VITTORIO NISTRI – FILIPPO PANICHI
Snowdonia 2024
LA MUSICA
Musica da camera psichedelica ed elettronica sperimentale: ecco gli ingredienti principali di questo album. Le sperimentazioni di Filippo e Vittorio (a base di sintetizzatori inusuali, strumenti autocostruiti, suoni trovati e processati ecc.) si sposano alle partiture create da Vittorio per un ensemble di chamber music composto da violoncello, viola, contrabbaso, trombone, clarinetto e sassofono.
LA GENESI
Le composizioni di questo album sono figlie di anni difficili, tanto sotto il profilo collettivo (guerre, genocidi, emergenze sanitarie, crescita delle disuguaglianze, impoverimento economico e culturale ecc.) quanto sotto quello personale. Questi brani sono una ricerca “nonostante tutto di qualche spiraglio di luce e bellezza, nel mentre si sta attraversando una distesa di ghiaccio sottile. Come stringersi a una persona amata mentre nel cielo incombe il pianeta Melancholia in rotta di collisione.
GLI AUTORI
Vittorio Nistri è attivo da anni nel campo del rock sperimentale. Tastierista, sperimentatore elettronico e compositore, è tra i fondatori e membri stabili dei Deadburger, Deadburger Factory e Ossi. Ha collaborato con Claudio Milano (aka Nichelodeon), Maisie, Forbici di Manitù, St. Ride ecc.
Questo è, per Vittorio, il primo album interamente “non rock” (non ci sono canzoni, né voci, né sezione ritmica basso/batteria). Anche se forse, sotto il profilo emozionale, il legame con il rock permane.
Filippo Panichi ha iniziato la sua attività musicale come chitarrista, ma ormai da anni si dedica soprattutto a performances di improvvisazione radicale e a sperimentazione elettroacustica, gravitando tra ambient noise, drone music ecc. Ha autoprodotto numerosi album digitali, reperibili su Bandcamp, per la maggior parte realizzati in solitaria. Questo album differisce dalle sue produzioni precedenti sotto vari aspetti: in primis, per il contesto musicale di “ensemble”.
GLI STRUMENTI
Tutte le registrazioni per questo album sono state fatte con strumenti musicali fisici, o altre fonti fisiche di suono. Il computer è stato utilizzato solo per gli editaggi e gli assemblaggi del materiale registrato. Per chi eventualmente ne fosse incuriosito, il booklet riporta, brano per brano, una mappatura delle sorgenti sonore utilizzate, tra cui “pipistrellatori”, “Body patching” e strumenti autocostruiti come il “mollofono” a base di molle elettrificate inventato da Filippo Panichi e il suo “noise-generator” ricavato da un dissipatore di un vecchio computer.
Vittorio e Filippo hanno utilizzato vari sintetizzatori, tutti hardware i quali, rispetto ai synth virtuali, consentono un diverso rapporto fisico ed emozionale. Per la stragrande maggioranza, si tratta di synth ultra-low-cost, come Microfreak, Behringer Edge, Korg Monotron, Lyra 8 ecc.
GLI OSPITI
Al contrabbasso, Silvia Bolognesi (membro dell’Art Ensemble of Chicago, e anima di mille progetti che ha collaborato anche con la Deadburger Factory). Alla viola, Giulia Nuti (che torna a incrociare la sua strada con quella di Vittorio dopo essere stata per anni membro della Deadburger Factory). Ai clarinetti e al sax, Enrico Gabrielli (che ha preso parte a tutti i dischi di Deadburger e Deadburger Factory usciti dal 2007 in poi). Al violoncello Pietro Horvath e al trombone Edoardo Baldini, giovani e talentuosi musicisti toscani. Mix e masterizzazione sono a cura di Giacomo Fiorenza (Studi Fonprint di Bologna).
L’ARTWORK
Il dipinto della copertina dei dieci dipinti del booklet sono opera di Beppe Stasi. La grafica è opera di Gabriele Menconi.
Precedenti interviste con Vittorio Nistri:
https://kultunderground.org/art/620/
https://kultunderground.org/art/39304/
https://kultunderground.org/art/18009/
https://kultunderground.org/art/41434/
Intervista
Davide
Ciao Vittorio, ben ritrovato su queste pagine, e benvenuto Filippo. Suppongo che questo vostro lavoro abbia avuto una lunga gestazione. Quando avete iniziato a lavorarvi, su quali idee di base e come è avvenuto il vostro incontro creativo?
Filippo
Io e Vittorio ci siamo incontrati tramite Fabio Norcini, un amico che gestiva lo Studio Rosai (un tempo studio del pittore Ottone Rosai), e che organizzò lì un concerto della Deadburger Factory. Con Fabio ci conoscevamo da 20 anni, per me è stato un maestro oltre che un amico ed era la mia risorsa quando mi serviva quel tipo di informazioni che non trovi sui libri ma che ti può dare chi era lì in quel momento. Un’altra delle sue doti però, forse sottovalutata più delle altre, era quella di fare incontrare le persone, di mettere in contatto mondi che altrimenti non si sarebbero incrociati. In quel caso mi disse che dovevo assolutamente andare a quella serata perché mi voleva presentare Vittorio, e far sentire i Deadburger.
