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Dissipatio Humani Generis – Guido Morselli

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LETTERATURA PURA.
 
INTRODUZIONE
 
La triste parabola dell’atipico Guido Morselli, scrittore di estrazione borghese e granitica vocazione letteraria, si è conclusa nel 1973; rimasto pressoché inedito sino alla fine dei suoi giorni, ha conosciuto da spettro una progressiva affermazione italiana ed europea. Era uno scrittore scomodo. Era un talento distante dall’accademia, distante dai circoli culturali, dal gotha delle avanguardie. Aveva uno stile estraneo alla contemporaneità: era un estroso autodidatta, dalle disordinate e controverse letture.
 
Un raro sincretismo culturale, dunque, che fondeva conoscenza, passione, stile, controllo perfetto del codice espressivo giornalistico e letterario. Morselli scriveva romanzi sconvolgenti e inconsueti. Pare che la sua vocazione fosse sconosciuta addirittura ai familiari più stretti; si era ritirato, giovanissimo, in un piccolo appezzamento terriero, nei pressi di Varese, dove, grazie alla modesta rendita garantita dalla sua attività di agricoltore, si era dedicato integralmente alla sua passione: la letteratura. Nonostante la laurea in legge, mai approdò ad alcuna professione in ambito giuridico.
Impegno politico, ricerca spirituale, analisi sociale: accurata caratterizzazione dei personaggi, divina padronanza della lingua, impressionante scavo interiore, questi i tratti distintivi della sua opera.
 
Quando propose, in una delle tante lettere spedite da comune cittadino, da “dilettante”, come amava definirsi, un’impostazione rivoluzionaria per i quotidiani e per le riviste, perché finalmente fossero espressione democratica del popolo, toccò tra gli altri a un personaggio del calibro di Umberto Eco, odierno monumento letterario nazionale, stroncarne l’innovativa energia e le oniriche velleità di trasformazione della cultura del nostro paese. Tuttavia, almeno in ambito giornalistico, qualche sporadica collaborazione il nostro riuscì a strapparla. Invano. Della sua vocazione ecologista e animalista ante litteram, dell’incredibile prosa visionaria del romanzo “Dissipatio Humani Generis”, del suo sofferto e dongiovannesco rapporto con il sesso femminile, derivato dalla perdita della madre in giovanissima età, conosceremo essenza ed esiti solo dopo il suo suicidio, per mano di quella “ragazza dall’occhio nero”, la Browning 7 e 65, preannunciata nel suo ultimo romanzo completo.
 
Rimangono, tra i testi ancora inediti, romanzi abbozzati come “Uonna”, di prossima pubblicazione per i tipi di Adelphi; nell’archivio Corti di Pavia, è possibile esaminarne il manoscritto. Pur di non consumare la carta, Morselli aveva scritto i capitoli di “Uonna” sul fronte e sul retro di un vecchio calendario. Impressionano, nell’archivio pavese, le condizioni dei testi del Morselli; trascurati e abbandonati dai famigliari, sono stati a tratti irrimediabilmente usurati dal tempo. L’edizione critica delle sue opere, in due volumi, è proprio in questo periodo in libreria; difficile privarsene, considerando e l’arte del nostro, e la faticosa cura filologica di Elena Borsa e Sara D’Arienzo, davvero impagabili per questa dedizione allo scrittore bolognese. Un plauso alla casa editrice regina del nostro altrimenti povero panorama letterario, la Adelphi di Milano, che sta permettendo al grande pubblico di accostarsi a questo talento unico.
 
IL LIBRO
Presento un romanzo che ritengo l’acme dell’arte di Guido Morselli: “Dissipatio Humani Generis”, terminato pochi mesi prima della prematura morte dell’autore.
 
Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’”.
Questo il folgorante incipit. Il romanzo è breve, intenso, disperato; una desolante contemplazione dell’umanità, della caducità dell’esistenza, un ininterrotto dialogo con l’idea del suicidio.
 
