DEADBURGER – LA FISICA DELLE NUVOLE
‘La Fisica Delle Nuvole’ (Goodfellas, 2013) è la quinta release dei Deadburger (www.deadburger.it); anche se, per la prima volta, è stata attribuita non alla band, ma alla “Deadburger Factory”. È la seconda uscita di Deadburger per Goodfellas, e la prima in coproduzione con Snowdonia. Un lavoro sorprendente fin da come si presenta materialmente: uno splendido box in cartoncino pesante, contenente un libretto di 72 pagine illustrato da Paolo Bacilieri (uno dei più grandi fumettisti italiani contemporanei), un miniposter, e tre album.
Non un album triplo, ma tre album distinti, nuovi e inediti…. ognuno con la sua confezione digipack, il suo titolo, la sua copertina, e il suo concept diverso da quello degli altri. Il primo si intitola ‘Puro Nylon’; e incrocia elettronica sperimentale e partiture cameristiche. Il secondo si intitola ‘Microonde e Vibroplettri’ ed è uno split album, con 4 brani per solo forno a microonde, e 4 per sola chitarra suonata usando come plettri ordigni vibranti (dai dildos ai rotori elettrici per ChupaPops, fino al sensazionale stimolatore clitorideo “Play” della Durex). Il terzo album, dando il titolo a tutto il box, si intitola ‘La fisica delle nuvole’, e vede i Deadburger espandersi in una orchestra acustico-psichedelica di 8 elementi e di 13 elementi nel finale. Muovendosi a cavallo tra spacetrips (…che poi sono tutti viaggi nell’innerspace) e rock in opposition. Quasi una versione 2013 di una comune freak alla “Blows Against The Empire”. Il tutto insaporito da spezie come ossessioni ritmiche kraut e omaggi alla Sun Ra Arkestra (“Starburger”), Philip Glass, Steve Reich.
Tra i collaboratori: Paolo Benvegnù Enrico Gabrielli, Une Passante, Lalli, Marina Mulopolus (Almamegretta). Con la benedizione dello scrittore Michel Houellebecq, che ha autorizzato la band ad utilizzare un suo brano. Il booklet, poi, è un trip a sé stante, con la rivisitazione ad opera di Paolo Bacilieri dell’Isola dei Morti di Arnold Böcklin, e ben quattro numeri del Poor Robot’s Almanack.
Per una precedente intervista su Kult Underground http://www.kultunderground.org/art/620
Davide
Ciao Vittorio. L’ultima volta che ci siamo fatti una chiacchierata è stata a proposito di “C’è vita su Marte” nel 2007. Cosa avete fatto in questi anni e come siete giunti a produrre un box di tre cd così ricco da ogni punto di vista: nei contenuti musicali, sonori, grafici e concettuali oltre che nel bel contenitore, nei riferimenti e nella partecipazione di ospiti?
Vittorio.
Piacere di ritrovarti, Davide. Nei sei anni intercorsi tra “C’è Ancora Vita Su Marte” e “La Fisica Delle Nuvole” i Deadburger hanno fatto quello che fanno sempre: suonare, sperimentare, vivere.
Abbiamo lavorato in studio e in sala prove. Fatto concerti, spettacoli teatrali, collaborazioni con altri musicisti. Registrato tonnellate di materiale, in tutte le combinazioni possibili (da soli, in duo, in trio, ecc, fino all’ottetto dell’ultimo spettacolo teatrale).
Abbiamo portato avanti progetti individuali (come “Gualty” per Simone Tilli, o “Le Macchie di Rorschach” per Carlo Sciannameo; e ti risparmio, per non annoiare te e i lettori, l’elenco di quelli a cui sto lavorando io). Abbiamo sperimentato nuove combinazioni strumentali, nuovi suoni, nuove metodologie compositive. Abbiamo cercato un dialogo tra musica e illustrazione (la collaborazione con il grande Paolo Bacilieri). E abbiamo partecipato ad alcuni splendidi progetti discografici di amici (“Balera Metropolitana” dei Maisie, ed il tuo “Neumi”).
Come sempre, tutte queste esperienze sono, in un modo o nell’altro, andate a confluire nella musica dei Deadburger. Così come vi sono confluite le cose, belle e brutte, che sono accadute nelle nostre esistenze: cambi di lavoro e/o di città…. affetti e perdite… eventi traumatici come la “near death experience” (e la successiva “resurrezione”) di Simone.
L’idea di fondo de “La Fisica Delle Nuvole” l’avevamo chiara fin dall’inizio: raccogliere in un unico cofanetto tutte le colonne sonore che avevamo fatto per il teatro. Ma non una compilazione di “materiali di archivio”: le composizioni sarebbero state registrate ex novo, e – nello spirito di work in progress permanente dei Deadburger – utilizzate come punto di partenza per nuove sperimentazioni. Così, strada facendo, il lavoro ha potuto recepire tutti gli inputs che ho ricordato sopra. Selezionandoli, depurandoli, organizzandoli. E, un po’ per volta, le nostre Nuvole hanno assunto colori che inizialmente nemmeno noi avevamo previsto.
Del resto, questo è ciò che accade per tutti i nostri album. Sono come figli: crescono lentamente ma costantemente, sviluppando passo dopo passo la propria identità e personalità. E noi li lasciamo crescere, senza mettere loro fretta.
Da quando la registrazione su computer ha messo in condizione chiunque di farsi i suoi dischi “nella cameretta”, il numero delle uscite discografiche è tracimato. I dischi vendono sempre meno, ma ne escono sempre di più. Senza che a questo aumento numerico sia corrisposto un aumento di creatività: molti dischi sembrano fatti per necessità non tanto artistiche quanto di altro tipo (soddisfare l’ego dei musicisti… avere un “biglietto da visita” per cercare ingaggi concertistici… eccetera).
Ecco.. da questo tipo di presenzialismo, i Deadburger si tirano fuori. Noi registriamo sempre e costantemente, ma pubblichiamo qualcosa solo quando ci sembra che sia “cresciuto” abbastanza da poter camminare nel mondo con le sue gambe.