Effettivamente trovai delle affinità musicali, culturali e anche una persona molto aperta in generale e in particolare riguardo alla musica: è raro trovare gente che veramente ascolta e che è disposta a farsi sorprendere. Quindi, complice anche una session di improvvisazione che suonammo insieme in diretta a Radio Wombat, nella trasmissione 8Hertz condotta dall’amico Nicola Savelli (Naotodate), iniziammo a pensare di fare un disco insieme. Vittorio scoprì che io, oltre a girare manopole, sapevo anche suonare la chitarra, e che non mi piacevano solo il rumore e le cose radicali, ma anche la melodia, che di fatto tengo in altissima considerazione: per quello la voglio bella, altrimenti preferisco che non ci sia. Io scoprii che Vittorio scriveva appunto delle bellissime melodie ed era un arrangiatore notevole, dotato di quella costanza e precisione che a me manca. Quindi iniziammo a lavorare a questo disco con l’intenzione di uscire ognuno dalla propria zona di comfort: personalmente ho imparato tantissimo nel realizzare questo disco, e non solo in termini musicali.
Davide
Avete deciso di non titolare questo disco, quindi risulta omonimo. Volevate evitare una indicazione essenziale che definisse strettamente l’opera nel suo insieme?
Vittorio
L’album è nato in un periodo emotivamente molto carico sia per me che per Filippo, anche se per ragioni differenti (nel mio caso, in primis, un tumore a testa per me e mia moglie, poi fortunatamente debellati; per Filippo, la perdita di entrambi i genitori). I conseguenti stati d’animo si sono riversati nel disco. La scelta di chiamarlo solo con i nostri nomi è anche un riflesso della componente autobiografica che ciascuno di noi ha riversato nel progetto.
Davide
Questo lavoro è coinciso con un durante e un dopo diversi momenti difficili della vita sia collettiva, e sue ricadute nella quotidianità del singolo, sia personale. In che modo creare musica aiuta a superare o a rielaborare appunto i momenti difficili della vita? In che modo ne sono presenti una rielaborazione, un attraversamento e un superamento in questo disco?
Filippo
Giocare coi suoni è sempre stato per me qualcosa di simile a quello che altri cercano nella meditazione, mi dà una sorta di calma e di distacco dalla realtà che si sono rivelati spesso molto utili nell’affrontare certe situazioni.
Questo vale soprattutto per gli aspetti più ambient/noise della mia attività, per l’elettroacustica e per le mie rudimentali macchinette sonore. L’improvvisazione (con la chitarra, o alcuni sintetizzatori) mi permette di… lasciare uscire cose, di dar loro una forma. Ma ha anche in sé il brivido del rischio e la gioia della sorpresa, a maggior ragione quando suoni strumenti un po’ imprevedibili e aperti al caos come spesso faccio io, o strumenti che non sai come suonare, magari perché li hai appena costruiti.
Da persona totalmente estranea a qualunque forma di misticismo, sono tuttavia convinto che alcuni suoni abbiano effetti terapeutici: questo vale per l’ascolto, ma forse in maniera anche più intensa nel caso in cui i suoni ce li produciamo da soli. Il long string instrument di Ellen Fullman era nato con uno scopo terapeutico, così come ci sono molti altri tra musicisti, compositori ecc che con varie motivazioni hanno espresso concetti simili, ma non ho una mia spiegazione preferita: so che Mingus mi fa bene (mi riferisco in particolare a The Black Saint and the Sinner Lady, non perché sia il mio preferito tra i suoi album, ma perché ha questo effetto su di me più di altri suoi lavori), che alcuni suoni che produco con le mie macchine o con la chitarra mi danno un piacere fisico, quasi fossero una sorta di massaggio. Ops, non avevo nessuna intenzione di paragonarmi a Charlie Mingus, al contrario, era per dire che ciò avviene sia in presenza di armonie come le sue, sia in assenza.
Davide
Come avete lavorato insieme a queste composizioni e registrazioni? Qual è stato il metodo adottato e condiviso alla base e quali evoluzioni – anche impreviste – si sono presentate nel corso del lavoro?
Vittorio
In questo album, ogni brano è un piccolo mondo a sé. La collaborazione tra Filippo e me non ha seguito un metodo unico, bensì si è articolata in modi ogni volta diversi. Ti racconto la genesi dei singoli brani, sperando di non annoiare te o i lettori; lo faccio solo per provare a trasmettere lo spirito di “esplorazione” – anzi, direi di “avventura” – che abbiamo messo in questo lavoro. Magari potrà incuriosire qualche lettore, e invogliarlo all’ascolto.
“Il faro di Schrödinger” è partito da una improvvisazione di Filippo al Lyra-8, un drone-synthesizer senza tasti né midi. I suoi 8 oscillatori possono essere accordati solo ad orecchio, e senza possibilità di memorizzazione; i drones che genera sono necessariamente “imperfetti”, e proprio per questo risultano particolarmente “vivi”, umani, cangianti.
Io ho riascoltato in modo analitico l’impro di Filippo al Lyra, alla ricerca dei punti in cui il drone andava a lambire note identificabili. Ho “mappato” tali note, e, usandole come bordoni, su di esse ho composto e registrato le parti dei miei synth e del piano. Che ho occasionalmente contrappuntato con campioni presi da Penderecki, Kenakis e Beaver & Krause (tutte scelte per me veicolanti anche un valore simbolico o affettivo).
