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Venezia 2022

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79a MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA

Venezia 2022 rappresenta un’edizione importante soprattutto perché si può definire ufficialmente quella del post-covid, con la riapertura totale dei posti in sala, l’eliminazione dell’obbligo delle mascherine (anche se fortemente raccomandate), il ritorno del pubblico e del red carpet con l’eliminazione dell’anacronistico muro fisico delle ultime due edizioni. Anche se il Festival nel 2020 e 2021 era riuscito coraggiosamente ad organizzare una kermesse di livello, indubbiamente la presenza della gente si è notata e la riapertura ha rappresentato un momento di liberazione a cui le persone hanno aderito in maniera massiccia, registrando presenze anche superiori, o comunque in linea, al periodo pre-covid.

Nella speranza di non rivivere quella follia, da un punto di vista organizzativo, quel paio di edizioni ci hanno comunque lasciato in eredità un sistema di prenotazioni alle proiezioni che se, ai più, è rimasto indigesto o addirittura catastrofico, fino a rimpiangere le classiche file fisiche alle sale, a mio parere ha ulteriormente alzato il livello da ritrovare in un Festival Internazionale. Ovviamente il sistema va calibrato, migliorato, ma concettualmente si sta percorrendo una strada corretta. Per me, ormai accreditato ventennale, che ha vissuto file chilometriche continue, nell’incertezza comunque di non riuscire ad accedere alle proiezioni, senza la possibilità di organizzarsi spazi anche semplicemente fisiologici, con la certezza, questa sì, di non riuscire ad entrare alla proiezione successiva nella stessa sala o ad una contemporanea di fatto deserta, per crearsi una programma alternativo, e poi magari trovarsi in sala persone che occupavano posti per amici che forse non sarebbero nemmeno riusciti ad entrare, con discussioni continue e fastidiose, ad aumentare lo stress di un’organizzazione già di per sé stressante, il miglioramento è indiscutibile e palese. Ovviamente, ad una manifestazione che vede la presenza di così tante persone, il collo di bottiglia delle file diventa quasi inevitabile. Però decisamente meglio affrontare file virtuali, in cui si può costruire un programma differente e riuscire ad organizzare una selezione comunque dignitosa, che non una fila reale dove si perde la possibilità di qualsiasi scappatoia alternativa. Che poi, ad un esaurimento virtuale dei posti in sala, non corrisponda nella realtà un esaurimento dei posti fisici, è una cosa che andrebbe verificata a livello organizzativo e di scelte di accesso di chi si occupa della gestione dell’evento. Comunque, tralasciando l’aspetto organizzativo ed andando ad analizzare i contenuti artistici, il Festival di quest’anno ci ha lasciato, al di là di una buona selezione, non eccelsa ma comunque in linea con le edizioni precedenti, soprattutto alcuni discutibili verdetti delle Giurie, poco mature rispetto alle opere selezionate. Il Leone d’Oro a “All The Beauty And The Bloodshed” di Laura Poitras (USA), a mio parere è l’esempio più eclatante. Unico documentario in Concorso Ufficiale, nelle annate precedenti sarebbe stato inserito solamente come un buon Fuori Concorso. L’impressione è che, a volte, le Giurie, così come avveniva con l’animazione giapponese, soprattutto all’epoca del direttore Marco Muller, non siano abbastanza esperte per valutare questo tipo di produzioni, ma abbiano un approccio quasi stupito da utenti al primo sguardo e quindi facilmente influenzabili, nel valutare lavori che, rapportati ad un cinema classico, possano rappresentare una novità, ma senza termini di paragone con le opere di pari genere. Per chiarirsi, le ultimi produzioni di Hayao Miyazaki, grande ed indiscusso Maestro giapponese dell’animazione, viste in concorso a Venezia nel 2008 o nel 2013, erano sicuramente inferiori alle sue opere migliori comunque già in concorso anche in altri Festival e l’approccio delle Giurie e della critica in generale era sembrato eccessivamente entusiastico. “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras, sulla vita della fotografa americana Nan Goldin, artista internazionale ed attivista nella sua lotta contro la famiglia Sackler proprietaria dell’azienda farmaceutica Purdue Pharma, responsabile dei decessi documentati da ossicodone di propria produzione, è un bel documentario, ma oggettivamente non rappresenta niente di nuovo, sia da un punto di vista artistico sia da un punto di vista dei contenuti, nel panorama cinematografico-documentaristico di questi anni. Sul canale televisivo Sky Arte, ad esempio, questo tipo di produzioni documentaristiche, altrettanto interessanti, si vedono in continuazione. Questo premio, così importante, non giustifica, a mio parere, una scelta così indirizzata, in un Concorso, che, anche se quest’anno non eccezionalmente rilevante, ha proposto diverse pellicole degne di nota e più meritevoli di un premio prestigioso come il Leone d’Oro. Non dico che siano