Davide
Cominciamo dal primo CD, “Puro Nylon (100%)”, Alessandro Casini, Vittorio Nistri e Tony Vivona (ma band al completo nelle esecuzioni). Si tratta delle musiche per lo spettacolo “Puro Nylon”, ma non come materiale d’archivio, bensì una rielaborazione e uno sviluppo delle partiture originali. Il tutto ha avuto origine da un libro di poesie di Tony Vivona. L’uscita del libro fu l’occasione di una serie di performance ispirate ai readings della Beat Generation divenendo nel tempo un vero e proprio spettacolo, incluse scene tratte da Beckett e Saviane (Aspettando Godot e Il Mare Verticale). Presenti nel disco anche parole di Marcel Duchamp e le voci di Giorgio Saviane, Lalli e Odette Di Maio. Fatta questa lunga premessa, qual è il significato che cementa e guida i molti significati di questa opera piena di riferimenti e suggestioni diverse? Perché il “puro nylon” che sembra racchiudere un ossimoro tra naturale e artificale?
Vittorio
Io in passato ho lavorato nel tessile, e Tony Vivona lavora tuttora nell’abbigliamento, ma ovviamente non è per questo che abbiamo scelto questo titolo. La ragione è proprio quella che hai detto tu:
ci sembrava un perfetto ossimoro.
La lana può essere pura. E così le altre fibre naturali: seta, cotone, lino, cashmere, canapa (…si, serve anche per fare tessuti!). Ma il nylon no. E’ la fibra artificiale per eccellenza, e di “puro” – nel senso di “prodotto della natura” – non ha niente.
Per inciso… credo che l’ossimoro sia una delle chiavi di lettura primarie della realtà in cui siamo immersi. Dire una cosa per intenderne l’opposto. Esiste qualcosa di più diffuso?
Dall’ “uno vale uno” dei 5 Stelle al Bush “presidente compassionevole” che sdogana la tortura. Dal Bersani “mai al governo col PDL” al termine “social” per ore solitarie di fronte a un iphone o un pc. Dall’emergenza nazionale fondi mancanti per la ripresa (mentre si acquistavano gli F-35) a amici fraterni “farei tutto per te” che poi ti fregano alla grande (…io sono stato derubato da un amico di infanzia, sul quale avrei messo la mano mani sul fuoco. Muzio Scevola rules!).
Ritornando al primo album del cofanetto, devo dire che il titolo “Puro Nylon” ci è parso particolarmente calzante sia a livello testuale che musicale.
Per quanto concerne le liriche, le poesie di Tony selezionate per il disco hanno questo in comune: ciascuna non è solo quel che sembra dai primi versi. Dentro c’è sempre qualcos’altro.
I bambini siciliani anni ’40 di “1940” (Tony è di Palermo, e la poesia è ispirata a una foto di classe di suo padre da bambino) hanno “facce da piccole scimmie”, ma, allo stesso tempo, una dignità da giganti.
Il “RE” non comanda nessuno né si sogna di farlo. Perché il Re è Tony nella sua stanza di fronte a un foglio di carta. Oppure i musicisti come tu od io, nei nostri home studio, di fronte alla schermata di una song.
Le “auliche parole” de “IL POETA” (a cui prestò la voce, con umiltà mirabile e dolorosa autoironia, Giorgio Saviane, la cui registrazione abbiamo restaurato e utilizzato nella nuova versione) sono “bestemmie declamate a caso” da chi vorrebbe librarsi in alto, e allontanare l’ombra della morte… mentre invece resta “ancorato alle viscere della terra” (e alla propria mortalità).
Potrei continuare così per tutti gli altri testi. Questa è la valenza del titolo “Puro Nylon” per quanto concerne le parole.
Sotto il profilo musicale, invece, c’è un’altra considerazione da fare. L’ossimoro “Puro Nylon” evoca contemporaneamente il naturale e l’artificiale.
Nella musica, i più identificano il naturale negli strumenti acustici e elettrici, e l’artificiale nell’elettronica (soprattutto quella in dominio digitale). Questo è un distinguo che a noi non interessa. La compenetrazione (non contrapposizione) tra strumenti reali – chitarre, batterie, archi ecc – e manipolazioni elettroniche è una chiave del suono-burger, fin dai primissimi passi della nostra attività.
Certo, di album in album abbiamo cambiato le modalità con cui surfiamo tra naturale e digitale. Ma rimane il fatto che questa convivenza c’è in tutto quel che facciamo.
Nel primo album del cofanetto, l’idea guida è stata quella di una ibridazione tra sperimentazione elettronica e partiture cameristiche di archi e fiati. Questa è la costante di tutti i brani dell’album, con la sola eccezione di “Obsoleto Blues” (dove, per coerenza col testo, abbiamo sostituito gli strumenti acustici con lo strumento “rock” per antonomasia, ovvero la chitarra elettrica).
Davide
Duchamp, Satie (variazioni su campioni), la Beat Generation, Bukowsky, Lou Reed, Prévert, Burroughs, Beckett, Vonnegut… a esempio, tra i molti richiami presenti in questa trilogia. Il Novecento sembra averci dato un gigantesco bagaglio e sembra a volte aver detto tutto in termini di esplorazione e avanguardie o chissà cosa succederà di nuovo negli anni Duemila? Qual è ancora il senso della sperimentazione oggi e sempre secondo i Deadburger?
Vittorio
Il Novecento, come giustamente rilevi, ha dato tantissimo sotto il profilo della sperimentazione artistica. Peraltro, anche nella scena attuale possiamo trovare nomi di assoluto valore, che portano avanti con coerenza un proprio percorso di ricerca. Penso per esempio nella letteratura italiana ad Antonio Moresco; o nella scena “jazz”, a Mat Gustafsson e Rob Mazurek.
Ciò che oggi sembra mancare, rispetto al Novecento, sono i grandi movimenti, capaci di riunire molti artisti di talento sotto una unica “bandiera”; come erano accaduto, nel secolo scorso, con la Beat Generation, la Pop Art, i Dada, il Futurismo, il R’n’R, la “controcultura” degli anni sessanta/inizio settanta, eccetera.
