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Trade deal Usa-Cina: conclusa la fase 1, guerra sospesa almeno per ora

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«Se due persone sono d’accordo su tutto, puoi star certo che è uno solo di loro che fa andare il cervello»

(Lyndon Baines Johnson, 36º presidente degli Stati Uniti d’America)

Lo scorso 15 gennaio, a Washington, Stati Uniti e Cina hanno almeno temporaneamente arrestato la loro guerra commerciale grazie alla firma apposta dal vice primo ministro cinese Liu He e dal presidente Usa Donald Trump all’accordo che apre la fase 1 di distensione delle reciproche relazioni.

Un documento all’apparenza semplice e lineare che comporta numerosi impegni in particolare per la Cina e conseguenze sul commercio globale ma la cui reale portata si potrà verificare solo alla luce della condotta delle parti e la successiva fase 2.

Vediamo di esaminarne i contenuti e la portata.

La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti

Era il marzo del 2018 quando gli Stati Uniti comunicarono al mondo l’imposizione di pesanti dazi commerciali ai prodotti provenienti dalla Cina, in primis acciaio e alluminio, quale ritorsione a quella che l’amministrazione Trump aveva definito una vera e propria “aggressione economica” da parte di Pechino.

La Cina era (e continua ad essere) il maggior partner commerciale di Washington ma il provvedimento della Casa Bianca mirava a colpire con un dazio di circa il 25% oltre 1.300 differenti merci, per un valore di 60 miliardi di dollari.

Dal canto suo, Pechino rispose redigendo una prima lista di 128 prodotti americani ai quali applicare maggiori aliquote per un totale di 3 miliardi di dollari e sino a quando non si fosse trovato un accordo condiviso.

I rapporti tra i due giganti dell’economia si sono susseguiti con continue scaramucce fino allo scorso dicembre: minacce di nuovi dazi, sospensione degli stessi, inserimento di alcuni beni tra i prodotti colpiti, esclusione di altri.

A dicembre dell’anno scorso, l’annuncio del raggiungimento di un accordo quadro tra le due delegazioni per un cammino di normalizzazione dei rapporti commerciali che si svilupperà in almeno due fasi e che avrà come obiettivo garantire l’interscambio sino-statunitense nel rispetto delle regole del libero mercato.

Il 15 gennaio di quest’anno, dunque, si è giunti alla firma dell’agognato accordo.

I contenuti dell’accordo concluso

Il documento[1] firmato a Washington, conosciuto dalla stampa come Trade deal ma il cui titolo ufficiale è «Economic and Trade Agreement between the Government of the United States of America and the Government of the People’s Republic of China» (Accordo Economico e di Commercio tra il Governo degli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare di Cina), consta di 96 pagine suddivise in 8 capitoli.

Prima di procedere all’esame degli specifici contenuti, però, una preliminare osservazione di forma relativa a chi ha materialmente sottoscritto l’accordo: il presidente Trump per gli Stati Uniti, il vice primo ministro Liu He per la Cina. Cariche diverse ad intra, peso politico diverso ad extra, protagonismo molto diverso ricercato sulla scena mediatica globale. Un aspetto da molti trascurato ma da tenere presente per la soft diplomacy mediatica che si è accesa intorno all’evento.

Il capitolo 1 dell’accordo si occupa di proprietà intellettuale e obbliga Pechino a creare e rispettare un impianto tecnico normativo finalizzato alla tutela di marchi, brevetti, indicazioni geografiche dei prodotti, informazioni riservate, tutti temi sui quali la Cina si è spesso distinta per leggerezze nell’effettiva protezione.

Il capitolo 2, invece, è dedicato ai trasferimenti tecnologici che le autorità cinesi prevedono obbligatori per l’approvazione di qualunque progetto di investimento straniero. Con l’entrata in vigore dell’accordo il governo cinese porrà fine a tale vincolo.

Il successivo capitolo 3 regola il delicato tema dei prodotti alimentari e agricoli obbligando le parti ad aprire i propri mercati e collaborare per garantire una maggiore sicurezza.

Non meno delicata è la materia del capitolo 4 relativo ai prodotti finanziari per i quali Pechino consentirà agli operatori statunitensi di lavorare sul mercato cinese offrendo anche i propri sistemi di pagamento elettronico.

Il capitolo 5 indica le linee guida relative alla trasparenza per i tassi di cambio e le reciproche politiche macroeconomiche obbligando le parti a evitare svalutazioni competitive e manipolazioni dei cambi, nonché di condividere in maniera veridica le informazioni sulla disponibilità di riserve di valuta straniera, le bilance dei pagamenti e i periodici dati su import-export.

Il capitolo 6, rubricato «Espansione del commercio», è la parte più dettagliata dell’accordo e indica nello specifico come dovrà suddividersi l’incremento di 200 miliardi di dollari nel periodo 2020/2021 (rispetto alla base del 2017) nell’acquisto di beni americani da parte di Pechino. La lista è molto precisa sia per tipologia di prodotti secondo la classificazione internazionale che per valori delle importazioni cinesi dagli Stati Uniti: 77,7 miliardi nel settore manifatturiero, 52,4 in prodotti energetici, 37,9 in servizi e 32 in prodotti dell’agroindustria.

