KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Intervista con Deadburger

24 min read

SNOWDONIA PRESS RELEASE: 
Con gioia e orgoglio, Snowdonia annuncia il nuovo disco della
Deadburger Factory “La chiamata”

uscito il 20 settembre 2020

Ritorna la Deadburger Factory! Sono passati 7 anni dal cofanetto “la Fisica delle Nuvole”: pausa lunga ma iperattiva, durante la quale i membri della band hanno portato avanti innumerevoli collaborazioni (tra cui quelle snowdoniane con Maisie e Claudio Milano), dato vita a progetti nuovi di zecca (tra i quali “Ossi”, il cui album di esordio uscirà per Snowdonia a primavera 2021), e realizzato l’atteso nuovo album della Factory “La Chiamata“.
“La chiamata” è opera compiuta in sé e perfettamente fruibile anche da chi non conosce “la Fisica delle Nuvole”. Ma a coloro che hanno apprezzato l’opera precedente, farà piacere avere la conferma che questo nuovo lavoro costituisce la seconda parte del dittico, appunto, con “la Fisica della Nuvole”.
Nel booklet de “la Fisica” c’era un disegno di Paolo Bacilieri raffigurante Alice che entrava nello specchio. Nel booklet de “la Chiamata” c’è un disegno di Bacilieri con Alice che spunta fuori dall’altra parte. 
“La chiamata”, rispetto al cofanetto, è esattamente questo: “l’altro lato dello specchio”.
“La Fisica delle Nuvole” era un trip nell’inner side e per questo era in larga misura incentrato su suoni evocativi/onirici, quali viola, chitarra acustica e flauto. Persino il forno a microonde era usato con spirito astratto e “space oriented”.
“La chiamata” è un faccia a faccia con l’outer side, la realtà esterna con la quale ci scontriamo frontalmente ogni giorno. Per questo è incentrato su suoni decisamente più “materici” e concreti. Zero archi. Quasi nessuna chitarra acustica (ce n’è una solo in “Manifesto Cannibale”). E al loro posto: sax urlanti, chitarre elettriche “straight in the face”, contrabbassi percossi per far sentire bene il legno che vibra e, soprattutto, una grande onda d’urto di tamburi. Tutti i brani de “la Chiamata” sono a doppia batteria (mentre nel cofanetto delle Nuvole una buona metà dei brani era senza batteria).
Le due opere del dittico esprimono una visione anti-escapista della psichedelia e dell’arte in genere. Viaggiare dentro di sé non per fuggire dal reale, ma per riattivare le sinapsi assopite. Così da tornare poi ad affrontare, con maggiore lucidità e determinazione, i mille ostacoli che la vita pone davanti a ciascuno di noi.
Ci sono ovviamente tutti i membri storici dei Deadburger: Vittorio Nistri (tastiere, elettronica, filtraggi, arrangiamenti, testi), Simone Tilli (voce e strumenti vari), Alessandro Casini (chitarra), Carlo Sciannameo (basso elettrico). C’è poi un parterre batteristico incredibile. Non ci viene in mente alcun altro disco con tante meravigliose bacchette riunite insieme: Zeno De Rossi, Cristiano Calcagnile, Bruno Dorella, Simone Vassallo, Marco Zaninello e tutti e tre i batteristi della discografia Deadburger: Silvio Brambilla, Lorenzo Moretto e Pino Gulli. E inoltre: la grande performance “sciamanica” di Alfio Antico su “Tamburo sei pazzo”; le emozionanti voci di Lalli (ex Franti), Cinzia La Fauci dei Maisie e Davide Riccio – oltre che ovviamente Simone Tilli – riunite nel medesimo brano (“Blu quasi trasparente”); l’inedita accoppiata tra le finezze dei fiati di Enrico Gabrielli e l’urlo del sax di Edoardo Marraffa; il contrabbasso di Silva Bolognesi (membro del leggendario Art Esemble of Chicago).
La presenza di numerosi jazzisti (Cristiano Calcagnile, Zeno De Rossi, Silva Bolognesi, Edoardo Marraffa) non è casuale: la Factory ha voluto sperimentare un approccio differente alla materia rock, ricercando una osmosi tra “quadratura” e “fluidità”, così come tra composizione e improvvisazione.