Io credo però che questa percezione non sia del tutto esatta. Movimenti e correnti continuano a nascere e svilupparsi. Forse, in misura più parca rispetto al Novecento (…è fisiologico che ad un periodo di iperattività segua un periodo di quiete, che a sua volta prelude a futuri nuovi cicli di dinamicità). Ma ci sono sempre.
Solo che tendiamo a dargli meno peso, perché è cambiata la durata del loro ciclo vitale.
Non potrebbe essere altrimenti, giacché l’avvento del Web ha modificato, probabilmente per sempre, le dinamiche di comunicazione umana, inclusa la circolazione delle idee.
Oggi una “novità” smette di essere tale nel giro di pochi mesi. Quale che sia il proprio ambito di riferimento (mainstream o di nicchia), raggiungerà i potenziali interessati nel mondo con una rapidità virale; genererà proseliti e avversari, discussioni e ispirazioni; e, nel giro di pochi anni (…quando non di pochi mesi!), verrà percepita come dato universalmente acquisito, e dunque pronto ad essere “superato”.
Illuminante, nell’ambito letterario, l’esempio del Cyberpunk. Oggi nessuno lo menziona più, nonostante che più d’una delle sue profezie si stia verificando. E’ stato però percepito come repentinamente invecchiato dopo il suo sdoganamento a livello planetario con la trilogia di Matrix. Facendo apparire superate, altresì, le sperimentazioni artistiche in qualche modo connesse (…chi si ricorda più del “post human” di Orlan e Stelarc?).
A livello musicale, gli esempi sarebbero numerosissimi. Giusto per menzionarne un paio: il glitch pop di Notwist, Mum & C apparve “datato” nel giro di pochissimi anni dall’exploit di “Neon Golden”; ed ancora più rapida è stata l’obsolescenza del soulstep di James Blake, il cui album di esordio (2011) fu salutato come una boccata di aria fresca, mentre quello successivo (2013) come una minestra riscaldata.
Mi inquieta riscontrare anche in ambito sociale questa accelerazione dei cicli vitali dei movimenti. Penso a quanto è stato limitato l’orizzonte temporale di risonanza di movimenti ed eventi come il Social Forum, la Pantera, le Primavere Arabe, Occupy Wall Street. Eppure, di “occupare Wall Street” c’è bisogno oggi quanto e più che non nel 2011!
Forse, tra qualche anno, assisteremo alla nascita di nuove correnti sociali e culturali destinate a lasciare una eco più duratura (…come potrebbe essere, se mai si verificherà, una nuova “contestazione generale”. da parte di una generazione critica nei confronti del disinteresse sociale, e della dipendenza da social network, di genitori o fratelli maggiori). Questo potrebbe creare il terreno per far germogliare movimenti di sperimentazione artistica di incisività paragonabile a quelli del Novecento.
Le mie sono semplici illazioni: nessuno può dire con certezza cosa riserva il futuro. L’unica cosa di cui sono sicuro è che ci sono sempre state, e ci saranno sempre, persone animate dal desiderio di ricercare altre soluzioni, altre idee, altri linguaggi, rispetto a quelli dominanti nel proprio periodo storico. Nonostante questo significhi – nella maggior parte dei casi – rendersi l’esistenza più difficile.
Mi hai chiesto quale è secondo i Deadburger il senso di questo. Ti rispondo con una frase di Dacia Maraini, che condivido al 100%: “la ricerca non è soltanto funzionale a ciò che si sta cercando; la ricerca contiene in sé stessa la ricompensa della sua fatica”.
Davide
Capitolo 2.. Microonde… Questa volta a tuo nome. Anch’essa colonna sonora, in questo caso di “Interferenze”, atto unico di Sandro Gualdani. Beh, intanto sono curioso di sapere come hai fatto a far funzionare un forno a microonde con lo sportello aperto per poterlo microfonare e, se questo, non ti ha preoccupato per la fuga di radiazioni? Perché le microonde per farne suono (per altro strepitoso), “diario sonico”?
Vittorio
Ho registrato il mio piccolo forno a microonde DeLonghi (unica sorgente sonora utilizzata nei quattro brani che menzioni) a sportello chiuso. Suppongo che esista un modo per disattivare il sistema di sicurezza che impedisce l’accensione quando è aperto, ma non avevo voglia di verificare sulla mia pelle la pericolosità delle radiazioni senza schermatura.
Operativamente, la cosa si è svolta nel modo più semplice, direttamente nella mia cucina. Ho portato un vecchio registratore portatile e un microfono, e ho inciso tutti i suoni che sono riuscito ad estrarre dal forno. Il ronzio di accensione, il bip dello spegnimento; lo sfrigolare (ben percepibile, nonostante lo sportello chiuso) di diverse tipologie di cibo messe nel suo interno a cuocere; le chiusure dello sportello medesimo, effettuate con varie gradazioni di forza; ritmi primitivi ottenuti percuotendo a mani nude le lamiere; suoni simili al guiro, ottenuti strusciando le dita sulle griglie dell’areazione; ecc.
Successivamente, ho acquisito tutti questi suoni sul mio Macintosh e li ho editati, loopati, e sopratutto intonati (sia con plug di pitch control, sia con vocoder; ma anche ricampionandoli, e suonandoli con una master keyboard).
Una volta organizzati secondo il disegno compositivo che avevo in mente, i suoni del microonde sono stati ulteriormente elaborati con filtri elettronici, ma anche con trattamenti analogici: li ho passati attraverso pedaliere da chitarra – fuzz, wah wah – e amplificatori valvolari Marshall a manetta.
Per me il microonde ha un valore totemico. Mi sembra un feticcio contemporaneo, che si presta a un groviglio indistricabile di considerazioni positive e negative. Un perfetto segno dei tempi.
Inoltre: hai menzionato la valenza di “diario sonico”di questi brani, e in effetti il microonde ha avuto per me anche una funzione simbolica / catartica legata ad uno specifico periodo della mia esistenza.