“La risacca dell’alba” è nato da una meravigliosa sequenza armonica di Filippo, che lui aveva fatto con il Korg Volca FM (un piccolo synth che costa circa 150 euro), accompagnata da rumori prodotti con un pezzetto di plastica stropicciato tra le dita e registrato con un rilevatore di ultrasuoni (che Filippo chiama “pipistrellator”, perché progettato per captare il volo dei pipistrelli).
Io ho tagliato/cucito il tutto, composto le melodie di piano e archi (contrabbasso, viola, violoncello), e aggiunto il break rumorista centrale (che ho fatto con l’Enner, un bizzarro sintetizzatore “a connessione corporea”, che si suona in maniera molto fisica e viscerale).
“Maya Deren Blues” è un brano che avevo scritto da solo alle tastiere durante la pandemia, e che poi ho ri-arrangiato con partiture per contrabbasso, chitarra e clarone. Filippo ha eseguito magistralmente la partitura per la chitarra (con un tocco degno di Marc Ribot), e aggiunto noises di Lyra-8 filtrato.
Entrambi abbiamo poi inserito tocchi di sperimentazione elettroacustica (per Filippo, suoni prodotti col dissipatore di un vecchio PC e con campane tibetane processate; per me, crepitii prodotti con un no-input jack, campionamenti da dischi free jazz, e un sample del pioneristico e incredibile sintetizzatore fotoelettronico ANS).
“Pipistrelli sul frigorifero” nasce da un loop di basso/batteria elettronici, fatto da Filippo con il Teenage Engineering Pocket Micro-Sampler (un aggeggino tascabile davvero minuscolo, che costa solo 90 euro). Io l’ho campionato e elaborato fino a trasformarlo in una base articolata, con numerosi stop & go. Su questa base ho scritto e registrato le parti dei vari sintetizzatori melodici e ritmici.
Filippo ha poi aggiunto un assolo fatto con il Korg Monotron (altro strumentino tascabile, con un particolare bending ottenibile muovendo il dito su una strisciolina di gomma), mentre nel finale io ho fatto un assolo di percussioni, che in realtà erano un synth suonato “a schiaffi”.
“Segreti” è un mio vecchio tema, che avevo scritto molti anni e capelli fa, ma che solo in “Nistri-Panichi” ha trovato una compiuta realizzazione. Io mi sono occupato di piano, synth e rumori, e Filippo delle improvvisazioni di chitarra, che ha registrato in backwards e/o con bottleneck (fatto, letteralmente, col collo di una bottiglietta – per l’esattezza, un Crodino).
“Sheriff in Tiraspol” è una mia composizione parecchio articolata, una sorta di suite, nella quale io ho fatto tastiere, sintetizzatori e percussioni, nonché le orchestrazioni per archi e fiati, mentre Filippo ha registrato due assoli di chitarra completamente improvvisati: il primo con suoni asciutti alla Ribot, il secondo invece quasi Pinkfloydiano.
“La Costante Elastica” è divisa in due parti. La prima, anarchica e prossima alla musica concreta, nasce da fluviali improvvisazioni di Filippo fatte con una ringhiera in inox o con molle elettrificate (che poi io ho assemblato e organizzato, onde condensarle in due minuti). La seconda invece è una mia composizione di musica per balletto, con l’arrangiamento più complesso dell’intero album (una partitura per 6 tromboni, 2 clarinetti, e poi: clarone, sax tenore, contrabbasso, viola, violoncello, chitarra acustica, vibrafono e synth).
Come base ritmica per questo “balletto psichedelico” ho usato loop elettronici che ho fatto campionando, filtrando e montando suoni presi dalle ringhiere di Filippo.
“Giulietta sotto spirito” è una mia composizione, per la quale la recensione su Blow Up ha parlato di “Nino Rota patafisico”. Filippo ha contribuito all’arrangiamento con un intervento noise di Lyra (che io ho triggerato per renderlo “martellante” alla Neubaten) e con un gioco finale di chitarre sfasate un po’ alla Steve Reich.
Infine, “Prove Tecniche di solitudine” è un adagio per tre strumenti (viola, violoncello e synth), per il quale avevo chiesto a Filippo di trovare un field recording finale, che fosse “il suono di Firenze se non ci fosse più alcun essere umano”. Filippo lo ha realizzato splendidamente. registrando col “Pipistrellator” il suono della vita animale sulle rive dell’Arno, e tagliando fuori tutte le frequenze di origine umana (in primis, quelle del traffico cittadino).
Davide
Nel comunicato stampa qui riproposto c’è un accenno al pianeta Melancholia. Si tratta di un riferimento al film di Lars Von Trier? Perché questo riferimento?
Vittorio
Concedimi una divagazione preliminare su Von Trier. Non sono un suo grande fan. La storia del “Dogma 95” mi parve più che altro una (abile) trovata autopromozionale. E film come “Antichrist”, “Nymphomaniac” e “La casa di Jack”, fermo restando il rispetto per la visione pessimista e nichilista che l’autore ha della razza umana, mi hanno dato l’impressione di una ricerca programmatica, fatta proprio a tavolino, di elementi teoricamente “provocatori” o “anticonformisti”, atti – sempre teoricamente – a “Épater le bourgeois”.