Precedenti interviste:

https://kultunderground.org/art/18009/
https://kultunderground.org/art/620/

Intervista (con Vittorio Nistri)

Davide

Ciao Vittorio e ben tornato su Kult Underground. Cominciamo dal titolo: la chiamata, dunque una convocazione a raccolta, un invito a presentarsi o cos’altro, e perché?

Vittorio

È un’evocazione e un’invocazione. Lo sciamano nel centro commerciale cerca di evocare un cambiamento. Io, che sciamano non sono, posso solo invocarlo. 
Mi ritrovo sempre più spesso dissintonizzato con ciò che mi circonda. Sotto tanti aspetti, che ritengo siano in qualche modo collegati tra di loro. Ne menziono alcuni: il costante aumento delle disuguaglianze; la scomparsa del sentire collettivo, sostituito dal ripiegamento ossessivo e totalizzante nella dimensione dell’io; l’intolleranza nei confronti del diverso da sé; il consumo bulimico di input che preclude ogni approfondimento; lo smantellamento delle conquiste sociali del ‘900; la rassegnazione ad uno status quo sempre più penalizzante, “compensata” dal riversare la propria frustrazione verso cose che con essa non hanno niente a che fare, ecc ecc. 
Queste dinamiche oggi sembrano invincibili, ma non è detto; nessuno conosce il futuro. Lo sciamano chiama a raccolta chi si ostina a credere nella necessità di opporsi a questa deriva, foss’anche solo nel piccolo della sua esistenza quotidiana.

Davide

“La chiamata” ha avuto un lunga gestazione e vi ha visto girare anche per diverse città italiane, dove avete incontrato svariati artisti che vi hanno partecipato, trovandovi in diversi studi di registrazione… Grandi arrangiamenti, una cura del suono e di ogni particolare davvero rari a trovarsi tanto nell’underground quanto nelle produzioni delle cosiddette majors. Ho letto tutte ottime recensioni e con il massimo dei voti da Blow Up a Buscadero ecc. Ma forse c’è stato anche un ritardo nella sua conclusione dovuta al periodo terribile che abbiamo dovuto attraversare quest’anno. Quando avete iniziato e da quali idee verso quali altre createsi in itinere?

Vittorio

Le registrazioni sono cominciate nel 2015 ed i mixaggi sono stati ultimati nel gennaio 2020. Dunque, il lungo iato temporale tra ‘La Fisica delle Nuvole’ e ‘La Chiamata’ dipende solo in piccola parte dalla pandemia (il primo lockdown ci ha indotti a posticipare l’uscita di sei mesi). È stata proprio la lavorazione de ‘La chiamata’ a richiedere tanto tempo. 
Le ragioni di una simile tempistica – lunga, lunghissima, quasi infinita – sono molteplici. Per cominciare: la complessità intrinseca di un progetto così profondamente collettivo, con un gran numero di musicisti coinvolti. Che non è stato uno sfizio, bensì un elemento essenziale, essendo lo spirito di collettività un presupposto anche ideologico di questo lavoro. 
Altre ragioni sono di tipo personale. La principale è che nessuno dei Deadburger vive di musica. Abbiamo tutti altri lavori “sostentatori”. Il che comporta aspetti positivi (puoi fare esattamente la musica in cui credi, senza compromessi ‘alimentari’; e puoi permetterti artwork impegnativi, anche se “si mangiano’ il guadagno delle vendite), ma anche un evidente aspetto negativo: se la giornata ha solo 24 ore, e 8/10 di esse se ne vanno per un’altra attività, i tempi di realizzazione dei progetti musicali giocoforza si dilatano. 
A dilatarli ancora di più, sono sopraggiunti per noi problemi logistici non indifferenti. Vuoi perché la vita ci ha sparpagliati in tante città differenti, vuoi perché alcuni membri hanno dovuto cessare la collaborazione continuativa per altre priorità… sta di fatto che, dopo ‘La Fisica delle Nuvole’, è diventato quasi impossibile per i Deadburger ritrovarsi con regolarità. 
C’è inoltre il fatto che tutti i membri dei Deadburger hanno anche altri progetti in corso. Il fatto di non vivere di musica ci consente il lusso di poter mandare avanti, in contemporanea, una pluralità di situazioni musicali, che rispondono a differenti interessi musicali ed esigenze emozionali. Per esempio, durante la lavorazione de ‘La Chiamata’. Io e Simone Tilli abbiamo portato avanti un nuovo e imminente progetto, di nome OSSI, che sarà completamente differente da Deadburger. Simone inoltre ha portato avanti altri due gruppi, Gualty e Le Jardin Des Bruits. Mentre io sto realizzando un disco solo strumentale in duo con lo sperimentatore fiorentino Filippo Panichi, sto restaurando i vecchi nastri della mia principale band degli anni ’80 in vista di una ristampa su cd a cura di Spittle Records, e ho la fortuna e il piacere di collaborare con artisti che stimo molto, come Maisie, Claudio Milano (Nickelodeon/InSonar), Forbici di Manitù. 
È inevitabile che, con tanta carne al fuoco contemporaneamente, i tempi di preparazione si allunghino. Personalmente, non vedo ragione di “correre”: il mondo gira benissimo anche senza miei nuovi dischi. L’importante per me è che, quando arrivo a pubblicarne uno, io senta che esso è arrivato al giusto stadio di maturazione, Ed io sia convinto di avere dato il massimo che le mie capacità mi consentono. 