Ho scritto i primi due brani nel momento di maggiore stress della mia vita. Magari un giorno ti racconterò la storia a voce. Qui basti dire che dovevo superare delle situazioni molto difficili, e che dall’esito della cosa dipendevano le sorti non solo mia ma anche di altre persone. Avvertivo spilli nel midollo spinale, senso di soffocamento, ma non potevo permettere che questi segnali si vedessero all’esterno, altrimenti avrei fatto precipitare la situazione. Dovevo ricacciarli a forza dentro di me.
Una notte che non riuscivo a chiudere occhio, ebbi una visione di me come un topo chiuso – appunto – dentro un forno a microonde.
Mi alzai dal letto, andai in cucina, e registrai il microonde. Poi ne riversai i suoni su un campionatore, e lo collegai a un distorsore e all’amplificatore da chitarra di Alessandro Casini. All’alba erano nati “La mia vita nel forno a microonde” e “Strategia del topo”, ed io mi vestii e andai a fare quello che dovevo fare.
La strategia di un topo chiuso dentro a un forno a microonde è: non darsi per vinto. L’animalino combatterà come un leone, girando in tondo, raspando con le zampe la chiusura, rosicchiando lo sportello.
Che poi è tutto quello che si può chiedere a un topo o a un essere umano: fare del proprio meglio.
Non è detto che serva a qualcosa (nel finale del brano, si sente uno sfrigolio in disfacimento; ho immaginato che sia il topino schiattato che diventa un mucchietto di ossa). Ma, intanto, bisogna provarci.
Davide
È il suono delle microonde ciò che ascoltiamo ancora di più remoto dall’origine dell’universo 13,73 miliardi di anni fa… Il Big Bang, la radiazione cosmica di fondo, in un certo senso, se non la musica, è il suono della Creazione. O anche della distruzione (a cominciare da quel qualcosa che pur doveva esistere prima del Big Bang)… Per creare bisogna distruggere, per distruggere bisogna creare… o, meglio, nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma come notoriamente disse Lavoisier. Cosa ricerca in ultimo Deadburger attraverso questo bilico tra creazione-distruzione. attraverso la trasformazione delle Arti e delle Anti-Arti?
Vittorio
Preferisco il concetto di trasformazione a quello di distruzione. Anche politicamente, parteggio per chi si sforza di modificare l’esistente attraverso il confronto quotidiano con gli avversari piuttosto che per chi insegue il miraggio di una repentina palingenesi (con annesso annientamento degli avversari).
Nell’arte, la creazione non presuppone necessariamente la distruzione. I Deadburger cercano di svincolare le loro composizioni dai cliches (un esempio tra i tanti: nei 24 brani de “la Fisica Delle Nuvole” non ce n’è uno strutturato secondo il format strofa-ritornello), eppure nella nostra musica ci sono voluti riferimenti a tanti artisti del passato.
Tradizione e innovazione possano convivere, se si considerano i conseguimenti di chi ci ha preceduto non come manufatti inanimati in una teca di museo, ma come materia vitale e pulsante. Che si presta – col mutare dei tempi – a venire rivisitata secondo nuove prospettive, e ad ibridarsi con altri elementi.
L’ibridazione è vita, e non solo nella musica. L’iniezione in un contesto sociale di altre pulsioni e altre idee, anche apparentemente disomogenee, stimola il rinnovamento. E benchè non tutti i cambiamenti possano esserci graditi, trovo assurdo, come fanno i leghisti, auspicare una società “congelata”. Altrimenti, avremmo ancora i servi della gleba e la poliomelite!
Inoltre, il melting pot aiuta a superare il mito della “purezza”, che lascio volentieri ai Breivik, o ai tifosi di calcio (così come, in musica, lo lascio ai khomeinisti del 100% analogico o del 100% digitale). Personalmente, mi si apre il cuore ogni volta che vedo tenersi per mano una coppia con colori di pelle differenti. E una gioia della mia vita è stato l’avere ospitato per anni, nel mio giardino, la più memorabile storia di amore del regno animale: una gatta e un coniglio, entrambi randagi, che sono convissuti more uxorio per quattro anni, finchè il secondo non è morto di vecchiaia, teneramente assistito dalla prima.
Davide
“Vibroplettri”, Alessandro Casini. Anche secondo voi Burroughs, sebbene scrittore, è stato il più grande ispiratore del rock sperimentale di tutto il Novecento? E perché avete scelto in particolare “Nova Express”?
Vittorio
Non saprei dire se Burroughs sia stata la maggior fonte di ispirazione per il rock sperimentale (mi è sempre difficile fare graduatorie!), ma certo chiunque oggi sia uso tagliare e rimontare audiofiles, o segua logiche non narrative, è – consciamente o meno – suo debitore.
Burroughs inoltre è stato un visionario dotato di una stupefacente concretezza. L’Età della Rete sembra avere dato corpo alle sue visioni: dal “linguaggio come virus” alla saturazione sensoriale conseguente alla babele di stimoli, fino al controllo tecno-poliziesco degli individui, ad opera di una tecnologia capace di monitorare ogni nostro passo ed ogni nostra inclinazione.
Il tema del Controllo è il perno anche di “Nova Express”, che è un libro impossibile da portare in scena. Ed infatti, la compagnia teatrale che voleva ricavarne uno spettacolo, con i Vibroplettri di Alessandro come colonna sonora, non aveva in mente una rappresentazione tradizionale. L’idea era quella di un’esperienza multisensoriale ipnotizzante: proiettori situati ai quattro angoli del palco avrebbero riversato – tanto sui corpi degli attori quanto sugli elementi della scenografia – un flusso amniotico di colori, nelle gamme del bianco e nero (con immagini prese prevalentemente da vecchi film di fantascienza e schermate di strumenti diagnostici) e del blu elettrico / viola (forme astratte realizzate in computergrafica). Le pulsazioni luminose, all’inizio lentissime, si sarebbero progressivamente accellerate, fino a stabilizzarsi, nell’ultimo quarto d’ora, sulla gamma della “banda alfa”, come nella dream machine di Brion Gysin.
Purtroppo lo spettacolo fu annullato a causa dell’improvviso scioglimento della compagnia, dovuto a dissidi personali tra i membri, che erano tutti parecchio fuori di testa.