Questa ricerca artificiosa di “shock” mi lascia indifferente, giacchè sono convinto che oggi (salvo qualche eccezione ben localizzata, come ad esempio gli stati teocratici), il “borghese” non ci pensi neppure lontanamente a “sbalordirsi” per queste cose. Mitridizzato da decenni in cui ha visto e sentito di tutto e di più, di certo non si scandalizza per scene di violenza o di sesso – né per turpiloquio, offese, ingiustizie, corruzione, nequizie di qualunque sorta.
Neppure orrori come genocidi reali disturbano ”le bourgeois”. Si scioccherebbe, caso mai, se gli clonassero la carta di credito o il cellulare.
Divagazione terminata, vengo al punto. Pur con tutte le riserve di cui sopra nei confronti del regista danese, devo ammettere che il suo “Melancholia” mi ha colpito nel profondo. E’ un film con momenti di grande bellezza formale (poche volte ho visto usare la CGI in modo così autenticamente suggestivo), ma soprattutto che mi ha trasmesso, specie nella seconda parte, una emozione fortissima.
La scena chiave per me è stata quella in cui, mentre in cielo incombe il pianeta in rotta di collisione con la Terra, Justine (il personaggio interpretato da Kirsten Dunst) rivela alla sorella di avere un dono paranormale: quello di “sapere le cose”. E’ grazie a questo dono che, per esempio, lei è stata l’unica, in un gioco di società fatto tra gli invitati al suo banchetto nuziale, ad azzeccare l’esatto numero di fagioli (seicentosettantotto) racchiusi in un vasetto. E’ questo dono che l’ha sempre condannata all’infelicità. Ed è in forza di questo dono che Justine “sa” con certezza che, in tutto l’universo, l’unico pianeta dove si è formata la vita è il nostro. Quando la Terra sarà distrutta dalla collisione, non esisterà mai più altro di cosciente, in nessun luogo, in nessun tempo.
Ecco, questo pensiero per me ha una potenza realmente apocalittica, che nessun altro film “catastrofico” ha mai neppure lontanamente sfiorato.
Io credo che, di fronte al pensiero della morte, una delle maggiori consolazioni per un essere umano sia quella di poter pensare: okay, io non potrò più abbracciare una persona amata, né vedere un bambino giocare; non avrò più occasioni per rimediare agli sbagli commessi, o per cercare di fare qualcosa, sia pure di infinitesimale, per il mondo dove ho vissuto; non potrò più sentire musica, parlare con un amico, mangiare una ciliegia, imparare cose nuove. Ma ci saranno sempre altri che potranno fare (o tentare di fare, o sognare di fare) queste cose.
Non riesco neppure a immaginare l’immensità della tristezza che ci darebbe il pensiero che tutto possa cessare per tutti. Che amore, società, arte, ecc… ed ogni forma di coscienza… giungano al termine non solo per le nostre piccole e transitorissime vite, ma in assoluto, per chiunque e per sempre.
Qualunque orrore Lovecraftiano impallidisce al confronto di un pensiero del genere.
L’album “Nistri-Panichi” è nato in momenti di fragilità personale e collettiva. Per l’immagine di copertina desideravo una immagine che trasmettesse, appunto, il senso della nostra fragilità – e credo che, sotto questo punto di vista, “Melancholia” di Von Trier abbia proposto un archetipo insuperabile.
Davide
Le illustrazioni del curatissimo booklet (particolarmente bello nella versione del vinile per le sue maggiori dimensioni) e della copertina sono opera del pittore Giuseppe Stasi, detto Beppe. Perché hai scelto l’opera di questo pittore con la sua peculiare liquidità del colore? Come è successivamente intervenuto il grafico Gabriele Menconi?
Vittorio
Volevo che l’artwork rispecchiasse quel “tocco umano” che, nella musica di questo album, è fondamentale. E non solo per gli strumenti acustici dell’ensemble di musica da camera (tutti reali: in questo disco ci sono zero virtual instruments), ma anche per le componenti elettroniche, tutte davvero “fatte a mano”, smanettando sintetizzatori strani, o usando giocattoli elettronici e aggeggi autocostruiti. (Il computer è stato usato per registrare ed editare, non per generare suoni).
Nella ricerca di Beppe Stasi, il “tocco umano” è altrettanto centrale. Beppe ha con i suoi dipinti un rapporto viscerale, direi quasi carnale. Fa liquefare i colori, li fa scorrere e colare. Questo non serve non solo a creare particolari giochi di sfumature cromatiche. E’ proprio un modo di valorizzare la fisicità, la matericità delle sostanze che usa per dipingere.
Per la nostra copertina ha usato acquarelli insieme ad uno speciale inchiostro nero dalle sfumature misteriose, che Beppe si fabbrica da solo in casa partendo da “galle di quercia” (che sono tumori della corteccia).
Gabriele Menconi ha avuto la geniale idea di indagare cosa si cela davvero dentro il “tocco” di un pittore come Beppe. Ha preso il dipinto di copertina – insieme alle le prove preparatorie che Beppe aveva fatto dello stesso, sperimentando cromatismi alternativi per il “pianetone” – e ne ha selezionato un tot di minuscoli frammenti, ciascuno di pochissimi centimetri quadrati. E poi ha fatto macroingradimenti, proprio “a pagina intera”, di detti frammenti. I dieci apparenti “dipinti astratti” del booklet sono, semplicemente, altrettanti frammenti ingranditi dei dipinti di Stasi. (In tre casi Gabriele ha operato sovrapposizioni di frammenti; gli altri sette invece sono ingrandimenti di un singolo frammento, senza editing alcuno).