Il protagonista del testo, l’unico scopertamente autobiografico del Morselli, viaggia al termine della sua notte: sin dalle prime battute, si ha la sensazione di assistere ad un naufragio spirituale che lacera, dilania, paralizza; il nostro non sembra avere memoria di quanto gli è avvenuto. Progressivamente, quasi sotto l’effetto di una cupa e devastante ipnosi, ricorda di aver deciso di uccidersi poche ore prima di compiere quaranta anni (il pensiero torna al “
Racconto segreto” di Drieu La Rochelle); di avere improvvisamente cambiato idea, e – al suo ritorno a casa – di non aver trovato più neppure l’ombra di vita umana. L’umanità si è dissolta. Svanita. Tutto è deserto; gli uomini, come in un vecchio testo di Giambico, sono evaporati, si sono come nebulizzati.
(Congetturo: influenza de “La nube purpurea” di Shiel?)
 
Vane sono le ricerche: l’alter ego del Morselli vaga tra redazioni e abitazioni e caserme e aeroporti, scoprendo con malcelato piacere che la natura sta riconquistando il suo primato. E allora analizza, spietato e visionario, la sua condizione di essere umano, di potenziale nuovo Deucalione, di individuo forzato a quell’estraneità dalla comunità che prima sempre aveva lottato per conquistare; estraneità che si è resa misteriosamente unicità. L’alterità è svanita, l’unico soggetto possibile è l’Io. Via libera dunque allo sgretolarsi dei superbi palazzi, e all’oblio dei sentimenti e delle sensazioni: la natura trionfa, l’uomo scompare.
 
E questo unico derelitto osservatore dell’esito del millenario conflitto tra uomo e natura si gode la decadenza del sistema. Sistema che chiaramente è rappresentazione dell’Io: quell’Io che ha cessato di esistere in realtà, perché il nostro ricorda di essersi effettivamente suicidato. La “ragazza dall’occhio nero”, la Browning, appare per la prima volta nella memoria del protagonista dopo aver appurato che gli orologi, nel suo mondo, sono fermi alle due in punto: l’ora del suo incidente. “La soluzione finale, liscia e pulita, facile, l’avevo a portata di mano. Sono andato a prenderla, la mia ragazza dall’occhio nero, mi sono ridisteso sul letto con lei. Ho premuto la bocca sulla sua, a lungo. L’ho sollecitata col dito, una prima volta. Non abbastanza a fondo. E una seconda volta, sempre con la bocca sulla sua. Non la terza, perché d’un tratto l’ombra mi ha avvolto. E la quiete”.
Più avanti: “Quella notte (mi dico), tornando dalla grotta del Sifone; la ragazza dall’occhio nero, la browning 7 e 65, l’avevo vicina, quando mi sono coricato. E so che poi ho premuto il grilletto. È un’arma che non s’incanta.
         L’ho puntata bene?
         Me la sono puntata alla bocca. E la mattina c’era una chiazza di sangue, sul cuscino.
         Ma i morti non vedono se stessi, il loro stesso sangue che hanno versato.
         Chi lo garantisce, che i morti non si vedano?
(…)Pretesti. Per fingermi sopravvissuto. Pretendevo di essere un’eccezione. E invece, la notte del due giugno è stata l’ultima anche per me. Il resto, il ‘dopo’, niente altro che una frode della superbia solipsistica”.
 