Davide

Nel libricino allegato hai scritto alcune riflessioni sulla fine delle ribellioni e delle rivoluzioni, specialmente in Europa… Come già spiegato, il disco ruota intorno ai tamburi, alle percussioni (e tra l’altro, un tempo, si chiamava a raccolta con le campane o proprio con un rullo di tamburo)… Le percussioni servono a richiamare alla realtà, dunque, a risvegliarci magari da un qualche lungo sonno?

Vittorio

La tua domanda, Davide, centra in pieno il cuore dell’album. Si, il tamburo è il suono delle rivolte (e dunque, del cambiamento; perché  ogni cambiamento – anche quelli nel nostro modo di pensare – è una rivoluzione). Ed è altresì il suono delle adunate; e dunque, delle lotte collettive (in antitesi allo spirito “ognuno-per-sé” che in questo momento storico sembra preponderante nell’Occidente). 
Quanto al lungo sonno dal quale il tamburo dello sciamano vorrebbe svegliarci… coincide, secondo me, con il processo di spoliticizzazione delle masse, che è iniziato nella seconda metà degli anni ’70, e continua ad espandersi tuttora. Nell’ultimo Poor Robot’s Almanack contenuto nel libretto de ‘La Chiamata’, c’è una sezione in cui ho cercato di argomentare questa mia convinzione. Copio e incollo qua di seguito:
“Il vostro Indiana RobotJones ha scoperto che questo processo era stato profetizzato, con grande precisione, in un antico documento oggi dimenticato. Dei Maya? Di Nostradamus? Macché, quelli erano dilettanti. Sono profeti ben più affidabili i membri della Commissione Trilaterale. Che non è una setta inventata da Dan Brown, ma una associazione privata fondata nel 1973 da David Rockfeller, e da allora costantemente attiva. 
La Commissione Trilaterale riunisce un selezionato gruppo di personaggi particolarmente influenti – industriali, banchieri, economisti, politici, CEO di multinazionali, esponenti di media e università ecc – provenienti da Nordamerica, Europa ed Asia. Una moderna oligarchia finanziaria transnazionale, in grado di influenzare in direzione ultraliberista le scelte di molti governi.
Da anni la Commissione è prudente nelle esternazioni pubbliche, ma agli inizi era più esplicita. Nel 1975 pubblicò uno studio intitolato ‘La crisi della democrazia’ (edito anche in Italia, con prefazione di Gianni Agnelli). I problemi di governabilità – diceva quello studio – ‘nascono da un eccesso di democrazia’:  andare incontro alle richieste dei lavoratori non era la strada giusta per la stabilità. 
Al conseguimento di un qualunque miglioramento della propria condizione, i lavoratori non si sarebbero acquietati, bensì avrebbero alzato l’asticella, chiedendo miglioramenti ulteriori. Il che era inconciliabile con il capitalismo, che, in modo speculare, non può mai accontentarsi dei profitti raggiunti. L’escalation delle domande sociali collettive andava dunque soffocata. Come? Non con la repressione, che può rinvigorire le proteste, bensì – ed è qui che la Tricamerale ha davvero visto il futuro – ‘con strategie tendenti alla spoliticizzazione delle popolazioni’. 
I lavoratori possono raggiungere i loro obiettivi solo in una dimensione collettiva. Occorreva minare questa dimensione. Farli sentire non più membri di una classe sociale, bensì niente più che individui.
Lo studio raccomandava che, man mano che il processo di spoliticizzazione avesse conseguito risultati, di pari passo si procedesse al rafforzamento dei poteri autoritari dei governi e delle imprese. En plein, hanno indovinato pure questa!
Il processo di spoliticizzazione ha avuto centinaia di facce. Il riflusso nel privato reso glamorous dai media (la giacca bianca di Tony Manero si mangiava l’eskimo in un boccone). La Thatcher che dichiarava di voler ‘rompere la colonna vertebrale dei sindacati’ e che ‘non esiste la società, esistono solo gli individui e le loro famiglie’. L’edonismo reaganiano e le sue varianti italiche di breve (paninari) o lunga durata (berlusconesimo). Il diritto di sciopero progressivamente vanificato da: diminuzione del numero di lavoratori (effetto in primo luogo della delocalizzazione delle imprese), ammissione generalizzata di forme di lavoro a tempo parziale e/o ‘in prova’, facilitazione dei licenziamenti. Il martellante elogio mediatico della competitività individualista (come nei reality show: coinquilini, amici  e amanti che, per affermarsi, devono eliminarsi l’un l’altro). L’egoriferimento ossessivo dei social. La disincentivazione alla riflessione e all’approfondimento critico (si pensi alla progressiva diminuzione degli investimenti nel sistema scolastico; alla crescente pervasività dei mezzi di ‘distrazione di massa’; alla supremazia, nella comunicazione social, della velocità sulla ponderazione; alla costante denigrazione della cultura, mitizzata al negativo come appannaggio di poseurs e ‘radical chic’, oltre che come qualcosa con cui ‘non si mangia’). Ecc ecc – chiunque voglia, può continuare da solo l’elenco”.