Quando ho visto questi ingrandimenti, sono rimasto… stupefatto. In ognuno di quei pochi centimetri quadrati c’era una ricchezza inimmaginabile di forme e movimenti. Di esplosioni e implosioni. Di paesaggi cromatici carsici, e di giochi di colore cangianti e sempre diversi. Ed ho pensato: allora, è questo il “tocco umano”: un meraviglioso e anarchico caos. L’esatta antitesi delle ordinate sequenze di pixel prodotte da algoritmi, AI e programmi di computergrafica.
E’ lo stesso caos di tutte le nostre esistenze, così quintessenzialmente imperfette, nonché provvisorie e transitorie. E’ quel caos che ci fa fare tanti sbagli e tante sciocchezze… ma che anche ci dona l’amore, l’amicizia, l’arte, le emozioni, la socialità e quant’altro ci rende “umani”.
Davide
Il disco è disponibile sia in formato cd, sia in vinile, doppio album di cui il secondo inciso solo su un lato Come già ti ho detto, dopo il terzo lato devo dire che mi sarebbe piaciuto prolungarne naturalmente l’ascolto voltando il disco. Eppure, al di là di una mera ragione di durata del materiale complessivo, la presenza di un vuoto e silenzioso lato del disco ha il suo fascino artistico e concettuale…
Filippo
Intanto grazie… il fatto che ne avresti ascoltato ancora è un bel complimento. Ho sempre pensato che i dischi, come anche i concerti, è meglio che siano un po’ corti anziché troppo lunghi, poi chiaramente io mi illudo sempre di farli “giusti”… e spero sempre di non aver tediato l’ascoltatore.
Direi che, oltre al fascino concettuale, il lato ‘non adatto a orecchie umane’ ha anche dei riferimenti a certe mie pratiche come le registrazioni di gamme di frequenze fuori da quelle percepibili dall’orecchio umano, quali gli ultrasuoni e le onde elettromagnetiche. Non ti puoi immaginare quanto noi inquiniamo, riempiamo di rumore (anche) le frequenze che non sentiamo.
Davide
Com’è avvenuta la scelta degli strumenti acustici dell’ensemble, ovvero contrabbasso, viola, violoncello, sassofono, clarinetti e trombone, escludendo quindi tutto un “eventuale altro”?
Vittorio
Le atmosfere dei brani, e direi proprio il feeling generale dell’album, erano congeniali a toni gravi e “scuri”. Per questo, nello scrivere le partiture orchestrali del disco, ho previsto un ensemble di chamber music dove quattro elementi su cinque (Silvia Bolognesi al contrabbasso, Pietro Horvath al violoncello, Edoardo Baldini al trombone e Enrico Gabrielli impegnato prevalentemente al clarone) gestissero tonalità tendenzialmente basse, riservando le tonalità medioalte solo alla viola di Giulia Nuti (e, in alcuni brani, al sax tenore di Gabrielli e alla chitarra di Filippo).
Davide
E poi gli strumenti elettronici analogici, ossia sintetizzatori low cost e inusuali come il Korg Monotron, quello che sta in un palmo della mano, lo Arturia Microfreak ecc. Perché dunque questa scelta?
Filippo
Ho sempre trovato più adatti alle cose che voglio fare degli strumenti semplici, ma che abbiano un suono personale, piuttosto che sintetizzatori più vasti ma a volte con meno personalità. Macchine semplici, che si guastino il meno possibile, ma che abbiano un flusso di lavoro, un’architettura personale: suonare un synth progettato bene è un po’ come entrare in contatto con chi l’ha fatto, a volte ti ritrovi a dire: ah ecco perché ha fatto così e non in quell’altro modo!
Ovviamente non è che non mi piacciano quelli complessi, solo che per le cose che faccio non ne ho bisogno ed eventualmente ne ho nel computer: non sono un fissato con l’analogico, uso anche plugin e software vari, ma in altri contesti, non per suonare con altri o per l’improvvisazione. Inoltre ho imparato che per me è importante avere almeno un certo numero di strumenti “fissi”, che conosco bene e che abbiano al tempo stesso una certa tendenza al caos, alla casualità… perché mi piacciono le sorprese. Questa cosa la realizzai di botto una volta che l’immenso e altrettanto umile Philip Jeck fu così gentile da spiegarmi passo passo il suo set mentre lo smontava: delle fonovaligie e degli effetti veramente cheap dai quali lui tirava fuori della roba che pareva fatta coi synth di lusso. E a un certo punto mi dice: sai, poi fa anche tanto il fatto che uso le stesse cose da una vita.
Davide
Capitolo ancora più interessante è quello degli strumenti autocostruiti. Ce li potete descrivere?
Filippo
Sono dispositivi abbastanza elementari come elettronica, costruiti per essere in caso anche distrutti “suonandoli”, e quindi fatti con materiali poveri: scatole con molle a varie tensioni a cui applico dei microfoni a contatto o altri tipi di sensori, piccoli motori elettrici che percuotono cose al tempo che gli viene “indicato” da un sintetizzatore o da un sensore (una cellula fotoelettrica che si attiva quando ci punto una luce o quando… le opzioni sono infinite).
