KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

La terra della mia anima – Massimo Carlotto

7 min read

 

Gli anni Novanta: “Un paese in guerra è il paradiso dei trafficanti e dei corrotti. […] Nei locali girava una quantità impressionante di cocaina […] Sembrava quasi che il governo italiano chiudesse un occhio per favorire i croati.”

Gli anni Ottanta: “E’ la merce che la gente non compra al mercato perché ha paura che sia contaminata dal cesio di Černobil’ […] la prima ondata di aids, quella che ha spazzato via una generazione inconsapevole. […] Le valigette coi soldi si erano sempre portate in Svizzera, ma […] Ma a quei tempi sequestrare persone facoltose era una vera industria.”

Gli anni Settanta: “Oggi giorno tutti sanno cos’è l’omertà ma io, allora, ero solo un contrabbandiere arrivato in Sicilia direttamente dalle cime delle montagne. […] Era ammessa soltanto la disperazione delle donne. […] I carabinieri osservavano da lontano la scena.”

Gli anni Sessanta: “le bombe del ‘69, […] Natta accusò di frazionismo i compagni della rivista il Manifesto. […] Il tuo partito ancora non capisce che il mondo è in rivolta. Anche contro i partiti. […] il ’64 fu un anno pieno di avvenimenti che mi allontanarono spesso dal confine: gli americani erano sbarcati a Panama e avevano iniziato a bombardare il Vietnam del Nord. […] Nell’ottobre del ’60 mandò in malora un trasporto di sigarette per scendere in paese a guardare la prima puntata di Tribuna politica nell’unico bar che possedeva una televisione.”

Gli anni Cinquanta: “Le multinazionali obbligavano a prendere quello che in gergo veniva chiamato “l’otto per due”. Ottocento pacchetti di marche miste, dalle Gauloises alle Peter Stuyvesant, cento di Muratti e cento di Marlboro. […] Si erano trasferiti a Milano quando i fascisti avevano già preso il potere e lei era stata costretta a odiarli in silenzio. […] Una volta liberata Milano si era iscritta al partito. La sera andava sempre in sezione e la domenica mattina usciva di casa con i figli a vendere per strada l’Unità.

 

A ritroso ecco le tappe di una storia che è la Storia di un’Italia vissuta dal protagonista dell’ultimo romanzo di Massimo Carlotto: “La terra della mia anima“. Vicende personali, politica, economia cultura e società si avvicendano in una narrazione semplice e lineare, interrotta di tanto in tanto da paragrafi intimistici dove la voce del protagonista ci riconduce ai suoi pensieri di adesso, i suoi pensieri nel suo oggi. Lo scrittore è rinomato per essere sempre stato un autore impegnato e anche questa volta non si smentisce, cambia però il suo genere: da romanzo giallo al romanzo di avventura. La sua abilità di ‘maestro di nodi’ ha lasciato spazio alla narrazione. Le motivazioni sono evidenti.

 

Carlotto anche in precedenza ha dato prova di essere scrittore versatile e la sua ultima sfida come drammaturgo con: “Niente, più niente al mondo” (ed. e/o € 7.00) è stata una conferma di uno scrittore sensibile alle problematiche dell’oggi e, non per ultimo, capace di emozionare strappando inizialmente un sorriso per poi mostrare la parte tragica di un’esistenza nel momento di climax emotivo del monologo. Un autentico quadretto-spaccato di vita costruito sulla scena, consapevole della lezione brechtiana (corrispettiva però all’ultimo Brecht in Madre coraggio, considerato da alcuni critici il fallimento del teatro epico, perché troppo sentimentale) e la lezione dell’ultimo teatro e narrazione (degl’anni Novanta: un attore, una sedia e la narrazione, molto spesso impegnata a livello socio-culturale e/o storico-politico; per semplificare in modo estremo).                 

 