E allora crediamo di assistere alle sue avventure in un irreale eterno crepuscolo; il tempo rallenta sino a dissolversi, tutto cambia senso e misura; e quegli intellettualismi che attraversavano le riflessioni del nostro, quel suo appellarsi e quel suo dialogare virtualmente con Durkheim o con Dostoevskij, si sciolgono, poco a poco. Appare l’ombra di una creatura umana. Il suo vecchio analista; un giovane dottore dall’anima gentile e dall’esistenza breve e sfortunata, che – novello Caronte – sembra accompagnarlo, come “relitto fonico”, nella nuova dimensione di quiete e pace e isolamento che avvolge il nostro. Mai vedremo descritto un altro essere umano; la stessa figura dell’analista sembra rivelarsi come l’ultima costruzione mentale del protagonista, desideroso di stemperare la sua disarmante solitudine. Un miraggio di umanità e fratellanza, altrimenti utopia. Una proiezione delle proprie speranze, espressione del proprio baratro. Dell’analista, dottor Karpinsky, sappiamo che era morto otto anni prima nel tentativo di sedare una lite tra due infermieri; l’allucinazione della sua voce appare in questo frangente: “In quell’istante, dalla cabina ancora aperta qualcuno mi chiama. Il timbro(maschile) della nuova voce, non è quello di chi si esprime attraverso un microfono. D’altronde il microfono l’ho riappeso, non può funzionare. ‘Sì,’dice l’uomo ‘mi riconosca, sono io’. Riconosco la voce. ‘Sono io e glielo dimostro, ricorda quella poesia che m’insegnò? Le recito i primi versi’. Li recita. ‘Ora mi ascolti. So che lei ha bisogno, io le verrò in aiuto. Spero che c’incontreremo presto, dove lei non ha potuto seguirmi’. L’allucinazione(ma è allucinazione?)è lucida e precisa, non ha nulla di capzioso, come non ha nulla di pauroso. È buona. È rasserenante”.
 
Relitti inconsistenti, e ormai reliquie”: questo è quanto rimane della fantasia e della ricchezza dell’umanità nebulizzata: una reliquia. E tuttavia rimane all’uomo un istante di speranza: una sigaretta da offrire ad un’altra anima perduta, l’anima di Karpinsky, in un silenzio perfetto, in una dimensione nuova, annunciata nelle ultime righe del romanzo. “Soffro, dunque sono”, scrisse Morselli nel suo Diario. Nella coscienza d’essersi ucciso, e di esser per questo costretto a vivere in una sorta di desertico limbo, termina l’opera.
 
Opera dunque che affronta il tema della veridicità della memoria: se la percezione della realtà si fa confusa o incredibile, l’unica possibilità sembra essere quella di aggrapparsi alla memoria. La scrittura si fa medium di interpretazione, riflessione e comprensione della realtà. Scrivendo, il narratore ricostruisce la sua vicenda esistenziale; e pur permanendo incerto se quanto gli stia avvenendo sia reale o sia una visione, al termine sembra prender coscienza che quanto avvenuto, e la prossima annunciata apparizione dell’amico morto anni prima, convergano nel decretare che egli è morto, e tuttavia l’intera umanità s’è dissolta assieme a lui. Gli orologi interrompono il loro corso: la natura si riappropria della terra, una volta scomparso l’uomo. La menzogna, sembra suggerire l’opera, può essere affermare che “l’altro” esista (la memoria va al “Minotauro”di Dürrenmatt) se l’io scompare, in un certo senso scompare tutta l’umanità, non potendo più essere percepita dall’io.
 
Altrove, quando la realtà avrà riflesso la letteratura, tutto sarà nuovo e puro.
 
Soffro, dunque sono” (Quaderno XIII, 24 novembre 1950).
 
APPUNTI
Difficile inquadrare Guido Morselli nella tradizione italiana; rifugge ad ogni categoria, sembra non aderire ai canoni. Qualcosa, nel suo stile, mi ha ricordato Goffredo Parise; l’ultimo Parise, quello de “L’odore del sangue”, romanzo destinato al segreto e all’incompiutezza, crudo e vivido e scabro. Nella fluidità narrativa e nella profondità psicanalitica, si può ricondurre al primo Giuseppe
Berto. Non vado oltre.
 
Mi congedo da questa difficile pagina ricordando l’epitaffio che lo stesso Morselli dettò, ancora giovanissimo, nel 1939, auspicando di potere, almeno in questo modo, rendergli un tributo autentico, scevro da fraintendimenti e letture oblique.
 