Davide
Duchamp, Burroughs, Satie, Houellebecq, Nanni Balestrini ecc… Ovvero anche dei grandi provocatori. Qual è il ruolo o il senso, la direzione delle provocazioni nella poetica dei Deadburger?
Vittorio
Il verbo “provocare” può avere la valenza sia di “suscitare”, sia di “spingere qualcuno ad una reazione risentita”. Nell’Arte, secondo me, è il primo significato quello che più conta.
L’Arte dovrebbe provocare emozioni, idee, riflessioni in chi le si accosta (come hanno fatto in me tutti i nomi che hai ricordato, insieme a tanti altri). E’ questa la “provocazione” che interessa ai Deadburger. Ci sono state parecchie persone che ci hanno contattato per dirci che la nostra Fisica Delle Nuvole ha trasmesso loro qualcosa; e questa è stata, per noi, la più grande ricompensa per la fatica che un lavoro così impegnativo ci ha richiesto.
Ciò non toglie che anche la seconda valenza del verbo “provocare” possa avere il suo peso.
L’Arte presuppone creatività, e la creatività spesso comporta la necessità di avventurarsi altrove rispetto al pensiero dominante.
L’arte presuppone altresì indipendenza di giudizio, il che spesso comporta una critica a determinati aspetti sociali e/o ideologici e/o estetici largamente diffusi nel contesto in cui l’artista vive, e che questi ritiene giusto avversare.
I portatori del pensiero dominante non potranno che sentirsi irritati da una Arte che veicola sensibilità e valori così distanti dai loro.
E’ cosa buona e giusta che l’Arte possa risultare “provocatoria” anche in questa seconda accezione; ma in modo funzionale alla prima. Amo chi trasgredisce i canoni dominanti per trasmettere emozioni e/o idee “altre” rispetto al pensiero prevalente. Ho meno simpatia per chi ricerca l’effetto urticante fine a sé stesso, come se il puro e semplice épater le bourgeois potesse essere, ancora oggi, essere una azione “artistica”. Mentre i fatti hanno ampiamente provato che è, il più delle volte, una strategia di marketing.
Lo “choc” vende (e non solo quello ingegnoso di Tarantino, ma anche quello trash dei torture porn). L’aggressione verbale, anche violenta, è premiante a livello di consensi (da Grillo alla Lega). E mi cascano le braccia nel vedere la parola “provocazione” utlizzata per prodotti dalle finalità spudoratamente commerciali, come Miley Cirus.
I bourgeois amano il brivido della “trasgressione”, purchè non scalfisca i loro privilegi. Lo dimostrano le quotazioni raggiunte dalle carcasse sezionate di Damien Hirst, o dalle “provocazioni” di Cattelan.
E il discorso non vale solo per i bourgeois. Il nostro contesto sociale, al di là delle riprovazioni di facciata, accetta volentieri il propagarsi del mito della “trasgressione” (dalla sua forma più reazionaria, lo “sballo”, ai selfie dei pirla che si fotografano nudi nel supermercato) anche per coloro che un tempo sarebbero stati definiti “proletariato”. Precari e disoccupati in primis. E’ un modo per scaricare tensioni che altrimenti potrebbero incanalarsi nella protesta.
Davide
“La fisica delle nuvole”. Un disco in studio realizzato come fosse live, senza filtraggi a posteriori, senza overdub… e in sintonia con lo spirito “happening”, improvvisazioni libere sui brani. Anche in questo caso si tratta delle canzoni, delle musiche per uno spettacolo teatrale, con regia di Silvia Bagnoli, presentato in anteprima con il titolo alternativo di “Post Atomic cafè”. Perché dunque la scelta in questo caso di un suono che fosse il più possibile vicino a quello dal vivo per una band che lavora così tanto di fino e di cesello in studio?
Vittorio
È vero che il terzo disco del cofanetto scaturisce da un happening largamente improvvisato, e catturato live in sala di registrazione… ma allo stesso tempo, è un album dove c’è – uso la tua espressione – un “lavoro di fino e di cesello in studio”, quanto e più che negli altri nostri dischi.
Si è trattato di un esperimento sui confini tra improvvisazione e scrittura.
Ci siamo ritrovati a registrare nella formazione dell’ultimo spettacolo teatrale. Una line-up che rappresentava per noi una anomalia, sia come dimensioni dell’ensemble (otto musicisti!), sia come sonorità. I Deadburger si sono sempre mossi lungo coordinate elettriche/elettroniche, mentre per questo album si sono cimentati con un set strumentale totalmente diverso: chitarre unicamente acustiche, viola, flauto, batteria solo con le spazzole, piccole percussioni, tastiere “tradizionali” (piano e organo), tromba….
Abbiamo preso come spunto di partenza un pugno di nostre composizioni inedite e non. Una metà dei membri dell’ottetto le aveva provato pochissimo, ed era dunque libero dalla costrizione mentali di parti o arrangiamenti già interiorizzati. Ma anche per i “membri storici” della formazione, è stato come porsi di fronte ad una pagina bianca, tutta da scrivere; l’adozione di una gamma di suoni radicalmente diversa da quella usuale per i Deadburger ha imposto la necessità di reinventare altrettanto radicalmente i brani.
Tutti i membri dell’ottetto sono stati invitati ad improvvisare liberamente sui brani, modificandone durate e armonie. E di ogni brano sono stati registrati diversi take, ciascuno diverso dagli altri.
Le registrazioni si sono svolte con la libertà e l’imprevedibilità di un happening. Anche per questo considero il terzo album del box come il più votato alla psichedelia tra tutti i lavori dei Deadburger.
Successivamente, mi sono messo a riascoltare, selezionare ed organizzare le impro di tutti. Ho lavorato per mesi ad equilibrare e armonizzare una cornucopia di contributi creativi quanto mai disparati.
Questa fase è stata altrettanto “esplorativa” di quella iniziale. Abbiamo lasciato una sola traccia ad ogni membro dell’ottetto, come in un live; e le sonorità dei singoli strumenti sono state lasciate quali erano nelle improvvisazioni, senza successivi filtraggi; ma i contributi dei singoli musicisti sono stati mescolati con la più piena libertà creativa.