Davide

Un altro scritto hai dedicato alla storia dello sciamanesimo e del ruolo che i tamburi hanno in alcune pratiche religiose o magico-rituali primitive, in cui ho letto che percussioni e voce sono state le due gamme primigenie di eventi musicali (questo soprattutto al riguardo del brano “Tryptich”, una vostra rivisitazione della musica di Max Roach per sola batteria e la voce di Abbey Lincoln). Che significato ha avuto per voi questo tipo di esplorazione verso forme primigenie del fare suono, musica, canto?

Vittorio

La voce umana è stata sicuramente il primo strumento musicale dell’umanità. Le percussioni, il secondo (fatte con il proprio corpo – mani, piedi – o con oggetti di immediata reperibilità: pietre, bastoni, ossi). Ancora oggi i bambini, fin da piccoli, sono attratti dal canto, dai sonagli, dai ritmi elementari; è un retaggio del nostro passato remoto di specie (esattamente come, per fare un esempio del tutto diverso, l’inquietudine per il buio, che trova la sua genesi nel timore per gli attacchi dei predatori notturni). 
Inevitabile che canto e percussioni fossero i suoni dominanti nelle pratiche rituali primitive. E di conseguenza, nello sciamanesimo, che da quelle, pur attraverso mille contaminazioni, discende.
Il nostro album ‘sciamanico’, dunque, non poteva che avere un focus particolare su voce e percussioni. Per queste ultime, abbiamo la presenza di otto batteristi (e un poeta del tamburo, Alfio Antico). Tutti i brani sono a doppia batteria. Per quanto riguarda la voce… Simone Tilli, secondo me, in questo lavoro si è proprio superato, non aveva mai cantato così. Ed è una ‘dichiarazione di intenti’ l’utilizzo, nel brano conclusivo ‘Blu quasi trasparente’, di quattro voci tanto diverse, eppure così meravigliosamente ‘in squadra’ tra di loro.
Vorrei tornare un attimo sul discorso ‘percussioni’, perché al riguardo l’album presenta una peculiarità che non mi è mai capitato di raccontare in altre interviste. Lo faccio volentieri adesso per la prima volta con Kult. La peculiarità è che, benché il vasto apparato percussivo presente nell’album sia stato interamente composto da strumenti acustici… e le esecuzioni siano state tutte rigorosamente umane, “fatte a mano”, con braccia gambe pelli e fusti… ciò nonostante,  le performances batteristiche  del disco non sarebbero state le stesse senza l’elettronica. In questo il disco è coerente col fatto che, anche se ormai non ce ne accorgiamo nemmeno più, la tecnologia digitale è entrata a far parte di quasi ogni aspetto della nostra esistenza.
In concreto, l’iter operativo è stato il seguente: per ogni brano, una volta selezionate le tracce di batteria migliori, ho ingrandito i files, e ne ho esaminato, colpo per colpo, le componenti. Là dove i colpi dei due batteristi cadevano in punti diversi della figura ritmica, non ho toccato niente. Là dove invece cadevano su un medesimo punto del pattern, generando un flam (sfasamento sia pure lieve tra i due colpi all’unisono), sono intervenuto, prendendo per guida il colpo di uno dei batteristi, e allineando ad esso quello dell’altro (tramite tagli e microspostamenti, effettuati via editing digitale), così da far coincidere al millisecondo i due colpi. 
Questa metodologia mi ha richiesto decine e decine di ore per ogni brano, ma il risultato mi piace molto; le esecuzioni sono rimaste pienamente “naturali” (senza quantizzazioni meccaniche, e rispettando al 100% il tocco, l’estro e la personalità di ciascun batterista), ma, allo stesso tempo, l’interplay tra i due batteristi ha acquisito una nitidezza, una ‘leggibilità’, una brillantezza e una potenza maggiori rispetto alle tracce originarie. 
La tecnologia digitale è stata utilizzata con spirito umanista, per “portare oltre” le performances ma senza snaturarne l’umanità. 