Altri trucchetti li ho imparati da altri matti come me: un hack che si può fare su un hard disk (anche rotto) per fargli produrre dei suoni, un altro per convertire le immagini in suoni (e il contrario) usando in modo improprio una presa VGA (quelle dei vecchi monitor).
Ci sono poi dei semplici oggetti che conservo e utilizzo al tempo stesso per un valore affettivo e per le loro proprietà sonore, nella nostra gamma uditiva o fuori di essa, come il dissipatore di un vecchio computer, il mio primo PC, che abbiamo usato in questo disco, registrato col rilevatore di ultrasuoni. Come ho già detto ci sono molti oggetti che producono ultrasuoni, i raggi di una ruota di bicicletta che gira, la plastica che avvolge i pacchetti di sigarette, i capelli che sfregano tra loro e il dissipatore del vecchio Pentium II se lo suoni col “plettro” giusto.
Davide
Cos’è “Il Faro di Schrödinger”, titolo del brano d’apertura, per quale altro paradosso rispetto al gatto?
Vittorio
Il gatto di Schrödinger è vivo e morto allo stesso tempo; il suo stato verrà definito solo quando qualcuno lo osserverà. Analogamente, ho immaginato un faro che è insieme acceso e spento. Magari emette luce, ma non illumina nessuno. Fino a che qualcuno non vedrà il suo raggio, è impossibile dire se è o non è.
Abbiamo avuto tutti qualche esperienza col faro di Schrödinger. Lo sono state le nostre abitazioni durante il lockdown. Lo sono le luci azzurre di una camera di ospedale, in una notte solitaria dopo un intervento. Ma lo è anche fare arte in ambito underground, in tempi in cui è sempre più difficile per l’arte raggiungere qualcuno, soprattutto – appunto – in ambito underground.
A parte queste considerazioni, mi pareva un titolo adatto per aprire un album che nasce dalla ricognizione della propria fragilità e della propria incertezza. Non a caso, nel booklet, questo brano è “commentato” da una citazione di Calvino: “Questa è l’ora in cui si è meno sicuri dell’esistenza del mondo”.
Davide
Un altro brano è intitolato alla Sheriff di Tiraspol, capitale de facto della Transnistria, uno stato non riconosciuto con una situazione pessima per i diritti politici e le libertà civili (o, almeno, così fanno sapere gli USA al riguardo). Come mai questo sguardo verso quella regione?
Vittorio
Come dicevo sopra, l’album “Nistri-Panichi” verte sull’incertezza delle nostre esistenze. E tra le cose oggi più incerte in assoluto, ci sono sicuramente l’equità sociale e la pace.
La Transnistria – che ho scoperto grazie ai reportages di Andrea Sceresini pubblicati su “Il Manifesto” – è un simbolo perfetto dell’attuale mancanza di giustizia sociale. E potrebbe essere un possibile teatro (anche se ovviamente mi auguro che non accada mai) di guerre future.
Questa nazione-non-nazione, benché più piccola del Molise, riassume in sé molto della nostra epoca. In primo luogo, la forza venefica del turbocapitalismo lasciato a sé stesso, senza nessuna regola né limite a tutela dell’interesse pubblico. Di fatto, una società privata – la SHERIFF del titolo – possiede l’intera Transnistria, e fa incetta di ogni sua ricchezza.
In secondo luogo, la Transnistria è un esempio di come potenzialmente tutto il mondo sia diventato una polveriera. Questo fazzoletto di terra, oggi ignoto ai più, potrebbe un domani essere l’avvio di nuovi sconvolgimenti globali. Vi si trova infatti un enorme deposito d’armi dell’ex Unione Sovietica, con circa 22.000 tonnellate di materiale esplosivo.
Nel caso in cui tale deposito dovesse essere oggetto di azioni belliche tra la Russia (cui potrebbe fare gola per azioni contro le confinanti Ucraina o Moldavia) e le forze Nato (o gli stessi ucraini)… e sciaguratamente, dovesse deflagare… secondo i servizi segreti moldavi, l’esplosione avrebbe una forza distruttiva pari all’atomica di Hiroshima.
Ecco perchè il brano “Sheriff in Tiraspol” ha un inizio da soundtrack di film bellico, prosegue con atmosfere da Est Europa (ma anche, volutamente, da Medio Oriente), e si conclude con una tempesta catastrofica di percussioni elettroniche.
Davide
Perché avete dedicato un brano alla regista surrealista e pioniera sperimentale Eleanora Derenkovskaja, in arte Maya Deren? Ha anche a che fare con il suo interesse per la religione per il Vudù, alle cui cerimonie partecipò attivamente e per le quali le fu assegnato uno spirito-guida, la dea dell’amore Erzulie?
Filippo
Sì, ho il suo libro “I cavalieri divini del Vudù” e l’ho letto anche se ormai molti anni fa, quando studiavo Storia del Cinema: mi interessava molto l’argomento, ma anche come viene trattato, ovvero non con il distacco e l’obiettività dell’antropologo, ma cercando di non essere un corpo estraneo, di divenire una di loro. Alcune cose si possono vedere solo così. Se sei un osservatore esterno, non ti vengono mostrate di proposito, o non ti si rivelano perché non ci sono le condizioni. Tra l’altro, nell’esperienza voodoo della deren c’è una analogia con la pratica di un etnomusicologo che ho molto stimato, Louis Sarno, che visse per anni con una tribù di pigmei (sposando una di loro) per studiare i loro canti polifonici. Non avevo invece mai visto il film, rimasto incompiuto, che mi è capitato solo di recente, negli anni 90 era introvabile…le meraviglie dell’infernet.