La Santa Registrazione Digitale ha permesso di scoprire che, per esempio, incrociare l’impro di flauto del take 1 di un brano con quella di viola del take 3, sulla base ritmica del take 4, portava quel brano “altrove”. O che una coda strumentale scaturita in una session come outro acquistava maggiore sapore se posizionata come intro. Eccetera eccetera.
Questa è stata l’importantissima, irrinunciabile componente tecnologica / elettronica di un album solamente all’apparenza non elettronico.
E poiché, come sempre accade nei Deadburger, da idea nasce idea, ho anche scritto alcuni arrangiamenti di raccordo tra gli spunti emersi dalle jams. Arrangiamenti che poi abbiamo realizzato coinvolgendo, in sessions di overdubs, anche altri musicisti (Enrico Gabrielli, Paolo Benvegnù, UnePassante, Marina Mulopolous).
Io mi sono accollato l’onere della “regia” del film, ma il film non è “mio”: è stato scritto e interpretato da tutti i partecipanti. E’ il frutto di un vero collettivo. Il merito della policromia e della vitalità di questo album è da attribuirsi a tutti coloro che vi hanno suonato.
In conclusione, il terzo disco del box è frutto – prima – di improvvisazione freakedelica e – poi – di organizzazione a posteriori, curando ogni dettaglio con dedizione alla Brian Wilson.
Dopo tanto lavoro di organizzazione ex post, si può ancora parlare di “improvvisazione”?
E per contro: brani scaturiti da jams possono essere definiti frutto di “scrittura”?
Io credo che non esista più una risposta univoca a domande del genere. Viviamo tempi di cambiamento, e diverse categorie mentali, nell’orticello della musica come in ambiti ben più grandi, già da un pezzo sono in corso di revisione.
Davide
Mi interessa molto il concetto di happening secondo Allan Kaprow di eventi che incarnino i valori antitestetici a quelli caratterizzanti l’universo delle “belle arti” e che promuovono l’effimero, il mutevole, il riavvicinamento tra arte e vita. E’ questo anche il vostro spirito “happening”?
Vittorio
Forse la nostra posizione è “nel mezzo”. I Deadburger amano “cogliere l’attimo”, e la vicinanza tra arte e vita è sicuramente nei nostri obiettivi. Ma per Kaprow, l’attività dell’artista era finalizzata all’evento, fruibile solo dagli spettatori che avevano la fortuna di assistervi; non gli interessava lasciare dietro di sé un’opera, che potesse essere fruita da chiunque fosse interessato ad essa. Mentre l’opera – cioè, gli album – è un punto focale dell’attività dei Deadburger.
Facciamo del nostro meglio per lasciare dietro di noi pochi dischi, ma con una loro ragione di essere. E crediamo di esserci riusciti quanto meno con gli ultimi due lavori che abbiamo pubblicato – “C’è Ancora Vita Su Marte” e “La Fisica Delle Nuvole”.
Gli album precedenti, secondo me, avevano composizioni valide, ma la resa sonora, e pure alcune esecuzioni, non rendevano loro giustizia. Magari in futuro ci rimetteremo le mani, e pubblicheremo una loro versione “riveduta e corretta”. Questo per dirti l’importanza che per noi riveste l’opera.
Davide
Bellissimi i disegni di Paolo Bacilieri. Com’è nato questo suo contributo grafico? Perché lui in particolare?
Vittorio
Avevamo in mente fin dall’inizio Paolo quale controparte grafica di questo lavoro, perché ha delle caratteristiche in piena sintonia con quello che facciamo.
La nostra musica è una specie di Giano bifronte, sotto almeno due aspetti.
Primo aspetto: i Deadburger fanno musica umanista, a livello tanto di approccio esecutivo quanto di contenuto emotivo (…ci mettiamo direttamente in gioco in quello che suoniamo, carne e nervi, testa e intestini. Debolezze e insufficienze incluse). Questa componente “umanista”, peraltro, dialoga continuamente con una componente di tecnologia (le composizioni vengono decostruite e riassemblate su computer; i suoni naturali sono spesso filtrati elettronicamente fino a diventare qualcosa d’altro; le partiture e le improvvisazioni dei vari strumenti si intrecciano con loop e campioni). E’ un dialogo che cerca di riflettere la nostra vita quotidiana, di cui la tecnologia è presenza inevitabile. Il tutto senza nessun culto della tecnologia – al contrario, usando la tecnologia per cercare di esprimere quanto di più umano c’è in noi.
Secondo aspetto: nel fare musica, i Deadburger attingono parimenti alla propria sfera di inconscio (emozioni, visioni, allucinazioni) e alla propria sfera di consapevolezza (le scelte di parte, le prese di posizione). Questo si traduce in una duplice anima musicale. Da un lato, c’è quanto scaturisce dall’analisi della realtà: musica spigolosa, fratturata, “neorealista”. Dall’altro lato, c’è quanto scaturisce dai viaggi nel nostro inner space: trance, psichedelia; atmosfere cinematiche.
Nelle opere di Paolo Bacilieri io ravviso questa medesima natura bifronte.
Anche lui è contemporaneamente umanista e tecnologico. Come noi, vede nella tecnica non un fine, ma un mezzo per trasmettere emozioni. Ed anche lui attinge parimenti alla sfera della consapevolezza e a quella dell’inconscio.
Paolo unisce, con la più totale naturalezza, realismo (rigore assoluto di forme e proporzioni) e surrealismo (attitudine visionaria; capacità di riplasmare la realtà secondo la propria immaginazione e creatività). Per dire: da un lato, disegna edifici con una precisione degna di un architetto; dall’altro, dissemina le sue opere di pennellate oniriche, visioni fantastiche, e persino una componente “out of tune” che a me sembra avere un legame ideale con il mondo psichedelico/underground alla ZAP COMIX.
Siamo stati felicissimi che Paolo abbia accettato di lavorare con noi, e preso parte così attivamente al progetto. E siamo stati entusiasti del risultato.
