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La Casa del Diavolo

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La love generation per Rob Zombie non è mai esistita. O forse, il regista, sulle orme di Charles Manson, ne ribalta il senso e la trasforma in un lungo viaggio verso il nulla. Cosa, che poi, in un modo o nell’altro, forse effettivamente fu (si pensi anche al finale di Easy Rider). Proprio perché degli ideali di quella generazione non è rimasto nulla. Se non uno stereotipato ricordo, la pornografia e la dipendenza dalle droghe. Proprio perché il consumismo riuscì (come sempre) a trasformare i movimenti di ribellione in semplici scosse di assestamento del sistema stesso. Passata la paura che qualcosa potesse cambiare, tutto tornò come prima. Il pacifismo è ancora una forma di opposizione, il libero amore e la rivoluzione sessuale si sono trasformati nel mercato del porno, l’erba e l’acido sono stati sostituiti da sostanze ben più redditizie e dannose (eroina, coca e pasticche). Il Capitale, alla fine, ha avuto ragione di ogni cosa.

I freak di Rob Zombie, a prima vista degli hippy doc, sono invece creature grottesche e violente, ben consapevoli del male che portano dentro. Nella loro casa isolata, i componenti della famiglia Firefly, passano il loro tempo compiendo le efferatezze più estreme. Torture, teste mozzate, amputazioni. Un sadismo apparentemente folle li spinge verso i comportamenti più abietti dell’animo umano.

Rob Zombie non giustifica le azioni dei suoi personaggi ma le inserisce in un ordine morale opposto al nostro. Dunque i personaggi non sono solamente dei folli, sono persone che hanno compiuto una scelta. Quella di perseguire il male e di porlo come punto focale del loro sistema di valori.

Capovolgendo il punto di vista tutto va centrato in una nuova ottica.

Ed è in questo modo che Baby, Otis e il loro padre, Capitain Spaulding diventano i veri eroi del film. Perché gli unici a seguire veramente fino in fondo quello che è il loro destino. Ed è in questo viaggio verso la fine (inevitabile) che scopriamo l’epicità di quanto stiamo osservando. I veri eroi non rinnegano quanto hanno fatto, non hanno paura della morte, non tradiscono i loro compagni. Ed in questo la morale rovesciata della famiglia Fairfly diventa ancora più forte. Perché nel momento in cui i tre si ritrovano a subire le torture che per anni hanno inflitto ad altri esseri umani, non si pentono di nulla. Affrontano quella violenza e quel sadismo senza paura, senza timore. Quello che sembra diventare una sorta di giudizio divino (nella figura dello sceriffo) e una vendetta di chi si crede nel giusto (in quanto rappresentante della Legge) non è altro che la rappresentazione di un fanatismo ancor peggiore delle violenze commesse dai Fairfly. Che compiono le loro atrocità nel nome di nessun dio, semplicemente seguendo la propria natura. Per questo le punizioni che gli verranno inflitte non avranno nessun valore. Perché figlie di una giustizia che non ha niente a che vedere con i tre. Una giustizia che anzi serve solo a mettere in risalto i legami (questa volta indubbiamente umani) che esistono fra i personaggi. Che si preoccupano non tanto del dolore che possono provare, ma di quello che potrebbe essere inflitto agli altri membri della famiglia.

Zombie rovesciando completamente l’idea stessa di moralità ci consegna un film che mette in discussione qualsiasi giudizio etico. Perché è indubbia la trasformazione dei suoi personaggi in eroi, come è indubbia l’impossibilità di qualsiasi forma di giustificazione delle loro azioni. E in questo crollano tutti i codici filmici e tutte le forme di immedesimazione. Lo spettatore rimane impotente e l’unica cosa che gli è possibile è di seguire la storia e di godersela (per quanto tutto il sangue e l’orrore lo permettano). Perché oltre alle continue violenze (che sono maschere di qualcosa di più profondo) bisogna ammettere che il film è bellissimo. Pieno di citazioni cinematografiche (dai Fratelli Marx a Shining, da Tarantino&Rodriguez a Sam Peckinpah), accompagnato da una delle colonne sonore più emozionanti degli ultimi anni, costellato di invenzioni visive e narrative intelligenti e mai banali e in più sorretto da un montaggio che non vuole mai essere invisibile ma dimostrazione ancora più evidente delle grandi capacità di questo regista.

Senza dimenticare poi un’ironia sempre in bilico tra il ribrezzo e la risata di pancia (formidabile il discorso su come scoparsi un pollo dopo avergli tagliato la testa) e un ritmo narrativo che insieme alla musica crea ad un livello filmico quell’epicità di cui stavamo parlando prima.

E l’incontro con la morte, ultima tappa del viaggio dei tre, è un ultimo e selvaggio grido di libertà. E nel momento in cui la macchina si lancia contro i poliziotti noi non vediamo più tre bruti assassini ma tre individui che seguono fino alla fine le scelte fatte durante la loro esistenza. E quello che rimane, oltre alla morte, è forse l’amore. Un amore impossibile da descrivere o da poter capire, ma che prende forma in una maniera purissima nelle ultime immagini di Otis, Baby e del loro padre. Immagini dove non c’è traccia di nessun orrore, ma solo di quello che unisce le persone e che tante volte non siamo in grado di capire.

Poi è di nuovo solo la strada. E la musica.

Come in Easy Rider. E se nel film di Hopper era il rinnegare alcuni dei valori americani dell’epoca a sancire la morte di Wyatt e Billy, qui è la negazione totale della morale a portare all’inevitabile conclusione del viaggio dei tre.

E alla fine tutto quello che credevamo solo un atroce incubo si trasforma nella consapevolezza di quanto siano ridicoli i nostri concetti di eroismo e moralità.

Perché è solo all’apice dell’abbrutimento umano che possiamo renderci conto di chi abbia avuto veramente il coraggio di seguire la propria natura.

Per scoprire quell’orrore e quella malvagità (che sappiamo nascondere ormai così bene, se non più con la morale almeno con le apparenze esteriori) di cui in realtà siamo fatti.

Quel male indelebile che fa parte del nostro stesso essere.

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