Davide

Gli sciamani cercavano (e cercano, perché ne esistono ancora, e penso al povero Gabyshev) di risolvere problemi del mondo naturale attraverso il contatto con il soprannaturale. La musica può servire a metterci in contatto, seppure attraverso i sensi, con il soprasensibile, quindi con forme di conoscenza non altrimenti raggiungibili? 

Vittorio

Mi piacerebbe pensare che sia così, ma la mia natura agnostica mi preclude la percezione di realtà soprasensibili (non per mia scelta; ci ho molto provato, soprattutto da ragazzo, ma evidentemente non sono portato alla trascendenza). 
Tuttavia, anche se non riesce a connettermi con ‘l’armonia delle sfere’, o con il Creatore, o altre ‘verità superiori’, sono comunque convinto che la musica abbia il potere di aiutarci a comprendere meglio le nostre verità interiori, anche quelle più recondite. E che possa aiutarci a “sentire’ più intensamente l’esistenza, e a renderci più empatici verso gli altri. In definitiva, a renderci esseri umani migliori.  
In quest’ottica, non posso che concordare con la definizione che il poeta Walt Whitman dette della musica. “niente di più spirituale, niente di più sensuale: una divinità, ma del tutto umana”.

Davide

E, se non a risolvere i problemi, la musica serve a darci una mano nell’affrontarli? Pare che il famoso “effetto Mozart” cosiddetto non sia altro che l’effetto della musica ha di azionare i geni che sovrintendono alla formazione delle sinapsi, cioè dei collegamenti tra i neuroni del cervello. A essere sollecitati, secondo uno studio di una università del Wisconsin, sarebbero in particolare il gene responsabile della crescita neurale BDNF e del gene che produce la sinapsina. O solo certa musica piuttosto che altra?