Al tempo dei miei studi quello che però mi colpì di più del suo modo di fare cinema fu l’uso del montaggio, soprattutto in At Land (1943). Il cosiddetto “raccordo sul movimento” è quando un oggetto esce di campo da un lato dell’inquadratura e rientra dal lato opposto: questo ci da l’idea che l’oggetto si stia muovendo o si sia mosso su una traiettoria. Lei lo fa, ma cambiando luogo di ripresa dalla prima alla seconda inquadratura e zac, un pezzo degli scacchi dalla scacchiera finisce in mare, magia! (la prima scena è in un interno, la seconda è girata su una scogliera, ma il movimento della pedina che cade dalla scacchiera rende il tutto plausibile ma surreale)
Vittorio
Io invece ho conosciuto la Deren tardi e per caso: nel 2017, grazie al capitolo a lei dedicato nel primo volume di “Outsiders”, di Alfredo Accattino. Andai a cercarmi in rete le sue opere, rimanendo stregato da esse, ma anche dalla figura stessa di Maya, C’è una sua iconica immagine, in “Meshes of the afternoon”, dove Maya è ritratta appoggiata ad una finestra, e i suoi capelli, fondendosi con il riflesso del paesaggio antistante al vetro, diventano alberi. Non c’è modo di raccontare a parole il fascino di quel fotogramma, dove Maya appare contemporaneamente come una intellettuale newyorchese, una Madonna del Botticelli e un quadro di Magritte. Puro mistero.
La mia composizione “Maya Deren Blues” omaggia la regista, ma allo stesso tempo scaturisce da cose mie personali. Questo brano è infatti la mia dichiarazione di amore per l’universo femminile, e contemporaneamente l’ammissione dell’impossibilità per un uomo – o almeno, per me – di arrivare a comprenderlo fino in fondo. (Sono innamorato della stessa donna da tutta la vita, eppure, per certi versi, è ancora un mistero per me).
Davide
Vittorio, hai segnalato e avuto alcuni spiriti-guida per questo album: Egisto Macchi, Brian Eno, Eno & Bowie (Trilogia berlinese), Battiato, Robert Wyatt, Melanie De Biasio, Floating Points, William Basinski, Laurie Anderson, Henry Cow, John Zorn, George Martin, Nino Rota, Erik Satie, Luciano Cilio, Tuxedomoon, Dead Can Dance e altri… E, in quanto spiriti-guida, in che modo ti hanno aiutato e hai comunicato con essi durante la creazione di questo disco?
Vittorio
Il filosofo Ludwig Feuerbac disse: “noi siamo quello che mangiamo”. Nel mio caso bisognerebbe sostituire “mangiamo” con “ascoltiamo”. Determinati musicisti che amo (ma anche determinati libri, film, pittori, fumetti) sono stati per me fondamentali, anche a prescindere dal piacere che mi hanno dato. Mi hanno aiutato a capire me stesso, e gli altri, e il mondo.
I nomi citati sopra sono i musicisti che mi hanno aiutato a sviluppare quella parte di me che ho specificamente riversato in questo album con Filippo. Senza però tentare di imitarli.
Per fare un esempio: ho sempre avvertito in me una speciale consonanza con la “serena malinconia” di Robert Wyatt, forse il musicista a me più caro in assoluto, e credo che quel tipo di spleen possa essere alla radice di alcune melodie che ho scritto sul brano “La risacca dell’alba”, che però… non mi pare un brano “alla Wyatt”. E similmente: fu il Battiato de “Le Corde di Aries” a piantare in me, quando ero ancora un ragazzino, il seme del piacere di unire strumenti acustici ed elettronica… ma non credo che ci sia, in “Nistri-Panichi”, alcun brano “alla Battiato”.
Un ultimo esempio, poi mi fermo (ma potrei continuare per tutti gli “spiriti guida” sopra menzionati): non credo che nell’album fatto con Filippo ci sia niente di “beatlesiano”, ma il mio gusto nell’arrangiare (non solo in “Nistri-Panichi” ma in qualunque mio progetto) è stato plasmato, quando ero ancora poco più di un bambino, da George Martin. Il quale impiegava una grande varietà di strumenti, ma in modo calibratissimo e scevro da qualunque inutile grandeur: ogni strumento veniva usato solo per i momenti – a volte, pochi secondi – in cui era davvero necessario. Ed è quello che, nel mio piccolo, ho sempre cercato di fare anche io.
Filippo condivide diversi dei miei “spiriti guida”, ma penso che ne abbia altri da aggiungere.
Filippo
Non posso non menzionare alcune persone che mi hanno insegnato delle cose direttamente, perché le ho conosciute o ci ho parlato, quindi Z’EV, che nei pochi giorni passati insieme ha cambiato il mio modo di vedere certe caratteristiche del suono (l’uso dei metalli sfregati, le molle e la ringhiera di La costante elastica possono avere un nesso con lui e con Harry Bertoja), ma anche Jeff Gburek, chitarrista e sperimentatore con cui ho avuto interminabili conversazioni (abbiamo fatto anche diversi lavori insieme, con i nostri nomi o con il moniker Conspiracy Therapists) circa artisti che lui aveva conosciuto di persona, o almeno fruito direttamente, essendo americano e di una decina di anni più vecchio di me.
