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Articolo 18

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"L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro"
Art.1, 1°comma, Costituzione della Repubblica italiana
È la domanda che probabilmente molti cittadini si pongono da qualche tempo, da quando cioè, è in corso il "braccio di ferro" tra Governo (accusato dai sindacati e dalla opposizione parlamentare, di voler diminuire i fondamentali e irrinunciabili diritti conquistati dopo anni di lotta dai lavoratori e fare "macelleria sociale") e il movimento sindacale (accusato dal Governo, maggioranza parlamentare e Associazioni imprenditoriali di proteggere un obsoleto freno alla flessibilità del mercato del lavoro oltre che fare una pericolosa "disinformazione" sull’argomento), proprio riguardo alle proposte di modifica di questo articolo2 dello "Statuto dei Lavoratori".3
Per valutare meglio le ragioni delle posizioni in campo, vorrei cercare di esaminare più approfonditamente la proposta legislativa4 del Governo, almeno nella sua versione originale, in quanto come noto, in questi giorni il confronto si è rivolto su una proposta legislativa del Governo che non prevede più modifiche all’articolo 18; l’esecutivo, anche per superare l’impasse con i sindacati5, ha, infatti, annunciato che queste saranno oggetto di un successivo distinto disegno di legge, che sarà presentato in Parlamento.
Innanzitutto, cosa prescrive l’art.18 e cosa propone il Governo?
L’articolo in esame, detta una disciplina che trova applicazione in caso di licenziamento del lavoratore senza
"giusta causa" 6o "giustificato motivo"7;
la parte più significativa della norma che ci interessa in questa sede, è rappresentata dal comma 1: "Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 6048, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, …, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di 15 prestatori di lavoro…, di reintegrare9 il lavoratore nel posto di lavoro…".
Attenzione, ove non sia applicabile l’art.18, e in pratica per un elevatissimo numero di lavoratori in una economia come quella italiana, fondata su micro, piccole e medie imprese, si applicherà la legge n.
604/1966 10la quale pone una alternativa sanzionatoria per il datore di lavoro che licenzia il dipendente senza giusta causa, rappresentata dalla c.d. tutela "obbligatoria" 11per il lavoratore, che può decidere o di essere riassunto o essere risarcito con un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione
Questa distinzione di fondo, tra tutela reale e obbligatoria, risponde alla opportunità di escludere da obblighi di reintegrazione quelle aziende le cui dimensioni ridotte sarebbero incompatibili con la continuazione forzosa del rapporto di lavoro; il continuare a lavorare "gomito a gomito" con il datore o con altri preposti entrerebbe in contraddizione con la personalizzazione dei rapporti, il carattere cooperativo e fiduciario, che in questi ambiti si sviluppa.
Dunque, appare, a primo avviso, un principio naturale quello dell’articolo 18, quasi banale, se non fosse per il campo di applicazione che esclude anche e paradossalmente, i dipendenti di sindacati e
partiti politici12
Infatti, questo regime non sarà minimamente toccato per i lavoratori regolarmente assunti da datori che impiegano più di
15 dipendenti 13(cioè per la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati, che oggi protestano e scioperano…)
La proposta del governo era, fino a pochi giorni fa, contenuta in una legge delega, con cui cioè l’esecutivo domandava al Parlamento di poter legiferare in questa materia, nel rispetto di "principi e criteri direttivi" (art.76 Cost.), stabiliti dal Parlamento stesso.
Il progetto di legge
delega14 prevedeva questo testo:
"Ai fini di sostegno e incentivazione della occupazione regolare e delle assunzioni a tempo indeterminato, il Governo è delegato a introdurre in via sperimentale, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, disposizioni relative alle conseguenze sanzionatorie a carico del datore di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato ai sensi della legge 15 luglio 1966, n. 604 e successive modifiche, in deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 prevedendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) conferma dei divieti attualmente vigenti in materia di licenziamento discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il suo matrimonio a norma degli articoli 1 e 2 della legge 9 gennaio 1963 n. 7 e licenziamento in caso di malattia o maternità a norma dell’articolo 2110 del Codice civile; (tali fattispecie non saranno commentate proprio perché ne è prevista la conferma, n.d.r.)