 Ma qual è la motivazione d’essere di questo cambiamento di registro? Carlotto sembra proprio dircelo nel prologo; ecco che il discorso si fa metaletterario: lo scrittore parla della scrittura, di quel fenomeno sorprendente che lega la carta alla vita e la vita alla carta: “il carissimo amico che avevo trasformato in uno dei protagonisti della serie dell’Alligatore, somigliava davvero a quello di carta, e nella mia testa cominciò a prendere forma il progetto”. Come una suggestione pirandelliana. Beniamino va dal suo amico scrittore e gli chiede di scrivere la storia della sua vita. Inizialmente l’autore è incerto ma quando ascolta le vicende appassionate e si rende conto che il personaggio di Beniamino stava prendendo vita dentro di lui inizia a scrivere. Ma perché Beniamino chiede all’amico di scrivere della sua vita? Beniamino ha il cancro. Una vita a scadenza. E allora arriva il momento dell’8 e ½, quando ci si volta indietro per fare i conti. Ed ecco che prendono vita i racconti di forti emozioni e sentimenti, passioni che si sono perse di vista, come quella per il partito quando negli anni ’60-’70 Beniamino aveva intorno ai venticinque – trenta anni, e il debito che aveva nei confronti di una certa cultura di quegl’anni ora diventa una cosa importante, un conto vero da saldare. Come? Ricordando. Il valore della memoria in questo libro è certamente uno dei fili conduttori dell’intero testo. Grazie a Beniamino si può leggere dei valori che tenevano uniti la gente nel dopoguerra, valori che ognuno prendeva a suo modo, ma veri e importanti, valori laici eppure così cattolici, comunque liberi da dogmi e ipocrisie. Al di là della miticizzazione di quegli anni, che ha favorito buoni spunti al mercato di vari settori, anche editoriale, qui non si parla di mito, ma di una realtà: quella dei cosiddetti spalloni, coloro che portavano le merci del contrabbando al di là del confine. Si prende dunque in considerazione una realtà limite tra illegalità e legalità, una situazione che inizialmente nella zona di confine lombardo era in qualche modo accettata. La terra della mia anima è all’inizio del libro proprio il confine lombardo, quel paesaggio montano fatto di sentieri che costeggiano torrenti, alberi, funghi e fiori: “La montagna mi era entrata nel sangue.” Poi c’è il mare e bellissima è la scena descritta in cui Beniamino per la prima volta lo vede: “Mi tolsi scarpe e calze, arrotolai i pantaloni ed entrai in acqua fino le caviglie. Alcuni bambini risero di gusto quando mi videro allungare la mano, accarezzare la superficie del mare e poi leccarmi le dita.” E così il protagonista decide di dedicarsi al contrabbando di mare, mentre gli anni cambiavano e in una situazione molto diversa da quella del confine in montagna. I temi dell’amicizia e l’educazione e la creatività lasciano allora posto ad argomentazioni quali la violenza e l’inganno fino ad arrivare a parlare di galera: la negazione della sessualità come ferita più difficile da rimarginare; degli uomini finiti, “relitti alla deriva nell’universo penitenziario” e dei devastati mentali “che quando escono dal carcere finiscono per strada a chiedere l’elemosina”; per arrivare infine alla considerazione più allarmante che è quella dello stesso scrittore che rispondendo alla domanda di Beniamino: “Cosa siamo diventati?” risponde: “Dei mutanti. Ma non dobbiamo farci scoprire altrimenti ci abbattono.” dopo che entrambi avevano vissuto un periodo carcerario insieme. Il carcere uccide la musica no. Era uno slogan…da riflettere.      

 

Si delinea una poetica che mira a indagare l’irregolare, contrapponendolo ad un regolare spesso malato, finto, ‘morto’. Gli irregolari sono persone vive, in questo caso Beniamino sempre in cerca di cose emozionanti o di un amore sincero, di amicizia ma precedentemente in Le irregolari, sempre pubblicato da edizioni e/o, si tratta di donne che protestano in Sudamerica ogni giovedì la perdita dei loro desaparacidos. Ecco che irregolare prende tanti e allo stesso tempo un significato.  

 

La vita a volte sembra creare cerchi, cerchi che si aprono e cerchi che si chiudono. La letteratura quando è strettamente legata alle vicende personali dell’autore rispecchia la sua vita creando così un gioco di intrecci e cerchi spesso più grande di quello che il lettore fruisce. In questo caso condividiamo con Massimo Carlotto la scomparsa di uomo: Beniamino Rossini. L’opera infatti è un memento alla sua vita, la vita di un contrabbandiere, ma prima di tutto di un uomo che è nato con dei valori semplici eppure difficili, un uomo a cui lo scrittore dona la vita eterna di cui parla Shakespeare in Shall I compare thee, una poesia che conclude così: “So long as men can breathe or eyes can see, / So long lives this, and this gives life to thee.” Ovvero: “Fino a quando gli uomini potranno respirare o gli occhi potranno vedere / fino a quando questo vivrà, questo darà vita a te.”

Il gesto umano di una penna che scrive col cuore scrutando al di là della morte.

 

Considerazioni successive sulla forma.

L’andamento emozionale di un racconto o romanzo, molto spesso è una parabola ascendente che trova il suo apice verso la fine del testo; in questo caso il vertice sta nel prologo, addirittura nella prima pagina del libro, quando dopo una decina di righe di narrazione lineare, descrittiva e leggera, la scrittura si fa spigolosa in un dialogo secco che a livello contenutistico ribalta la leggerezza di prima con l’annuncio della grave malattia: ecco il vertice della parabola, da qui la parabola scende lentamente richiamando la nostra attenzione altre volte ma in modi diversi. Carlotto anche in Nordest ci aveva regalato un passaggio simile (pag. 165-166) con un forte impatto emotivo.

È un discorso per semplificazione questo perché, oltre ad essere soggettiva l’emozione che si prova leggendo un testo, è anche vero che uno scritto spesso è costituito da un andamento a più parabole, un po’ come una melodia, ma l’apice solitamente è sempre uno.

Commenta