Vittorio

Già, l’effetto Mozart! Ne avevo letto tanti anni fa, mi sembra su Focus, poi mi era uscito di mente. Quando ho letto la tua domanda, sono andato a rinfrescarmi la memoria in rete. Un esperimento degli anni ’90, in cui vennero sottoposti problemi di logica astratta ad un gruppo di studenti … riscontrando che erano più brillanti nel risolverli, dopo l’ascolto di una sonata per due pianoforti di Mozart. 
Non c’è dubbio che l’arte (…tutta l’arte: Mozart non ha il copyright!) stimoli una varietà di reazioni neurobiologiche nel cervello di chi ne gode. Sempre negli anni ’90, acquistai e lessi un paio di libri sull’argomento “cervello”, stimolato dal fatto che in quel periodo stavo lavorando al disco di esordio dei Deadburger, che aveva come immagine-simbolo, appunto, un cervello umano – l’oggetto più complesso dell’universo. Uno di quei libri si chiamava “Arte e cervello”, faceva parte della collana “Nuovi classici della scienza” edita dalla Zanichelli, e indagava la molteplicità di meccanismi cerebrali correlati alla fruizione di opere d’arte visive.
Da allora non ho letto altri libri sull’argomento, ma occasionalmente mi è capitato di imbattermi, in rete o su una rivista, in qualche nuova notizia al riguardo. Ho appreso così di una ricerca del 2015, che ho riportato nel libretto de ‘La Chiamata’ in quanto perfettamente pertinente al tema sciamanico dell’album. Era una ricerca ad opera del Martinos Center del Massachusetts General Hospital, che aveva sottoposto a tomografia a risonanza magnetica 15 sciamani, durante i loro stati di trance… rilevando un decremento di attività nelle connessioni cerebrali che regolano i processi auditivi, e un contemporaneo incremento di attività nelle regioni preposte all’introspezione cognitiva. 
In parole povere: meno lo sciamano ascolta l’ambiente esterno, e più profonda è la trance. I  tamburi (ma anche i rave!) sono funzionali alla trance proprio perché li si può facilmente ignorare. La loro ripetitività li rende così “prevedibili” da richiedere pochissimo lavoro di elaborazione da parte del cervello.     
Tornando specificamente alla tua domanda: si, credo che la musica possa stimolare le capacità cognitive, e pure la consapevolezza, l’empatia, la disponibilità all’intuizione, ecc. Tutte queste cose possono essere d’aiuto nell’affrontare i problemi della vita, anche se in misura e modi differenti da persona a persona; sul tipo di reazione stimolata, e sulle tipologie di musica che la possono generare, entrano sicuramente in gioco molte variabili individuali ed ambientali. 
Detto questo, confesso che non amo pensare alle emozioni umane (il piacere ricevuto dall’arte, l’amore, l’amicizia, la disponibilità verso gli altri, la morale, ecc) in termini di meccanismi neurobiologici. Più che effetto di sinapsi, neurotrasmettitori, geni, proteine e simili, mi piace pensare che le nostre reazioni emotive siano, almeno in parte, frutto di qualcosa che la scienza non potrà mai spiegare al 100%. Qualcosa che chiamo volentieri ‘anima’. Benché da agnostico io non abbia alcuna certezza al riguardo, mi piace sperare che esista, e cerco di comportarmi come se esistesse.

Davide

Dalla trance estatica degli sciamani alla transestetica… L’arte, secondo Lipovetsky e Serroy, è stata ormai integrata all’interno dell’universo consumista, e i fenomeni estetici sono ormai inseriti nei mondi della produzione, della commercializzazione e della comunicazione, comportando una combinazione e un rimescolamento degli ambiti e dei generi che si diffonde a tutti gli strati sociali. Ne L’evidenza del male, Jean Baudrillard ha dichiarato che l’arte si è infine diffusa in tutte le sfere dell’esistenza e della società, da una parte realizzando i sogni dell’avanguardia artistica di pervadere la vita; ma dall’altra, con la concretizzazione dell’arte nella quotidianità, l’arte stessa, in quanto fenomeno separato e trascendente, è scomparsa. Baudrillard definiva tutto ciò “transestetica”, collegandola a fenomeni analoghi di “transpolitica”, di “transessualità” o di “transeconomia”, nei quali tutto diventa  politico, sessuale ed economico, cosicché questi domini, come per l’arte, perdono di specificità. Il risultato  è una condizione confusa in cui non ci sono più criteri di valore, di giudizio, o di gusto. Cosa ne pensi?