b) applicazione in via sperimentale della disciplina (i casi sono alla successiva lett.c, n.d.r) per la durata di quattro anni dall’entrata in vigore dei decreti legislativi, fatta salva la possibilità di proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale;
c) identificazione delle ragioni oggettive connesse a misure di riemersione, stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio, che giustifichino la deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300."
Per far chiaro il linguaggio burocratico della legge, il Governo propone "la sospensione" in via sperimentale e temporanea (4 anni) della disciplina dell’art.18 in 3 "limitate" fattispecie (per le quali in luogo della reintegrazione viene assicurato il "solo" risarcimento):
1.
per i prestatori di lavoro "emersi" da situazioni di irregolarità, che potrebbero essere licenziati qualora l’azienda nel nuovo "regime" regolare, non potesse più mantenere il livello di occupati (ammesso e non concesso che la semplice sospensione dell’art.18, sia sufficiente per indurre i datori a regolarizzare i prestatori…)
2.
per i prestatori con contratto a tempo determinato che raggiungessero maggiore "stabilità" vedendosi trasformato il contratto a tempo indeterminato, e quindi con potenziali maggiori rischi e impegno economico per il datore
3.
per i prestatori assunti da aziende con almeno 15 dipendenti, che con le nuove unità ricadrebbero nell’applicazione dello Statuto, e dunque nei maggiori vincoli e rigidità giuridiche nel rapporto di lavoro (che in certi casi, avevano impedito l’aumento di occupati)
Personalmente, non credo che queste "modeste" 15sperimentazioni giustifichino chi parla di "cancellazione dell’articolo 18", anche perché la dottrina giuslaburistica italiana da molto si interroga su questi aspetti e su queste "rigidità" del nostro sistema giuridico del lavoro.
Di qui un dibattito, sviluppatosi anche in epoche "non sospette" in cui esponenti autorevoli del Governo e della maggioranza di centro-sinistra, si erano posti il problema proponendo soluzioni anche legislative non dissimili da quelle di oggi, dibattito che ha visto schierato da una parte chi sostiene la inderogabilità del principio di giustificazione del licenziamento e della connessa sanzione reintegratoria: in quanto attinenti alla sfera dei diritti fondamentali del lavoratore subordinato, tali principi andrebbero applicati ovunque a prescindere dalla dimensione produttiva, pena una inammissibile penalizzazione dei lavoratori delle imprese minori; dall’altra parte si colloca, invece, chi, privilegiando le esigenze delle aziende minori, ritiene proponibile un sistema di tutele differenziate nei confronti del licenziamento in funzione di una diversa dimensione
occupazionale16.
Da un punto di vista più prettamente politico, trovo arduo spiegare, senza fare disinformazione, agli elettori del centrosinistra, mobilitati da Partiti e Sindacati, nella difesa ferrea dell’art.18, perché da questo presunto baluardo debbano rimanere esclusi
5 milioni di lavoratori17.
La realtà è che, paradossalmente, le iniziative di Rifondazione e CGIL, con la loro logica massimalista ma stringente, finiscono col mettere a nudo l’errore insito nel fare dell’art.18, così com’è, un diritto di libertà sacro e intangibile.
Riconoscerlo apertamente è un passaggio obbligato per l’elaborazione di una proposta di riforma del nostro diritto del lavoro che garantisca davvero pari dignità e pari sicurezza a tutti coloro che lavorano continuativamente alle dipendenze di un’impresa, senza però allontanare ulteriormente il nostro mercato del lavoro dagli standard della Comunità Europea, ma senza mai avvicinandolo ad essi.
Alberto Monari
I laburisti sono come Cristoforo Colombo:
quando partono non sanno dove vanno,
quando arrivano non sanno dove sono arrivati,
e tutto questo… con i soldi degli altri.
Winston Churcill

1
Il presente articolo è stato chiuso dall’autore il 23 giugno 2002.

2
Articolo 18, legge 20 maggio 1970 n.300. (Reintegrazione nel posto di lavoro).

3
La fonte normativa più importante dopo la Costituzione(in particolare artt.35,39, della Parte prima, Titolo III, Rapporti economici), in materia di libertà sindacale è oggi la legge 300/1970, meglio nota come "Statuto dei Lavoratori". Con questa legge il legislatore del 1970, ha inteso perseguire due obiettivi di fondo: tutelare la libertà e dignità del prestatore, sostenere la presenza del sindacato sui luoghi di lavoro.

4
La quale rappresenta solo una proposta di "modifica" della norma, e non di "abrogazione" o "cancellazione" totale della stessa, come tante volte politici e giornalisti, hanno affermato.