Considero l’artwork de “la Fisica Delle Nuvole” non un semplice décor, ma una componente essenziale dell’opera. Ogni immagine … anzi, ogni singolo dettaglio di immagine… ha un preciso riscontro nella musica, nelle atmosfere, nelle idee del cofanetto.
Ci ha fatto molto piacere che questo lavoro abbia ricevuto l’onore di una mostra monografica presso una galleria d’arte contemporanea di Firenze, lo Studio Rosai.
Davide
La meccanica precisa di come si formi e cresca una nuvola non è completamente nota… Può essere questo un nesso con l’Arte o cosa? Perché, cos’è per voi “La fisica delle nuvole”?
Vittorio
La “fisica delle nuvole” esiste davvero. È una branca della fisica atmosferica, e studia i processi con cui le nubi si formano, crescono, e poi precipitano.
Ma se anche non esistesse, un nome del genere bisognerebbe inventarlo. Io trovo bellissimo l’accosto di un termine scientifico e di un qualcosa che, da sempre, affascina poeti, innamorati e pittori.
Accoppiare “fisica” e “nuvole” è come mettere insieme tecnica e emozione…
lucidità razionale e moti irragionevoli del cuore…
il metallo dei laboratori e la leggerezza di acqua che vola…
il pensiero e l’istinto.
È tutto quello che vorrebbero essere i Deadburger!
Inoltre, la fisica delle nuvole viene menzionata nel brano di Kurt Vonnegut Jr dal quale abbiamo ricavato il testo della title track. Testo che è una chiave di lettura di tutto l’album.
“Eccomi qua, a togliere merda da quasi ogni cosa. E: nessun dolore”. Il brano di Vonnegut si conclude con queste parole. Trovo in questa singola riga più saggezza che in qualsiasi testo religioso o filosofico o politico nel quale mi sia mai imbattuto.
Davide
Due parole anche sul bellissimo videoquadro “Micronauta”, che viene proiettato in gallerie d’arte e rassegne di cortometraggi (la prima è stata a Firenze, Studio Rosai, il 12 ottobre 2013). Un feto astrale fluttuante nel cosmo che ricorda lo Star Child di Kubrick, il suo cordone ombelicale che termina in un connettore USB (ci aspetta uno standard di comunicazioni “seriali” più che un uomo potenziato in senso nietschiano? L’umanità è ancora ad un livello troppo basso per avere in mano le chiavi della conoscenza?)… Il cosmo racchiuso in un forno a microonde… Cosa significa questa tua rivisitazione del feto astrale? Cos’è il micronauta?
Vittorio
“Micronauta” è un video interamente in animazione 3D, con disegni di un giovane talento fiorentino, Andrea Cecchi, e sceneggiatura mia. La musica è quella del brano finale di “Microonde”, tratto dal secondo album del cofanetto. È stato concepito non come un videoclip promozionale, ma come un quadro, ovvero una unica immagine… che però, a differenza di un dipinto, si evolve gradualmente, seguendo – nell’arco di quattro minuti – una precisa sceneggiatura, con un inizio e una fine. Il cui senso sarà chiaro solo a chi avrà voluto dedicargli, appunto, quattro minuti del suo tempo.
Il che lo rende adatto più alle gallerie d’arte (dove non è impossibile che un visitatore si fermi, per qualche minuto, di fronte a un quadro) che non al web (dove la fruizione ha un suo ritmo specifico, fisiologicamente velocissimo). Pertanto, almeno per un po’ di tempo, questo videoquadro non verrà postato su YouTube né Facebook né altrove sul web. Verrà invece proiettato in gallerie d’arte e rassegne di cortometraggi e cinema d’animazione.
Se però qualcuno fosse interessato a vederlo, basta che ci contatti tramite il nostro website o il nostro facebook, e gli invieremo un link segreto che gli consentirà un accesso privato al videoquadro.
Mi domandi che cosa significa il Micronauta. E’ una riflessione su come il web sta cambiando le nostre vite. Questo è un argomento cui i Deadburger ritornano periodicamente. Gli dedicammo il brano “Hacker Dance”, nell’album di esordio del 1997, e il brano “Electroplasmi”, nell’album “S.t.0.r.1.e” del 2003. “Hacker Dance”, nato nel periodo pioneristico della Rete, ne vedeva essenzialmente gli aspetti positivi; sei anni dopo, “Electroplasmi” prendeva atto anche delle zone d’ombra che erano emerse nel frattempo. Ed oggi, “Micronauta” è un punto di domanda.
È ormai evidente che siamo nel pieno corso di una mutazione antropologica planetaria, ma non sappiamo dove ci porterà.
Del resto, sarebbe arrogante pretendere di saperlo: l’esperienza ci ha più volte mostrato come nemmeno scienziati, sociologi e futurologi riescano a prevedere il futuro fino in fondo.
Stanley Kubrick coinvolse i cervelli più brillanti dell’epoca nella preparazione di “2001 Odissea Nello Spazio”: astronavi, stazioni orbitali, tute e quant’altro furono elaborati non da “visual artists” ma da ingegneri aerospaziali, sulla base dei più progrediti progetti della Nasa. Ma neppure un brainstorming di questo livello riuscì a prevedere che, nel 2000, i computer sarebbero divenuti “personal” e piccoli come elettrodomestici (al contrario del mastodontico Hal 9.000); e, soprattutto, non riuscì nemmeno lontanamente a prevedere l’arrivo del web e della interconnessione globale, ovvero il fulcro dell’attuale mutazione della razza umana.
Allo stesso modo, nessuno oggi è realmente in grado di prevedere come la Rete ci evolverà (o de-evolverà). Ha già apportato tante modifiche nei nostri lavori, nel nostro modo di relazionarci, nel nostro rapporto come le informazioni, nel nostro uso del tempo libero, nelle strategie politiche e commerciali… ma siamo solo all’inizio, e nessuno può sapere se le mutazioni future proseguiranno le traiettorie attuali, o ne tracceranno di differenti.
Tutti i grandi mutamenti storici comportano simultaneamente aspetti negativi e positivi; il bilancio sarà possibile solo a posteriori.
Tra vent’anni sapremo se la interconnessione totale ci avrà resi più Società o più Individui.
