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Chiara e il mare

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Chiara e il mare

Ogni sera trapassa dell’anima l’ultimo strato, pensavo. Ogni sera che vedo calare sul mare, ogni notte che vedo agitarsi tra i rami dei pini, e tra le sagome scure dei palazzi, qualcosa di me cede. Qualcosa che non so più chiamare per nome.
Ed era sabato, buio ormai da ore, e sugli scogli piatti del bagno 74 cinque figure ascoltavano lo sciabordio dell’acqua attendendo qualcosa di diverso e conosciuto. L’accendino le illuminava la mano, ciotola improvvisata, e sul volto di lei scolpiva con lamelle chiaro scure un improbabile maschera d’avorio. Lei ricordava e copiava. Riproduceva un gioco antico.
Il cielo scuro, pieno, s’appoggiava tiepido sul mare, agitandolo con una brezza giusto percettibile. L’acqua tremava appena, e come un immenso libro braille raccontava storie lontane e suggeriva lievi emozioni. La schiena, appoggiata leggera sullo scoglio reso un poco viscido dall’umidità e dall’aria salmastra, contava le mille fessure, ritagliate nei secoli dal mare, e percepiva qualcosa di più che una semplice sera di giugno: assorbiva un sopito disagio, un senso di piccolezza di fronte alla maestosità di uno spettacolo quotidiano, magico e spettrale.
Si era lì, in prestito, in una sera quasi speciale, a cercare di trovare un attimo di sorrisi in qualche grammo di comunione. Un piccolo rito pagano, un breve momento di luce, in una mondo di strozzature che sembrava non riuscire più a toccarci in nessun modo.
Ed io, sì, la guardavo, e pensavo a lei, bionda, giovane, ribelle.
Pensavo a come forse le ero stato simile, pensavo a come il mondo si alternava e come, dove avevi messo i piedi tu, piccolo e impaurito, adesso altri passeggiavano. Il viale era lo stesso, perché la paura non esiste, ma ti perseguita, e la rabbia che sale di giorno in giorno ti condiziona, forse addirittura ti plasma fino a trasformarti in qualcosa di più indefinito, più generale.
Guardavo il suo sguardo che andava spegnendosi. Sentivo la sua voce, le sue risate un poco isteriche, i suoi commenti via via più semplici.
Avrei voluto abbracciarla. Forse baciarla. Dirle qualcosa di carino.
Dirle che anch’io ero ancora come lei. Dirle che la capivo, l’ammiravo, e l’invidiavo per il suo essere fuori dagli schemi. Le invidiavo entrambe per quello che io non potevo, né volevo più essere.
E guardavo il mare. Casa loro, avrei potuto chiamarlo: io lì non c’ero nato. Io lì non avrei saputo vivere, senza le mie cose, le mie strade secondarie, quelle in cui sapevo perdermi ma anche ritrovarmi.
Forse avrei dovuto mettermi veramente in mezzo a loro due, e fare loro capire che per me, essere lì, non era solo un modo per macinare un sabato sera come tanti… non era soltanto un modo per avere il cielo come tetto, e il mare come compagno di giochi, ed il gusto esotico del sale sulla pelle. Non ero lì per correre, per stonarmi, per sparire in un abisso di torpore fino a non pensare più se non ai suoni, alle ombre cupe delle cose. Io ero lì per loro. Per ciò che erano state per me allora, quando io viaggiavo con la bottiglia di whisky nello zaino, e andavo in giro ubriaco, in collera con il mondo il cielo Dio tutto… quando io ero un cagnolino bastonato che non sapeva più se leccare mani o abbaiare abbaiare e bastardi tutti, bastardi… distruggere e distruggersi. Loro erano state con me. Lei, sorella, più che amica, quando non c’era nulla da dire o da fare, se non mugolare un po’ alle sere tutte storte e senza prezzo, e l’altra, buona compagna di qualche momento semplice, importante appunto perché allora così rari e così desiderati.
Ma io non sapevo cosa dire. Questa improvvisata macchina del tempo era lì che mi aveva portato: in mezzo ad un falò grande come un pugno, di fronte ad un futuro-passato con loro, immagini distorte di come ero stato: punk, ribelle, emarginato. E vedevo altre figure al mio posto.
Vedevo me come avrei potuto essere. Vedevo la luna scivolare negli occhi di due ragazze e rimbalzare nella mia mente come un sasso in uno stagno. E volevo vomitare via il disagio, o baciarlo, assaporarlo ancora, qualsiasi cosa pur di non stare così, in questo limbo in cui io ero eroe e sconfitto, vincitore e brigante appeso in croce, e lasciato crogiolare.
Vedevo Matteo non raccogliere e guardare le stelle con sospetto.
Anch’io mischiavo come lui quella sera ad altre, e lo capivo un po’, un po’ l’amavo, di quell’amore duro, aspro, che sa legare paglia e ferro e rende gli uomini avversari prima e poi amici. E vedevo Cesare più rilassato, ma comunque distante, incerto.
Ma non riuscivo più in tutto questo, a vedere veramente me. In quella notte che doveva essere per tre, divisa in cinque pezzi di colore differente… mal saldati insieme… mal uniti, ma comunque fusi come metalli per formare una grottesca statua in lega, ogni cosa aveva una ragione profonda e subito la perdeva senza lasciarne traccia. Ed io già sentivo il dolore del distacco, quando ancora, tutti insieme, quasi a nulla pensavamo.
Saremmo andati a ballare da qualche parte, da lì a poco. E tutto sarebbe sfumato in un giallo ocra o in blu elettrico. Ma io, lo so, non volevo nient’altro. Volevo solo guardare, ascoltare, ricordare.
Volevo incrinare quel velo sottile che la realtà ogni tanto sembra divenire, e ritagliato un quadro grande come me, oltrepassare la frontiera, e tornare dove ero stato. Soltanto stavolta, non più solo.
Solo, questa volta, in mezzo a loro.

This place

can’t see

my tears

for you

can’t hear my voice

can’t understand

why

I feel this way

but I can’t live

without
Marco Giorgini

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