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Salvador

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In Spagna non se la sono passata bene. Fino alla morte di Franco la situazione è stata buia, come lo è in tutti i paesi sotto una dittatura. Alcuni ragazzi, tra cui Salvador Puig Antich, decidono che è arrivato il momento di fare qualcosa, di agire. Si schierano dalla parte del proletariato e degli operai, hanno bisogno di soldi. I soldi stanno nella banche. Le banche si rapinano con le armi. Quindi armi, rapine, soldi e aiuto al proletariato.

Inizia tutta una vita fatta di clandestinità, di fogli stampati in ciclostile, di fughe in Francia.

Pensiamo al concetto di terrorismo.

Pensiamo a quanto possa essere frainteso.

Se siamo in uno stato fascista è terrorista chi non rispetta la legge di quello Stato.

E’ terrorista quindi chi è nel giusto.

Grande prima parte di questo film, ci muoviamo per Barcellona, accompagniamo questi ragazzi nelle loro azioni, ci inoltriamo nella loro ideologia e nel loro pensiero. Troviamo le radici profonde di tutto un periodo e di tutta una generazione, ma ancora non c’è violenza gratuita, ci sono le armi come passo obbligatorio di un percorso.

C’è il desiderio concreto di una rivoluzione.

La sequenza di una rapina mette i brividi. Vediamo i preparativi dei ragazzi e la colonna sonora inizia a mandare Locomotive breath dei Jetrho Tull. Ora non so quanti conoscano questa canzone, ma ha tutta una parte introduttiva con piano e chitarra che modula le emozioni fino alla loro esplosione quando attacca il riff di Martin Barre. E quando il riff attacca i ragazzi scendono dalla macchina, pistola in pugno e assaltano la banca.

Brividi, brividi lungo la schiena.

Il regista lavora molto sul lato emotivo, sul coinvolgimento prima di tutto umano dello spettatore. E se nella prima parte del film questo atteggiamento è legato all’inevitabile immedesimazione di chiunque sia o sia stato giovane nel concetto di Rivolta, diventa ridondante però nella seconda parte del film, dove ci troviamo nella prigione in cui è stato rinchiuso Salvador.

Il ragazzo viene incarcerato per l’uccisione di un poliziotto (tutte da chiarire le dinamiche e le responsabilità) avvenuta durante il suo arresto. Salvador viene poi condannato alla pena di morte. Molti si mobilitano per aiutarlo (la famiglia prima di tutto, delicati e commoventi i legami tra Salvador e le sorelle).

Le speranze poi diventano sempre di meno, fino a svanire del tutto.

Questa seconda parte esagera forse nel sottolineare l’aspetto emotivo della vicenda, ma è anche il modo più breve e diretto per raggiungere le coscienze degli spettatori, non tanto nei confronti del ricordo di una dittatura ormai morta e sepolta, quanto per una presa di posizione sulla pena di morte, viva e vegeta in molte parti del mondo.

Salvador verrà ucciso tramite la garrota, uno strumento di tortura di origini medievale. Se non ne avete mai sentito parlare, informatevi. Tanto per ricordarsi di cosa è capace l’uomo.

Il regista non realizza né un film politico (anche se è palese il suo appoggio a questi ragazzi), né un film militante. Ricostruisce un’epoca e ce la racconta. Ne mostra i suoi ideali e i suoi giovani, ci restituisce quel senso di comunità che ormai da noi è soltanto un lontano ricordo e cerca di ribadire l’inutilità e la barbarie della pena di morte.

Toccante il momento in cui una delle sorelle di Salvador gli racconta, per ingannare l’attesa di una notte interminabile nell’inutile speranza di una grazia, I quattrocento colpi di Truffaut.

Poi forse un po’ di manierismo (tutti quei movimenti di macchina intorno all’esecuzione) e di retorica (il rapporto con una delle guardie), ma rimane comunque innegabile l’esigenza morale di dover ricordare quanto accaduto e di doverlo raccontare a chi non ne sapeva niente.

Le rivoluzioni non sono impossibili.

Peccato che in tanti, troppi forse, l’abbiano dimenticato.


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