“Soffio”… il titolo rivela molto di questo film, il cui tema risulta essere perfettamente in accordo con il classico stile del regista coreano. I detrattori dicono che il peccato principale degli ultimi film di Kim Ki-duk sta in una certa tendenza autocelebrativa del regista e le scelte estetiche e poetiche, fatte sulla scia di alcuni suoi film di successo, ne sarebbero una chiara dimostrazione.
Indubbiamente la visione di “Soffio” non provoca le stesse violente e tenere emozioni di “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” e i silenzi non hanno lo stesso straordinario potere di gonfiare il cuore come, invece, in “Ferro 3 – La casa vuota”.
Nonostante questo, il regista coreano, con il suo ultimo lavoro, riesce ad occupare un posto speciale nel panorama della cinematografia d’essai, opponendo grazia ed armonia alla scomposta frenesia di molte pellicole occidentali.
La sceneggiatura si basa su pochi elementi, inizialmente scollegati: un uomo condannato a morte che tenta di suicidarsi, un marito fedifrago che mette in crisi la stabilità familiare, una moglie sofferente e confinata in un appartamento che fa pensare ad una prigione.
La donna, disattendendo ai doveri del menage familiare e in preda a motivazioni oscure (o fin troppo evidenti), incontra lo sconosciuto carcerato Jang Jin creando momenti straordinari: ogni volta le pareti del parlatorio si trasformano in vivissimi panorami che richiamano il susseguirsi delle stagioni. Yeon parla, raccontando di come la perdita del respiro l’abbia avvicinata alla morte, Jang Jin ascolta, il marito comprende solo nell’atto finale.
Il desiderio fra i due, impossibile ma al tempo stesso sempre più urgente, viene ogni volta interrotto nel momento clou dall’intervento del capo della sicurezza che osserva nel monitor l’evolversi di questo improbabile rapporto.
Un soffio di morte e un soffio di vita per il finale.
La storia si sviluppa secondo una logica apparentemente contraddittoria e priva di razionalità. Un senso di imperscrutabilità, naturalmente sottolineato dall’assenza di parole, avvolge il rapporto tra Yeon e Jang Jin, accomunati dalla necessità di un “soffio”. Il disamore della donna nei confronti del marito si trasforma nel desiderio di condividere la condizione di prigionia e di morte. Non occorre parlare, bastano pochi ed ostinati gesti, canzoni popolari che fanno sbocciare un sorriso, un’illusione regalata attraverso la fotografia radiosa di luoghi e tempi ormai lontani. Tutto questo basta per un soffio soave.
L’arrivo della neve, come sempre, mette a posto le cose… e i titoli di coda scorrono nel silenzio assoluto della sala.