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LEDA, Romanzo di carne – Angela Buccella

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Richiama alla mente, questo romanzo contemporaneo italiano, la scrittura di La pioggia (titolo originale: La pluie; traduzione di Giuliana Toso Rodinis), di Rachid Bondjedra.

Scrittura – questa – densa e piena di punti fermi; priva – se non per una – di virgole; elezione in lettura di un’anima femminile sfibrata dall’interrogarsi intorno alla condizione esistenziale della donna moderna.

Leda si differenzia dall’io indagatore di La pluie per l’apparente dato di analisi estroflettiva, per una ricerca agnostica d’un vissuto apparentemente individuale, e per l’assenza di poeticità come scelta di puro costrutto.

La penna si concede poche righe di veridico pathos, e nel supremo atto di descrizione d’un circoScritto-filmico dramma da accadimento.

Svelare il tema, compiaciuto nel poetico incanto delle pagine dalla 67ma alla 71ma, sarebbe un’ingiustizia ai danni del miniflusso di coscienza e dell’opera nella sua essenza di letteratura stringata.

 

Il dramma è tale che diventa lettera cruda, impostata, maschera imbronciata e nuova generazione capace di nascondere l’espressività in una e più frasi che, quando non è una scrittrice a vergare, potrebbero essere lette su pareti pubbliche oscure, ai margini del tempo di ville comunali, sospeso nell’attimo d’un sentimento da FOREVER.

Se in La pluie i punti fermi richiamano una generazione ancora propensa all’agognata certezza, la Leda buccelliana abiura completamente, o quasi, alla punteggiatura, e sceglie un canto di rabbia repressa, o frustrazione trasfigurante, o ancora, il più “banale” tema della non sopibile/sopprimibile violenza alle donne. Che prende due vie: società ed autopunitività.

Qui, su questi temi, le scelte stilistiche denudano una necessità di adesione d’interesse da parte della critica sociologica alla letteratura, più che letterario-poetica in senso stretto.

 

Il libro, uscendo dai canoni algidi del sentire profondo dell’io narrato/narrante, opera una deminutio catartica lenta, accedente al dato-inchiesta e – tramite lo studio esistenzialista – giunge all’impossibilità della salvezza.

L’intento salvifico è negato dal principiare, e lentamente colato come pece sulle streghe d’una nuova era di mezzo, un medioevo che strazia carne e sinapsi, e pone una scelta “anche” di postuma dedica.

Nulla della donna si svela realmente, a partire dal suo stesso rimanere nebulosa; per colpa non certo dell’incompiutezza del narrabile, ma del dolore da gestire cronachisticamente in versi “animaleschi” che solchino una piccola parte di cellulosa.

 

Tre virgole o poco più nel momento essenziale, prefasico alla chiusura d’una modalità di espressione di quel dolore, che ora non può più essere solinga cronaca; che ora deve e può uscire dalle strisce quotidiane e riportare alla luce i concetti imposti, i comportamenti codificati da una marginalità e devianza totali, globali e “sessuoadesivi”.

Il mondo della donna è il mondo d’uno sfatto e ditirambico misticismo; un Cristo muto amato nelle claustrofobiche stanze della monacale-patriarcale esistenza fissata alla carne sacrificale delle Madonne.

La tensione alla salvezza passa attraverso la santificazione forzata dell’uomo-padrone, eletto tale.

 

La sociologia della letteratura, quindi, può occuparsi del caso proposto qui da Angela Buccella, altrove dalla Bilei, ancora nella Massei e in quella schiera oggettiva di donne oggetto descritte nell’attimo dello sfruttamento.

 

La solitudine è il perno del dramma, l’abbandono il perno dell’impossibilità di resurrezione.

Il dio ittifallico è stanco, disattento, capace soltanto d’un male gratuito, e per il quale bisogna formulare specifico punto di domanda.

Evaso questo, rimane l’essenza profonda della matriarcalità sopita nel gesto erotico-altro negato, e nel bisogno d’una Cerere intenta a scovare la soluzione annientativa dell’innocenza. Ma d’elezione vera, per capacità e abnegazione, non si tratta. La schiavitù del Mandala solido whitiano si sbercia sul selciato d’un coito assunto in grembo troppo fertile e troppo “castrante” per desistere dal proprio cupio dissolvi.

Patrick White descrive un uomo al margine, e Leda verga il manifesto d’una letteratura al femminile che, per nascere, ha bisogno che si cambi mentalità politica, e d’accesso alle stanze del potere.

 

Inutile dire che, per parte mia, le opinioni in quarta di copertina (nell’ordine: di Federico Chiara, Gian Paolo Serino e Matteo B Bianchi) non colgono l’essenza d’un narrato che – dichiarato troppo intimisticamente di genere – non permette al critico maschio di sentire una responsabilità oggettiva su una violenza altrettanto oggettiva.

Sono, tuttavia, questi soltanto stralci; scelti – è palese – accuratamente ad anti-commento d’una proposizione esistenziale, e collegati rapporti tra sessi; per cui interessante sarebbe leggere le relazioni, se vi sono, cui gli stessi accedono.

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