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Tutto è bene quel che finisce – Stefano Busellato

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Tale è la voce del silenzio.

Il tentativo di accerchiare con la parola le categorie della natura e del proprio vissuto mostra solo il giro superfluo quanto faticoso del poeta intorno all’indeclinabile: giorni e accidie sovrapponibili e non districabili cronologicamente, nell’iterazione di giorni che passano diventando mesi/ che passano /mesi fatti di giorni /che passano /giorno dopo giorno…, una caduta in avanti senza crescita, senza progresso, senza rivelazione.

L’assillo riguarda la mancanza di senso di questo inconcludente andare, che trova pace solo nell’esito ferale quando il tempo che non perdona apparecchia dietro l’ultima svolta una tomba, ma anche l’incapacità di definire attraverso lo sforzo enunciativo-evocativo della parola il sottinteso che non è altro che vuoto, un arcobaleno caduto.

Così al pari dei giorni che si sovrappongono, anche nella mente c’è un’idea che si ripete /idea /si ripete /idea /si ripete e sulla bocca un lemma inutile.

E dunque Busellato accoglie a definizione dell’essere e della propria condizione una sorta di libro che ammassa pagine intonse, indistinguibili perché simili, dalle quali l’orizzonte non s’avvicina ed è tutto comunicante / tutto circolare come mare dello stesso mare, con una sola parola impavida: l’iscrizione della pietra tombale.

Nelle nebbie del quotidiano avanza un’umanità dolente e disfatta. Si sfogano nella cecità pulsioni elementari e ventri uniti, che costituiscono l’abbandono dei vinti ai vinti.

Dopo queste premesse, il poeta parla di una lingua assente, incapace di soddisfare la sua funzione esplicativa e comunicativa, una lingua, la sua, che sovente si stravolge deragliando in neologismi e sincretismi alla ricerca di efficacia o rinnovamento sempre peraltro disattesi: esseresiste, cuoreinmano, cuoreingola, sguardosmalto, nolenza, afagia, ancestrata…ecc., non tralasciando la reiterazione semantica o, più spesso di un verso intero, quasi per dare l’idea del girare a vuoto.

Desiderio allora avanza in lui di sospendere la ricerca e di trovare requie in qualche modo, persino in una sbornia, senza mai tuttavia atteggiarsi a poeta maledetto alla Bukowsky. Oppure B. si accorge di aspirare proprio a quell’angolo fitto di nulla, pur di smettere l’inquietudine: vorrei che questo niente che tu dici /potesse durare una vita.

Resta ad aleggiare sul verso uno spleen perdurante, un disagio profondo alla constatazione che un niente continui altro niente, malinconia che si sposa col ritmo severo, quasi una nenia, della sua poesia. 

Nelle rime di Busellato, il percorso al dolore primevo, alle occhiaie cave della morte, attraversa spazi di bocche petrigne spalancate e cavi orbitali annottati, in un atteggiamento sbigottito perché l’esame della rotta perduta si conclude alla fine nell’impossibilità di modificarne la deriva.

Tutto l’accadere è in un liquido tempo che non si scandisce, dove il tedio e il disincanto del giorno prima sono identici a quelli di oggi, un contrappunto fra la nota esistenziale e quella naturale che ingloba piogge e creature animali, coinvolte nella medesima dissoluzione, nella opacità del giro universale dove ogni fase appartiene a tutte le fasi, così che ieri può essere contemporaneamente oggi e domani.

Anche la poesia incontra nel giudizio di B. una sorta di dissacrazione, soprattutto quella che si empie di retorica, scova parole a lettere maiuscole, che si scontrano sulle approssimazioni della storia. Così è negata non sola la funzione del poeta vate, chiamato a svelare l’arcano e a indicare la strada ai meno avvertiti, ma pure quella della poesia consolatoria, sebbene alla fine dell’anima in alcuni fiorisca l’imperativo categorico a provarci. Nel dilemma tra il voler dire e il dover dire, alla fine l’appello è al grido afono, al pallore della pagina, percorribile solo da coloro che sono in grado di non credere a ciò che scorrono coi propri occhi.

Nella deflagrazione della materia degli universali, avvertita dalla ragione, si salvano però le ragioni del cuore. Non si intende indulgenza alla poesia sentimentale, ma tragitti che, non in grado di salvare,  moderano l’angoscia e il pessimismo, come fossero puntelli a fare argine alla follia e al suicidio consequenziale.

E così, da una parte il ramingare della vita si dipana in mezzo all’arco naturale e scova in metafora nuvole e rondini e farfalle e gabbiani, da cui la riflessione del poeta sovente principia – piove…gocce rosse acentriche tante quanti i cigli della vita– mentre dall’altra parte del monologo resiste un tu, interlocutore-amante, e poi, su ogni cosa, troneggia un peccato che l’uomo commette volentieri ed è quello di sperare, ossia di porre attese nel domani che mentre lo si guarda finisce però già dietro le spalle.

Il referente non manca quasi mai, come talvolta in Montale. Un altro essere quindi è in attesa, in ascolto, pur nell’incompletezza del sentimento destinato a sbiadire, fermo a condividere e a curare per un istante la disperazione.

Si intravede persino un lampo nel quale B. sembra credere alla magia di appigliare la verità o di completare in perfezione un amore, ma, come tutte le cose che intercalano la creatura, esso istante-vero-amore si disfa e tutto è di nuovo assenza. L’indicibile ti prese in sposa.

Nel suo tentativo di intercettare la via della comprensione immerso nei fatti della natura, B. sembra rinnovare le medesime traversie di Zanzotto, la medesima rottura e incandescenza della materia linguistica, dalla quale, a suo dire, sempre la parola resta comunque mozza.
Il titolo della silloge, prestito parziale da una commedia di Shakespeare, indica a mio parere due cose: la tragicommedia umana e l’asserto che la morte –quel che finisce- costituisce l’unica verità e l’unica pace.

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