Se ci avrà aggregato o resi più soli.
Più democratici (le Primavere Arabe senza il Web non sarebbero mai nate) o più marionette (eterodirette da corporations e Casaleggi).
Più smart (grazie alla cornucopia di stimoli) o più superficiali (deficit di attenzione da multitasking).
Più colmi di passioni (che cultura, arte, intrattenimento, sono oggi un banchetto gratis) o più indifferenti (incapaci di leggere un libro, ascoltare un disco per intero, concentrarci su qualcosa per più di 10 minuti).
Sapremo se i nostri cervelli saranno divenuti più aperti (grazie ad una possibilità di accesso alle informazioni mai neppure sognata dalle generazioni precedenti) o atrofizzati (incapaci di elaborare da noi una sintesi, ma solo di scaricarci i Bignami di Wikipedia).
Più battaglieri per i diritti nostri e altrui (con gli Assange e i Datagate che ci aiutano a monitorizzare storture e ingiustizie di ogni tipo) o più pecore (che non scendono più in piazza, però firmano le petizioni on line).
Il Micronauta è il Bambino delle Stelle della scena finale di “2001”, ma con ciò che Kubrick non aveva previsto. Il cordone ombelicale con chiavetta USB lo qualifica come il figlio di una Nuova Umanità Interconnessa.
Sarà l’inizio di una Era più saggia (…forse, la nascità di una Mente Collettiva, capace di visioni e decisioni più giuste) o di una decadenza?
Il nostro Micronauta, per il momento, è nel guado, sospeso tra la meraviglia dell’Universo (la parte iniziale del videoquadro, col Bambino delle Stelle che si muove lento, quasi danzando, tra nebulose e scie di meteoriti) e la pragmaticità senza slanci di un elettrodomestico (nel finale del videoquadro, il cosmo e lo Space Child appaiono rinchiusi dentro la scatoletta di latta di un forno a microonde).
La rivoluzione tecnologica/antropologica di cui il Micronauta è portatore potrà portarlo ad aprire il suo Terzo Occhio, come, al contrario, a restringere definitivamente i suoi orizzonti mentali al “PRODUCI CONSUMA CREPA” profetizzato dai CCCP.
Davide
Cosa state già facendo nel vostro continuo work in progress e a quali altri progetti state pensando?
Vittorio
L’anno che è trascorso dall’uscita del cofanetto è stato – anche a prescindere dalla promozione di quest’ultimo – iperattivo. Sono in pieno svolgimento le registrazioni del prossimo album dei Deadburger, che sarà interamente a doppia batteria (questa estate abbiamo avuto registrato sessions stupende con due dei batteristi che più ci piacciono in assoluto: Zeno De Rossi e Bruno Dorella). Stiamo inoltre ultimando una “Marcia Degli Acufeni” (con trio di sassofoni, e Zeno De Rossi alla batteria) per un imminente lavoro delle Forbici di Manitù dedicato al tinnitus.
L’album a doppia batteria comporrà, insieme a “la Fisica Delle Nuvole”, un dittico del tipo “yin-yang. Dopo di che… probabilmente, la “ragione sociale” Deadburger chiuderà i battenti (salvo l’eventuale ripubblicazione in veste riveduta e corretta dei primi album, o il rilascio di inediti d’archivio). Ma la band rinascerà immediatamente dalle sue ceneri con un nuovo nome e un nuovo concept sonoro.
Il nuovo nome lo diremo quando verrà il momento, ma posso anticiparti che lo si trova già (anche se non è facile da individuare!) nel cofanetto della Fisica Delle Nuvole.
Come sempre, nel mentre lavoriamo a un nuovo Deadburger, mandiamo avanti un bel pò di progetti individuali e di collaborazioni con altri musicisti. Nell’anno trascorso dall’uscita del cofanetto, per esempio, io ho collaborato a “Maledette Rockstars” dei Maisie e a “Ukyioe – Mondi Sommersi” di Nickelodeon/Insonar; ho iniziato il restauro delle registrazioni della mia band degli anni ’80, gli Overload, per la quale è in programma una ristampa su doppio album ad opera di Goodfellas e Federico Guglielmi; e sono ormai a un abbondante 80% della preparazione dell’album di esordio di “OSSI”.
Quest’ultimo è un nuovo progetto in duo insieme a Simone Tilli dei Deadburger, con il non piccolo aiuto di una compagine di strumentisti da favola (Appino degli Zen e Dome la Muerte alle chitarre e Bruno Dorella alla batteria). La musica sarà totalmente diversa da quella dei Deadburger – come è giusto che sia, altrimenti non avrebbe senso mettere in cantiere un’altra band.
E altre storie, ancora diverse, seguiranno. Come “Flamingos Forever” della Dead Freaks Society (un musical psichedelico su John Waters e Divine, al quale lavoro da tempo immemorabile). E poi un tributo psichedelico a Sun Ra, ed altro ancora. La mia testa è piena di progetti, e il tempo non basterà per tutti. Solo il futuro dirà quali e quanti di essi riusciranno a vedere la luce!
Davide
Grazie Vittorio e à suivre…
Cd 1: Puro Nylon
1 1940/Madre 2 Variazioni su un Campione di Erik Satie #1: Re 3 Variazioni su un Campione di Erik Satie #2/3: L’Inganno/Il Poeta 4 Oltre 5 Obsoleto Blues 6 Variazioni su un Campione di Erik Satie #4: Ciò Che la Pelle Spiega 7 In Ogni Dove 8 Ancora Più Oltre
Cd 2: Microonde/Vibroplettri
1 La Mia Vita Dentro il Forno a Microonde 2 Strategia del Topo 3 Magnetron 4 Micronauta 5 Il Dentista di Tangeri 6 Cuore di Rana 7 Dr Quatermass I Presume 8 Arando i Campi di Vetro
Cd 3: La Fisica delle Nuvole
1 La Fisica delle Nuvole 2 Amber 3 Bruciando il Piccolo Padre 4 Cose Che Si Rompono 5 Wormhole 6 Il Mare E’ Scomparso 7 Deposito
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