Al capitolo 7 le parti descrivono il sistema di valutazione bilaterale e risoluzione delle controversie: il quadro per monitorare i progressi nell’attuazione dell’accordo e risolvere le eventuali controversie che dovessero eventualmente insorgere.

In conclusione, il capitolo 8 riporta le usuali disposizioni finali.

Le conseguenze nei mercati globali

Numerose sono state le analisi pubblicate circa le ricadute del Trade deal sugli equilibri economici e politici di Cina e Usa in particolare, e degli altri attori del panorama internazionale: alcuni effetti sono già stati registrati, altri sono solo prevedibili, altri forse solo ipotizzabili.

Iniziamo con Pechino: a molti è sembrata la parte debole della trattativa, quella che ha subito e accettato tutte le condizioni imposte dai negoziatori di Washington ma così non è. Con la firma dell’accordo la Cina si riconferma il partner commerciale più importante degli Stati Uniti, quello che può influire sensibilmente sulle variazioni del suo pil e sugli equilibri sociali e dunque politici interni. La fase 1 si apre con uno stop al rialzo dei reciproci dazi e, a conti fatti, rappresenta una vittoria del sistema di capitalismo statalista cinese sul classico libero mercato made in Usa.

Al contempo, la Cina si assicura un fornitore di qualità per due anni e una moneta di scambio per trattare su un piano favorito con altri fornitori alternativi che potrebbero subentrare in seguito (Unione Europea per i servizi, Africa per l’agroindustria, Asia per i beni manifatturieri).

La priorità per Pechino è ovviamente sempre la salvaguardia dei superiori interessi nazionali e la scelta di vincolarsi con questo accordo lo conferma appieno. Inoltre, l’orizzonte della fase 1 è di soli due anni mentre la prospettiva delle strategie cinesi si sviluppa su archi di tempo ben più ampli (20, 50 anni), tipici delle millenarie culture orientali.

Dall’altra parte, gli Stati Uniti hanno una visione tipicamente occidentale inquinata dalla miopia degli interessi di brevissimo periodo: la prossima campagna elettorale o, ancor prima, l’esame dell’impeachment del presidente Trump alla Camera. Il perfezionamento dell’accordo con la Cina mostra il presidente vittorioso su tutta la linea e lo presenta paladino dei settori produttivi che fanno grande l’America (manifattura, agricoltura) e costituiscono importanti bacini di voti.

I 200 miliardi di dollari di aumento delle esportazioni per il biennio 2020/2021 rappresentano una indubbia boccata d’ossigeno per l’economia statunitense che, a causa dei minacciati dazi reciproci sino-statunitensi, rischiava di perdere circa un punto percentuale di prodotto interno.

Terzo importante polo è l’Unione Europea e, in ordine sparso, i suoi membri: terra di conquista per il colosso cinese, partner e concorrente per l’americano.

Le tensioni commerciali degli scorsi anni tra Cina e Stati Uniti avevano in parte consentito ai paesi europei di sostituirsi quali fornitori ad entrambi, e in particolare a Pechino. Ora a risentirne saranno sicuramente i settori dei beni industriali e dell’agricoltura.

Un giovamento, invece, si potrà avere dall’impegno cinese ad attuare politiche effettive a tutela della proprietà intellettuale (campo di continue controversie con l’Unione Europea per violazione di brevetti e plagio di prodotti tipici), a svincolare gli investimenti dai trasferimenti tecnologici e ad aprire parzialmente il mercato cinese ai servizi finanziari (si pensi a un potenziale di 1.200 milioni di nuovi utenti di carte di credito).

Sicuramente, però, la riapertura del canale preferenziale con la Cina impatterà sulle vendite europee verso gli Stati Uniti e ciò avrà ripercussione sui rapporti transatlantici.

Merita un appunto speciale la regione dell’America latina e dei Caraibi dove ogni scelta dei grandi ha immediate conseguenze: la firma dell’accordo ha causato una sensibile inflessione sul prezzo di molti prodotti agricoli (in particolare la soia), di cui Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay sono importanti produttori.

Per quanto riguarda il Sud-Est asiatico, invece, si prevede una importante riduzione degli ordini industriali da parte di entrambi.

In chiusura merita segnalare la capacità tipica della cultura cinese di saper sfruttare a proprio beneficio anche la situazione apparentemente più avversa e di adeguarvisi in tempi rapidi riuscendo così a disorientare l’interlocutore: è probabile, quindi, che anche in questa occasione la Cina saprà cogliere tutti i benefici del nuovo scenario prima ancora che gli Stati Uniti abbiano iniziato a godere della presunta posizione privilegiata.

1. Cfr. il testo ufficiale in versione integrale del documento in https://ustr.gov/sites/default/files/files/agreements/phase%20one%20agreement/Economic_And_Trade_Agreement_Between_The_United_States_And_China_Text.pdf .

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