Giovanni Testori, indiscusso ma problematico romanziere, critico e drammaturgo del Novecento italiano, ereditiere gaddiano di una pagina dall’aspetto deforme, barocco, è l’inventore di una lingua immaginaria che, tra dialetto, francese, inglese e latino si forma in un impasto decentrato e instabile.
L’alterazione linguistica diventa funzionale allo “sprofondamento conoscitivo”, all’esigenza di calarsi “entro i visceri dell’umana natura”.
Questo stravolgimento espressionistico è subito riconoscibile sin dai primi testi non solo di letteratura ma anche di critica d’arte, come si può cogliere, già da queste prime esperienze, anche quel senso di profondità e angoscia che lo accompagneranno e saranno punti focali della sua scrittura teatrale.
Quello di Testori è un sondaggio privato, denso di riferimenti cristologici, una discesa che porta “alle oscure e viscide catene del coito genitoriale”, cercando una soluzione tra Io, Madre e Padre.
Nel saggio Il ventre del teatro del 1968 Testori parla di un teatro dell’avvicinamento, di questo luogo come ventre, appunto, in cui le domande sulla verità profonda ricevono una soluzione. Il personaggio, solo, si sforza, tra momenti di allucinazioni, riflessioni, discorsi metatestuali e metateatrali, di pronunciare “l’incomprensibilità del profondo”, di “verbalizzare il grumo dell’esistenza”.
Un teatro di parola quindi, che trova nel monologo-confessione la sua forma e nell’attore colui che può trasformarla in gesto, azione, corpo, che la faccia diventare carne, sangue, bestemmia, imprecazione.
I suoi personaggi interroganti chiedono una risposta e tentano di avvicinarsi a quel caos, quel abisso, quel mistero che rimane sempre e comunque irrisolto e trova come unica figura possibile il corpo stesso, unico mezzo di punizione e redenzione.
La sua ultima opera , Tre Lai, scritta nell’anno della sua morte, il 1992, è quasi un testamento poetico e raccoglie tutta la ricerca affrontata sui poteri di una parola umana e carnale ma profondamente lirica e poetica.
I tre lai sono i pianti di tre donne: Cleopatràs, Erodiàs e la Mater Strangosciàs ma diventano inni alla vita: tre personaggi femminili attraverso cui l’io dell’autore parla, tre donne che raccontano e sentono il mistero dell’amore in modo sensuale, furente o pietoso.
Queste figure si muovono tra un Egitto shakespeariano e una Palestina biblica che però si tingono degli orizzonti milanesi, creando un immaginario caro all’autore.
La prima figura che incontriamo è Cleopatràs, con un linguaggio lussurioso e passionale:
“Oh, non pensar, ragazzo,/ che siccome nel dir/ seguo incosì el tuo cazzo,/ sia per te più propriamente/ che il mio inno io fazzo!/ E’ sol d’amor/ il canto mio di me;/ amor de tutti i amati,/ amor de tutti i grandi/ ciavati, ciavanti/ e ciavatori…”
Ad attenderla, solo la morte.
Erodiàs esprime tutta la violenza, l’impetuosità, il delirio dell’amore, che insorge dal rifiuto del Battista, attraverso un linguaggio maccheronico, ricco e musicale:
“…io te riciapperò,/ testa de vitello cristunada,/ e i resti vomitando,/ l’ossa, diso, i denci,/ i nervi et i nervit/ de contra al busto crucirato,/ tutta ed intriga/ io te manducherò./ E quand el pasto ischifosissimo,/ insieme cannibalico et gaudioso/ sarà ben terminato/ sciugatami le labbra/ col lino a questo preparato,/ libera finalmente/ e liberata,/ da me sola/ cunt la curtella del salam/ da me mi sgozzarò/ e la balla/ della strageca menzogna tua incarnada/ al mondo intrego testamenterò.”
La sua unica salvezza è aspettare la terza lamentada, quella della Mater Strangusciàda che, con un misero alfabeto, più umile, umano, si fa carico di una dolcezza, una pietà:
“Ecco:/ un levissimo sorriso,/ quasi l’ombretta/ d’una gioia,/ ovver gioietta,/ te percorre/ fin alla barbetta/ el dolce viso…/ Oh bello,/ bellissimo mio riso,/ tutto d’empietà,/ legnade, colpi de piedi,/ sgiaffi e sgraffi/ inciso et incidato!/ Se dise:
incidato/ od inciduto?/ Io me/ Me lo son, ecco, scorduto…”
Lei è l’unica in grado di far accettare a se stessa e a tutti il tremendo destino del Padre, l’unica che lo accoglie “senza dir a né e”.
Come si può notare qui non si sta parlando di personaggi e il testo non richiede di essere “rappresentato”, al contrario, l’attore, pur immergendosi nella lingua, rispettandone ritmo e metri, deve gestire la torrenzialità emotiva, creare quasi un distacco, che permetta al pubblico di cogliere questa “carnalità verbale”.
Del resto Testori stesso non inventa personaggi: nelle sue creazioni sono presenti,contemporaneamente, personalità storica (Erodiade), personalità teatrale, (Erodiàs), autore e attore: ad un certo punto, infatti, le protagoniste stesse affermano di essere attrici, di star recitando, perciò cade la finzione scenica.
Non dimentichiamo, inoltre, che Sandro Lombardi, grande interprete dei testi testoriani, non si è mai posto il problema del sesso o del travestimento e li ha messi in scena vestito da uomo, creando una figura spettrale e lunare ma al contempo trasandata, popolare, ricca di una temperatura emozionale interiore.
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