E ovviamente Emanuel Holterbach che mi ha fatto vedere il suo rilevatore di ultrasuoni. Poi Ghédalia Tazartès (scoperto relativamente tardi, ma fu un vero shock che qualcuno avesse fatto roba del genere alla fine dei 70 ma anche che io non ne avessi saputo nulla fino a circa il 2010), Tod Dockstader, Philip Jeck, Pauline Oliveros, Stuart Dempster, Chas Smith, Giacinto Scelsi, Steve Roden, Harry Bertoja, Alvin Lucier, Bruce Haack, Raymond Scott, Louis e Bebe Barron, Silver Apples, White Noise, This Heat, Charlie Mingus, Thelonious Monk, Marc Ribot, Loren Mazzacane Connors, Steve Albini, Coil, Michael Prime (per l’uso di sensori di ultrasuoni e emissioni biolettriche), la Creel Pone, un’etichetta che stampava in CD-R cose altrimenti introvabili, Felix Kubin, Popol Vuh…
Davide
Per te, Vittorio, si tratta del primo lavoro senza voci umane e senza ritmica basso/batteria, quindi “non rock”, e, tuttavia, hai scritto che, sotto il profilo emozionale, il legame con il rock è rimasto anche durante la lavorazione di questo disco. Cos’è per te “rock”, cosa “non rock”?
Vittorio
Il “rock” è un universo-mondo, è impossibile darne una definizione oggettiva ed univoca. Si possono tutt’al più individuare alcuni elementi che ricorrono più frequentemente. Ad esempio, i grooves scanditi da una sezione ritmica; le chitarre; un certo tipo di comunicativa spesso favorito dal format “canzone” o dalla presenza di melodie vocali, eccetera. Non troveremo queste cose in tutte le musiche che vengono definite “rock” (sarebbe impensabile: per ognuno di tali elementi esistono molteplici eccezioni), ma, comunque, le riscontreremo in una quantità percentualmente maggioritaria di casi.
Ecco… nell’album “Nistri-Panichi” non c’è sezione ritmica basso/batteria; le chitarre sono presenti soltanto nella metà dei brani; non ci sono format “canzone” né voci, eccetera. Credo dunque che, secondo criteri oggettivamente “maggioritari”, non sia un album definibile come “rock”. Caso mai, può risultare più prossimo ad altre “etichette” (musica da camera, colonne sonore, elettronica, sperimentazione elettroacustica ecc)
A livello soggettivo, invece, il discorso può essere differente. In un ambito come il rock, che ha così tanta storia alle spalle, e così tante sfaccettature, i criteri identificativi soggettivi possono cambiare molto da persona a persona, a seconda delle sensibilità e dei focus individuali.
Io personalmente ho sempre associato la parola “rock” non tanto a determinati stilemi e sonorità, quanto ad una determinata “attitudine”, fatta di emotività intensa e apertamente esternata, spesso congiunta ad una “fisicità” altrettanto apertamente manifestata.
Certo, anche a questa mia visione ostano svariate eccezioni. Diciamo però che riscontro questa attitudine nella quantità percentuale più rilevante di album ed artisti che, dentro di me, io percepisco istintivamente come “rock”.
E allora, io credo che, proprio sotto un profilo di “attitudine”, il cuore dell’album “Nistri-Panichi” possa essere “rock”. E’ musica di idee e di ricerca, certo, ma che comunque nasce da carne, sangue, sentimenti forti, ferite e passioni.
Davide
Cosa seguirà?
Vittorio
Un cofanetto triplo di pura sperimentazione, che si chiamerà “Tre lati di un cerchio” ed uscirà a mio nome, ma nel quale Filippo sarà presente come collaboratore primario. (Ci sarà anche un altro dei miei miti, Claudio Milano).
Il secondo album degli Ossi, che credo sorprenderà anche chi aveva apprezzato il primo; sarà una full immersion “bigger than life” (doppio album!) nelle tante facce della psichedelia.
La rinascita di un mio vecchio progetto, la Dead Freaks Society.
La ristampa restaurata di alcuni dei miei primi lavori (anni ’80).
La partecipazione a un nuovo progetto di Vittore Baroni.
La mia prima collaborazione con Francesco Paolo Paladino.
E concerti sia per “Nistri-Panichi” (davvero una grande sfida portare questa musica sul palco!) che per Ossi, e persino per la risorgente Dead Freaks Society.
Filippo
Sto cercando di finire un lavoro che dovrebbe uscire in formato fisico, ma non so esattamente quando perché vorrei che fosse un po’ più strutturato delle cose che ho pubblicato in digitale e che sono per lo più improvvisazioni elettroacustiche. Spero di fare altra musica con Vittorio perché trovo che abbiamo capacità diverse che sono in un certo senso complementari. E poi concerti e altre cose che ancora non sono abbastanza definite da divulgarle.
Ah, poi proprio in questi giorni sto lavorando, con Maurizio della Nave, alla musica per una nuova installazione artistica di Maurizio Nannucci, che verrà presentata a il 6 Febbraio nella galleria Enrico Astuni di Bologna nell’ambito della rassegna Arte Fiera.
Davide
Grazie e à suivre…