state totalmente ignorate, ma nel concreto sono state insignite di premi “minori”, se vogliamo comunque rientrare nell’ottica di una competizione (altrimenti, se non ci interessa l’elemento “agonistico” del Concorso, va bene tutto…). Come ad esempio “The Banshees of Inisherin” di Martin McDonagh, per me il vero Leone d’Oro, che ci ha proposto una pellicola ambientata su una remota isola al largo della costa occidentale dell’Irlanda intorno all’anno 1920, dove gli echi lontani di una guerra civile arrivano smorzati e che comunque non scalfiscono le tradizioni ed i valori arcaici e secolari, anche spesso paradossali, di un’isola di per sé magica e misteriosa e di una maniera di vivere fondata su rapporti incomprensibili, al di là di una semplice logica lineare se analizzati al di fuori di quel contesto, e dove l’unica soluzione è forse allontanarsene (ma per trovarsi poi in un altrettanto contesto illogico di guerra civile….?). Martin McDonagh, con questo film, è un maestro nel farci vivere quell’atmosfera, quelle vicende magari sentite tante volte nelle storie popolari e nelle canzoni tradizionali irlandesi, regalandoci uno spaccato di personaggi incredibili. Il premio in questo senso a Colin Farrell, la Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Maschile non è casuale, come scontato è stato quello assegnato per la Migliore Interpretazione Femminile a Cate Blanchett per il film “TÁR” di Todd Field (USA), i due premi probabilmente più incontestabili della rassegna di quest’anno. A Martin McDonagh è andato anche il Premio come Migliore Sceneggiatura, che sa un po’ di beffa, dopo quello avuto nel 2017, proprio qui a Venezia, con “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”. Martin McDonagh, a fronte di almeno tre film da lui girati, a mio parere, di grandissimo livello, non è evidentemente un regista che riesce ancora a fare breccia ai più e a ricevere riconoscimenti degni dei suoi lavori. Per quanto riguarda gli altri premi, il Premio Speciale della Giuria a “Khers Nist (No Bears)” di Jafar Panahi (Iran) era previsto, non solo per la situazione carceraria che il regista sta vivendo in questo periodo in Iran, ed, in generale, per il divieto nel 2010, di lasciare il paese per 20 anni, ma soprattutto perché ci troviamo di fronte ad una pellicola estremamente importante, di ennesima denuncia verso un regime totalitario che non permette di esprimere, ai cineasti ed agli artisti iraniani, le contraddizioni e le ingiustizie sociali di un paese che per certi aspetti si vuole proporre come moderno. Non è un caso il proliferare di tante voci dissidenti e di protesta, di una cinematografia ricca in questo senso. Jafar Panahi, che vive da anni sulla propria pelle questa contraddizione, rappresenta solo la punta dell’iceberg di un movimento cinematografico che anche in questa edizione si è arricchita di ulteriori voci. Anche con l’altro film iraniano in concorso “Shab, Dakheli, Divar (Oltre il muro)” di Vahid Jalilvand, ignorato dalla Giuria, si è assistito ad un lavoro notevole e anche l’altra Sezione Ufficiale Orizzonti, ha visto premiare il film “Jang-e Jahani Sevom (World War III)” di Houman Seyedi (Iran) (Premio Orizzonti per il Miglior Film e Migliore Attore). Altra pellicola che ha trionfato nei riconoscimenti, Leone d’ArgentoGran Premio della Giuria, “Saint Omer” di Alice Diop (Francia), opera prima (premiata anche come Leone Del Futuro – Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”), storia drammatica di infanticidio che, sullo sfondo di una rappresentazione processuale, ci riporta una drammatica realtà di emarginazione che tocca aspetti sia di immigrazione che di condizione femminile e che si mischia con elementi arcaici e antropologici a cui la nostra società e mentalità occidentale, si trova impreparata ad affrontare con le nostre coordinate. Il film è stato particolarmente apprezzato dalla Giuria che gli ha assegnato i due premi. Di per sé decisione anche condivisibile, se non fosse che poi si sono ignorate opere altrettanto importanti che si sono viste nella selezione. Rimanendo nell’ambito francese, “Athena” film di Romain Gavras, è risultato essere un lavoro importante, forse uno dei migliori inizi di pellicola visti al Festival di quest’anno. Se anche la tematica delle banlieue parigine di per sé non è argomento nuovo nella cinematografia francese degli ultimi anni, la costruzione cinematografica con l’inserimento di spettacolari piani sequenza, vincenti da un lato ma paradossalmente anche penalizzanti per l’eccesso di utilizzo, ne ha reso un lavoro interessante, che forse avrebbe avuto senso riconoscere. Stesso discorso per il bel film argentino “Argentina, 1985” di Santiago Mitre, che pur nella sua semplicità stilistica, ci riporta un drammatico spaccato della recente storia argentina, quella della dittatura militare durante la presidenza di Jorge Rafael Videla, e del processo che ne seguì, qui rappresentato in tutta la sua drammaticità, ma capace anche di alternare momenti di leggerezza, creando un perfetto equilibrio narrativo.