5
Nell’ambito della cosiddetta "triplice" sindacale (costituita dalle tre organizzazioni più rappresentative, CGIL, CISL, UIL) si delinea una diversità nelle scelte di confronto con le controparti. La CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori, fondata nel 1950 dai sindacalisti democristiani staccatisi dalla CGIL nel 1948) e la UIL (Unione Italiana del Lavoro, fondata nel 1949 da sindacalisti socialdemocratici e repubblicani) sono più propense a mantenere aperta la trattativa con il Governo, mentre la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro, fondata nel 1906 come Confederazione Generale del Lavoro da esponenti socialisti; è il sindacato con più numerosi aderenti) ha dimostrato subito un atteggiamento di assoluta intransigenza e chiusura nei confronti delle proposte governative, che porterà alla adozione di iniziative varie di lotta durante i prossimi mesi da parte di questa sola componente.

6
La nozione di giusta causa si rinviene nell’art.2119 cod.civ. ove è previsto che, le parti possano recedere dal contratto di lavoro, senza necessità di preavviso "qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto", cioè non solo in comportamenti costituenti notevoli "inadempienze contrattuali"(es. assenze di svariati giorni non giustificate, danni causati ai clienti colposamente o dolosamente), ma anche in fatti estranei alla sfera del contratto che facciano venire meno il rapporto di fiducia col datore di lavoro (es. l’arresto e la detenzione in carcere).
Cfr. F.Carinci, R.DeLuca Tamajo, P.Tosi, T.Treu "Diritto del Lavoro-2 Il Rapporto di Lavoro subordinato" UTET, 1998, pag. 444 e ss.

7
Il concetto si suddivide in giustificato motivo soggettivo (quando avviene un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali de prestatore di lavoro, cioè di fatti del lavoratore, strettamente attinenti il rapporto di lavoro, che sono meno gravi rispetto alla giusta causa ma che sono sufficienti a scuotere la fiducia del datore di lavoro e fargli dubitare dell’idoneità effettiva del lavoratore a svolgere le sue mansioni) e giustificato motivo oggettivo (art. 3 l.604/1966, il licenziamento può essere intimato per fatti inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, cioè per tutte quelle esigenze dell’attività aziendale, non eccezionali, o imprevedibili, che determinino delle variazioni nell’andamento dell’azienda- come cali di produzione, crisi di mercato ecc.-)


8
La norma fa riferimento ad un "tentativo di conciliazione" davanti all’ufficio Provinciale del Lavoro, cui le parti possono affidarsi per risolvere la controversia.

9
E’ la c.d. "tutela reale" per cui il giudice, oltre ad ordinare la reintegrazione, è tenuto a condannare nella sentenza che ha riconosciuto la nullità del licenziamento, il datore di lavoro ad un risarcimento del danno patito dal dipendente, liquidando un’indennità commisurata alla retribuzione dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore alle 5 mensilità (ma è noto quanto può essere lungo un procedimento giudiziario in Italia, pur in presenza di un rito, nel processo del lavoro, che velocizza i tempi rispetto all’ordinario).

10
L. 15 luglio 1966, n. 604, Norme sui licenziamenti individuali

11
Legge 604/1966-Art. 8
Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità pur essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.

12
Art.4, comma 1, legge n.108/90: "…La disciplina di cui all’art.18….non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto…".
Il legislatore ha voluto sottrarre tali datori al rischio della reintegra ex art.18, ritenendo che il carattere ideologico o, come si dice, "di tendenza" dell’attività svolta, non permetterebbe una continuazione "coatta" della collaborazione con un lavoratore sgradito o comunque "non allineato" all’ispirazione o ideologica del soggetto datore. Cfr. F.Carinci, R.DeLuca Tamajo, P.Tosi, T.Treu "Diritto del Lavoro-2 Il Rapporto di Lavoro subordinato" UTET, 1998, pag. 467 e ss.

13
O più di 5 se trattasi di imprenditore agricolo, ibidem

14
ARTICOLO 10
Delega al Governo in materia di altre misure temporanee e sperimentali a sostegno dell’occupazione regolare, nonché incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato

15
Così sono ritenute dalla maggiore associazione di categoria padronale, la Confindustria, che in ogni caso credendo nella funzione quasi "simbolica" di questa modifica di un impianto normativo vecchio di 32 anni, in un mondo del lavoro completamente cambiato, si "accontenta" e sostiene il governo in questa fase.


16
Cfr. "Il Rapporto di Lavoro subordinato"…citato.

17
Circa 3 milioni di lavoratori delle imprese che occupano fino a 15 dipendenti, più circa 2 milioni di "co.co.co", i nuovi collaboratori coordinati continuativi. Cfr. Pietro Ichino "Il vicolo cieco dell’articolo 18", Corriere della Sera, 30 maggio 2002, pag.1.

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