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L’acqua e la pietra – Bianca Madeccia

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La densità della struttura poetica dell’opera in esame, che al primo incontro mi venne da definire centripeta, è già nei due sostantivi speculari e contrapposti del titolo.

L’acqua è liquido amniotico, brodo primordiale nel quale gli aminoacidi si organizzarono a costituire materia vivente; nei presocratici l’umido fu ente e forma dell’essere.

Queste e tutte le altre intuibili metafore, unite ad un’aggettivazione che la delimita ulteriormente –fluida-inafferrabile-incomprimibile…-, rendono il senso che l’acqua assume in questa poesia, ma, un po’ più velato, perfino vero-eterno-cosmo.

La peculiarità dell’acqua è nel suo ribollire: lo stato ghiacciato o di quiete ne decretano la morte, simile a quella di tutti i progetti che hanno osato la sfida all’insondabile, costretti prima o poi a ritrovarsi di ghiaccio.

Padrone di tutto ciò che hai vinto/hai schiacciato e costretto l’acqua alla quiete./La tua follia ora è visibile/tu, congelato nei tuoi passi.

Opposta all’acqua è la pietra, che a tutta prima si erge a corpo solido, concreto e inscalfibile e che, invece, a un’indagine più accurata declina la sua fragilità: mentre l’orologio celestiale batte vita e stagioni, il tempo la fa cenere o deve arrendersi all’elemento liquido in grado di cavarla.

L’acqua è la dannazione della pietra,/così la sconfitta si ripete attraverso i tempi.

L’indicazione mostra già la linea del percorso esistenziale, emotivo e artistico che l’autrice assegna a se stessa ed evidentemente consegna al lettore, ossia di rifuggire l’apparenza e le certezze scontate per uno scavo più profondo nell’intimità della cosa e della vicenda umana.

Continuando nel tentativo di ricostruirne la genesi, pietra è soprattutto la creatura, in balia di forze che la sovrastano e che difficilmente arriva a comprendere il motivo della vessazione (l’acqua?), creatura destinata in breve a farsi terra, abbandono alla polvere, in un ciclo che riflette il senso democriteo dell’affannarsi del tempo nella sua incessante trasformazione, ma anche il cristiano pulvis es et in pulve reverteris.

All’essere umano pare venire un invito a resistere e a consorziarsi in un leopardiano afflato universale dall’epigrafe da Italo Calvino, perché a opinione della Madeccia ciascuno è una pietra del ponte che solo si sostiene nell’arco di tutte le pietre.

Anche la roccia, come l’acqua è ordine e necessità del mondo. Senza l’umano, coscienza e misura dell’universale, si perderebbe la funzione stessa della storia. E ci sono molti esempi che l’esperimento poetico includa uno stralcio metafisico di ricerca di sensi della vita del mondo.

Innanzi tutto, nella strenua eleganza formale il verso non include mai la pennellata paesaggistica o la facile suggestione lirica e austero si erge sulla desolata pietraia dell’esistenza, ma soprattutto si citano a mo’ di esempio i versi del canto XVIII che comincia: la domanda si ripete e si ripete…o asserti simili a questo: lo sai già, il muro è costruito per tenerti fuori.

Nonostante un frequente interlocutore, un tu dall’altra parte del verso, la poesia non si allontana dall’esercizio del monologo interiore, come se si trattasse del suo io speculare, indicato talora proprio al femminile.

Mai un pianto, un abbandono.

Una desolata-assorta solitudine vigila a cui fanno da cornice  le architettura di sabbia dell’artista Lughia, spalancate su paesaggi alieni, scabri, inabitati. Una luce sinistra li illumina, sotto un cielo di pece.

All’essere vivente M. tuttavia non suggerisce la resa o la sosta a rimuginare sull’ineluttabilità e sull’asprezza del destino dell’uomo, ma il consiglio è all’impegno. Anche se il risultato non sarà inebriante, il fare dà alla vita la disciplina etica che toglie la formica della terra dall’umiliazione.

La cosa giusta al momento giusto/ la tua unica protezione nel dubbio.

La coscienza del doppio binario oscillante tra il finito e l’infinito che intersecano il segmento vitale, costantemente scagliata in differenti direzioni la punta della freccia, può bastare non solo a definire ma anche ad accettare la crudeltà del limen. Dono parziale e dannato, la vita si dipana nella miseria quotidiana, struttura del finito e della risposta incompleta, e la volta stellata dove il destino dell’eterno è segnato dalla luce, che è culla della verità inaccessibile del cosmo.

Tutto è duplice in verità sulla crosta terrestre. Doppia anche l’anima della persona nei due assetti di conscio e inconscio. Su tutto, in ogni modo, cielo, terra e passo umano vigila lo scandaglio della mente mai disposto a cedere nel tentativo reiterato di vedere il bagliore.

Corteggiare la morte,/ nel petto una sfera bianca e calma,/ le radici fisse sul secondo,/ la voglia di sfidare l’attimo giusto,/ proprio al cuore.

Doppia anche la faccia dell’amore, seducente, da un verso, nel suo abito di conforto e nell’illusione del per sempre, ma anche sguardo in basso, ove l’amore, a rispecchiare l’imperfezione dell’esistente, si abbassa a semplice gioco di terra.

Di tanto in tanto, il peso del quesito torna a gravare di pessimismo il cuore. Occorre allora una pausa.

Poni distanza tra te e le domande/e ti distacchi da buio ed ombra./ Non vuoi che una mattina/ dal vuoto arrivi la risposta/ che, come crepa nel muro, incrini la certezza.

Tuttavia l’apparato cosmico, alla Madeccia, sembra conseguire a un disegno predeterminato seppure non anticipatore di un destino di salvezza. La mano invisibile,/legata al cielo, tiene e accudisce il giardino; oppure: un progetto così ricco sfociato/ in avara e sterile miseria.

Più che teorie, immersa nel suo agnosticismo, l’autrice dipana dubbi, semina interpellanze alle quali la ragione non risponde.

Severa la lima del verso, asciutto nel suo rigore classico, scarno di aggettivi e punteggiatura, dal ritmo composto segnato anche da versi lunghi e doppi.

Questa è a mio parere il fluire profondo della poesia di B.M., che è anche l’entità di tutte le arti in genere, di avere, cioè, un aspetto bifronte, assoggettandosi a una sorta di         ri-costruzione, nel nostro caso della Parola, da parte di chi ne fruisce, secondo il livello concesso dalla sensibilità; ri-facimento che, gradino dopo gradino, conduce al nodo di un’opera: un rapporto indissolubile tra chi scrive e chi ha  l’anima di accogliere.

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