«Che siano loro, uomini di un continente di là dal mare, a rinsanguare la stanca città?
Forse è un segno di speranza che abbiano messo radici nella città che li rifiuta,
proprio nel posto dove infierì peste e distruzione»
(Corrado Stajano, “La città degli untori“)
Durante un comizio pubblico a Milano, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi arriva a dire: «Non è accettabile che talvolta in alcune parti di Milano ci sia un numero di presenze non italiane per cui non sembra di essere in una città italiana o europea, ma in una città africana. Questo non lo accettiamo»[1]; e a me, che in questa città ci sono nato e ci vivo, sorge spontanea la domanda: «Chi non accetta cosa?».
Dovremmo ricordare al Presidente che oramai a Milano il cognome più diffuso non è più Fumagalli, bensì Hu, e non solo in via Paolo Sarpi, e che tra gli imprenditori registrati presso la camera di commercio vi sono più Mohammed che Brambilla[2].
Che è tipico delle grandi e moderne metropoli, in ogni angolo del mondo civile, raccogliere e far vivere insieme persone provenienti da paesi e culture differenti: creando in questo modo interazioni virtuose e scambi arricchenti, un vero melting pot. E ve lo dice uno che ha vissuto a New York, Amsterdam, Parigi, Bruxelles e Buenos Aires, solo per citare alcune delle location significative da cui dovremmo imparare qualcosa in materia di città “colorate”.
Che, forse, l’arroganza di qualcuno deriva solo dalla paura e la paura dall’insicurezza: paura di ciò che non si conosce e insicurezza di ciò che dovrebbe costituire il nostro patrimonio culturale. In sintesi, qualcuno ha perduto le proprie radici e per questo non è in grado di allargare la mente per affrontare la prova data dalla globalizzazione in casa.
Detto questo, desidererei invitare il Cavaliere a ricordare quanto riportano le cronache circa Sant’Agostino d’Ippona, padre della chiesa, che arrivò a Milano dall’Africa, precisamente dall’Algeria, più di 17 secoli or sono, e qui iniziò il suo proficuo rapporto con il nostro vescovo Ambrogio, contribuendo in maniera unica ad arricchire quella cultura cristiana che sta alla base della nostra civiltà europea
A noi, tutti noi, il dovere di essere degni successori della tradizione ambrosiana, italica ed europea, nella concezione più “civile” che questa possa assumere.
[1] Cfr. Il gran finale della campagna del Pdl. Berlusconi: «Milano sembra africana», in http://www.corriere.it, del 4 giugno 2009.
[2] Cfr. Ravelli F., Milano, se la casbah adesso fa paura, in Repubblica, del 6 giugno 2009.
Davide Caocci, nato a Milano nel 1972, ha studiato Diritto ed Economia tra Italia, Francia e Argentina. Esperto in politiche di cooperazione internazionale e sviluppo locale, lavora tra Europa, America latina e Africa, trovando anche il tempo di offrire corsi in università italiane e straniere e scrivere articoli sui fenomeni legati alla globalizzazione. “Semel Scout Semper Scout”.
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