Guido “Amò quanto poté, non odiò mai”.
BIOGRAFIA
Matteo Collura, nel Corriere della Sera del 23 ottobre 2001, definisce “perfettamente postuma” l’esistenza dello scrittore Guido Morselli. Singolarmente tragica la sorte di questo artista: condannato ad un frustrante isolamento intellettuale e spirituale in vita, trovò comprensione, pubblicazione e fortuna solamente dopo essersi ucciso.
Guido Morselli nacque il quindici agosto del 1912 a Bologna, dove visse i primi due anni della sua vita prima di trasferirsi con la famiglia a Milano. Durante la guerra, la famiglia fu sfollata a Varese: al termine del periodo bellico, Morselli rimase ad abitarvi da solo. Nel 1924 fu colpito dalla drammatica morte della madre. Nel 1931 superò, da privatista, l’esame di maturità classica presso il Liceo Parini e si iscrisse al corso di laurea in Giurisprudenza alla Statale di Milano, per compiacere le ambizioni paterne. Negli anni Trenta iniziò a tenere un diario, dove annotava le sue riflessioni sui più differenti argomenti, che mai più avrebbe abbandonato e sarebbe poi stato pubblicato solamente (in versione incompleta e fortemente rimaneggiata) nel 1988. Dopo aver conseguito la laurea nel 1935, partì per il servizio militare come allievo ufficiale della Scuola degli Alpini a Bassano del Grappa, reputata allora la più severa dell’esercito italiano. Al 1943 risale la prima delle due pubblicazioni ufficiali del nostro: si tratta di un saggio su Proust, intitolato Proust o del sentimento, edito dalla Garzanti. Nel 1948 dettò il suo epitaffio: “Amò quanto poté, non odiò mai”; e sin dallo stesso anno decise di abitare in una piccola casa da lui stesso disegnata, in Santa Trìnita[1], al Sasso di Gavirate, presso Varese, isolandosi per dedicarsi integralmente alla sua attività letteraria[2]. Agli anni Quaranta risale il suo primo romanzo, “Uomini e amori”. Nel corso degli anni Sessanta, Morselli scrisse le sue opere principali: “Un dramma borghese”, “Il comunista”, “Roma senza papa”, “Brave Borghesi”, “Contro-passato prossimo”, “Divertimento 1889”: agli anni Settanta, risale “Dissipatio Humani Generis”.
 
Morselli si uccise il 31 luglio del 1973. “Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è egualmente inutile” (Quaderno XIII, 6 novembre 1959).
 
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
 
Guido Morselli (Bologna, 1912-Sasso di Gavirate, 1973), narratore e saggista italiano.
 
Guido Morselli, “Dissipatio Humani Generis”, Adelphi, Milano, 1977.
Il libro è stato composto tra il 1972 e il 1973.
 
Per approfondire.
(a cura di) Borsa, Elena; D’Arienzo, Sara(1998) “Guido Morselli: i percorsi sommersi – Immagini, manoscritti, documenti”, Interlinea edizioni, Novara, 1998.
Consigliata la lettura del saggio dedicato a Guido Morselli ospitato in:
Giuseppe Pontiggia, “L’isola volante”, Mondadori, Milano, 1996.
 
Fondamentale:Guido Morselli, “Diario”, Adelphi, Milano, 1988

Il “Diario” ospita frammenti composti tra 1938 e 1973.



[1] Matteo Collura, sul Corriere della Sera-Cultura del 23/10 2001. “Di questa casa possiamo leggere in uno dei due saggi, i soli, che Morselli riuscì a pubblicare in vita): “Il poggio di Santa Trìnita si spicca dalla falda di una montagna, di buon’altezza, densa di castagni e faggi e aguzza di abetine al sommo; forastica tanto, da non offrire al riguardante segno di dimora umana”. G.Morselli, Realismo e fantasia, Bocca, Milano, 1947, pp.15-16
[2] Matteo Collura, sul Corriere della Sera-Cultura del 23/10 2001. “Di questa casa, e da questa casa, Morselli scrive a Italo Calvino il 10 febbraio 1963: ‘Per non essere, a Lei, del tutto sconosciuto: sono emiliano, autodidatta, vivo su un piccolo pezzo di terra dove faccio un poco di tutto, anche il muratore; politicamente sono in crisi, con quasi nessuna speranza di uscirne. Non sono un filosofo. Sono un agricoltore: vivo della campagna e in campagna 365 giorni l’anno, e tutt’al più mi spingo a Varese, a bordo della mia Vecchia Ardea’.

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