donna?, mi chiede il mio interlocutore."
"Il suo balcone fiorito non è più di questa strada."
Mi alzo e lo saluto.
A volte al bar si era anche più fortunati…
E mi mostrò un tumbler, con il fondo pesante. Ma già ne aveva in mano un altro.

Giancarlo Gandini (continua)

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