In sintesi, questi sono stati i film più significativi del concorso di quest’anno, solo in parte riconosciuti anche dalla Giuria del Festival. Fra i più deludenti segnalerei “Blonde” di Andrew Dominik, biopic sulla vita di Marilyn Monroe, che dopo l’ “Elvis” di Baz Luhrmann, arrecava grandi aspettative, ma che è naufragato, come la storia della sua protagonista, in una spirale drammatica di eventi, capace solo di soffermarsi sulla drammaticità di un personaggio, sì tragico, ma che la mancanza del padre, gli amori sbagliati, e le gravidanze interrotte, non ne giustificano la rappresentazione vista sullo schermo, di un mito americano riassunto come caso clinico di depressione acuta. Stesso discorso vale per “The Whale” di Darren Aronofsky, dove, una buona idea iniziale e la rappresentazione sullo schermo di un personaggio dallo sviluppo parallelo al Moby Dick di Herman Melville, in un’ambientazione fisica dettata dal protagonista, inevitabilmente di tipo teatrale e dove i dialoghi diventano fondamentali, naufraga in una serie di conversazioni inconsistenti e la storia ci porta ad una banale deriva di storie familiari scontate e poco originali. Altro film irritante è stato “The Son” di Florian Zeller, costruzione narrativa estremamente lacunosa, in cui la rappresentazione di certe situazioni al di fuori del contesto cinematografico, sarebbe stata irrealistica e dove il messaggio educativo di fondo viene ad essere esattamente il contrario di quello che probabilmente si voleva rappresentare, riassumibile in “padri peggiori e assenti = figli forti e vincenti”, “amore familiare = figli fragili ed indifesi”.

Concludendo, come al solito, con il cinema italiano, il Concorso Ufficiale proponeva cinque pellicole, di fatto tre “italiane”, “Il Signore delle Formiche” di Gianni Amelio, “L’Immensità” di Emanuele Crialese, “Chiara” di Susanna Nicchiarelli e due “americane”, “Monica” di Andrea Pallaoro, “Bones and All” di Luca Guadagnino, quest’ultimo vincitore del Leone d’Argento per la Migliore Regia e Premio Marcello Mastroianni all’attrice emergente Taylor Russell.

È consuetudine negli ultimi anni, la proposta di un cinema italiano non legato necessariamente al contesto nazionale (ma in fondo gli spaghetti western cosa facevano…?), proiettato verso storie e situazioni globali senza frontiere territoriali e culturali, in cui inserire le proprie esperienze ed i propri interessi. Scelte che, alla fine, diventano positive e vincenti, lo dimostrano i due premi vinti da Guadagnino, e sembrano, anche da un punto di vista cinematografico, produrre risultati migliori perché svincolati da una contraddittoria realtà nazionale spesso anche fastidiosa da rappresentare. Svincolarsi da limiti territoriali e culturali, dà la possibilità anche di ricollocare “mostri” (cit. Guadagnino alle premiazioni) in una rappresentazione della diversità in termini più razionali e senza pregiudizi spesso estremisti. Ne è una dimostrazione anche il film “Monica” di Andrea Pallaoro, il cui difetto principale è in realtà nella costruzione narrativa troppo incentrata a volere rappresentare il mistero del personaggio protagonista, come se il film avesse un senso in questo tipo di sviluppo, ma trovandoci di fronte in realtà ad un non mistero la cui chiave appariva palese sin dalle prime scene. Riportare argomenti di un certo tipo in ambito nazionale, vedasi i film di Amelio e di Crialese, produce una serie di stucchevoli polemiche politiche che vanno al di là del valore intrinseco della pellicola e di cui si perde il razionale giudizio sul valore artistico e rappresentativo, sia in senso negativo che in senso positivo. Se parliamo di riconoscimenti, la strada percorsa da registi come Guadagnino hanno un impatto più rilevante. Eccezion fatta quando ci troviamo di fronte al mistero per cui un film italiano come “Vera” possa vincere il Premio Orizzonti per la Migliore Regia, a Tizza Covi e Rainer Frimmel, ed il Premio Orizzonti per la Migliore Attrice, a Vera Gemma. Al di là della facile connessione figlia – padre Giuliano, premiare un’attrice perché intrepreta sé stessa nel proprio sbarellamento quotidiano ed un film costruito come un documentario in un contesto romanocentrico, cosa che faceva Garrone vent’anni fa prima di diventare famoso e che si vedeva proprio qui al Festival, senza ricevere particolari riconoscimenti, lascia perlomeno basiti. Ma finché, all’interno di un ristorante a Venezia sento un bambino di quattro anni al massimo, mentre gioca al tavolo, uscirsene con la frase “… al cuore Ramon, al cuore…”, direi che tutto potrà andare bene.

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