Vittorio

Spero di non deluderti, ma confesso di non aver mai letto testi né di Baudrillard, né di Lipovetsky e Serroy. Non conosco dunque le considerazioni che hanno addotto a sostegno delle tesi che mi citi. Provo comunque a rispondere ‘a braccio’ alla tua domanda.  
Certamente l’arte non è più un “fenomeno separato e trascendente” rispetto alle masse; già negli anni trenta del secolo scorso Walter Benjamin aveva rilevato che l’opera d’arte, entrando nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, aveva perso l’aura di oggetto unico, e dunque riservato a pochi. Ma non mi sembra che ciò abbia portato alla “scomparsa dell’arte”; caso mai, alla nascita di nuove forme d’arte, quale il cinema. 
E similmente, è senz’altro vero che elementi “estetici” – e dunque, “artistici”, almeno in senso lato (spesso mooolto lato…) – sono presenti in gran parte sia dei prodotti che consumiamo, sia delle correnti modalità di comunicazione. Ma non per questo mi sembra che si sia giunti ad “una condizione confusa in cui non ci sono più criteri di valore, di giudizio, o di gusto”.
Probabilmente pecco di ingenuità o ignoranza (non sono un filosofo né un sociologo, non ho fatto studi artistici, sono un semplice musicista e appassionato di arte), ma per me sussistono differenze ben evidenti – nelle finalità, nel grado di ricerca, nello spessore emozionale, ecc – tra determinate opere e determinate altre. Affermare che tutto sia equivalente, in quanto tutto ormai integrato nell’universo consumista, mi sembra uno di quei sofismi che si possono sostenere per ragioni a volte encomiabili (es: analizzare le trasformazioni sociali in corso, ricorrendo deliberatamente a estremizzazioni e paradossi per chiarezza esplicativa) e a volte autoreferenziali (il compiacimento per le proprie capacità di speculazione intellettuale; il piacere di sentirsi controcorrente). Ma personalmente non dubito che esistano ancora, eccome, criteri di valore/giudizio/gusto per distinguere David Bowie da Achille Lauro, Fiona Apple da Kate Perry, Mat Gustafsson da Kamasi Washington, Ciro Guerra da Guy Ritchie, Ken Loach da Eli Roth, Antonio Moresco da Federico Moccia, l’erotismo di Gauguin da quello della pubblicità Nuvemia, e così via. 
Ognuno degli esempi che ho fatto ha il suo perché, i suoi legittimi obiettivi, e i suoi estimatori. Ma non direi che siano confondibili, e io so per certo chi di loro risponde al mio gusto e alla mia idea di bellezza. 

Davide

Se “La chiamata” è da considerarsi un dittico insieme “Alla fisica delle nuvole”, Alice che entra nello specchio da una parte e dall’altra Alice che esce altrove (ritrovandosi in uno shopping mall?), cosa rappresentano allora Alice, lo specchio, quel che ha lasciato e quel vi ha trovato dopo? Quale senso o nonsenso? E in quanto dittico, qual è la cerniera “ideale” che lega, apre e richiude le due “tavole”?

Vittorio

Alice non lascia un lato dello specchio per l’altro; porta sempre con sé entrambi. Lo specchio è la vita di chiunque, con un lato rivolto al proprio mondo interiore e l’altro alla realtà esterna. 
La cerniera è tutto ciò che può consentire ai due lati di “stare insieme”, cioè di interagire proficuamente. Sono convinto che anche la musica possa avere questo potere. 
Mentre si affaccia dall’altro lato dello specchio, l’Alice disegnata da Bacilieri scruta l’orizzonte: sta cercando qualcosa. Quel qualcosa lo si intravede riflesso nello specchio. Sono gli ectoplasmi (per il momento, rosati… ma forse, crescendo, diventeranno rossi) che Bacilieri ha usato come simbolo per il cambiamento evocato dallo sciamano.
E se per caso, dall’altro lato dello specchio, Alice si ritrovasse in uno shopping mall? Magari comprerà poco o niente (come poco o niente acquista da Amazon, salvo problemi logistici insormontabili), perché preferisce dare il suo contributo a tenere in vita i negozi di quartiere. Battaglia già persa? Può darsi, ma intanto ci prova, poi si vedrà.
E se invece Alice si ritrovasse nel suo luogo di lavoro? Magari, se ne avrà la possibilità, proverà a portare uno spirito diverso: di squadra, collaborativo, di aiuto reciproco, anche “di classe”, invece che “ognun per sé e tutti contro tutti”.
Dovunque sbucherà, Alice cercherà di fare, per ciò in cui crede, quel poco o tanto che le sarà possibile. C’è osmosi tra i due lati del suo specchio.

Davide

In quest’epoca di musica smaterializzata avete fatto uno sforzo davvero notevole e apprezzabile nel creare un packaging importante con un libretto illustrato di quasi 70 pagine. Un messaggio chiaro e forte contro la musica usa e getta?

Vittorio

Più che altro, contro l’eccesso di virtualizzazione nelle nostre esistenze, e contro il culto della velocità vista come valore assoluto. 
Non sono un luddista antitecnologico, il computer mi è di grande aiuto sia per la mia musica sia per il mio lavoro extramusicale, ma rimango convinto che, in tanti aspetti dell’esistenza, le cose reali siano assai preferibili al loro equivalente elettronico. Per fare qualche esempio tra i molti possibili: un milione di status ‘protestari’ sui social, o di clic su petizioni on line, otterrà sempre infinitamente meno che centomila persone in piazza (o anche solo diecimila in sciopero). Le amicizie virtuali a volte sono molto belle, ma difficilmente possono essere complete come quelle con gli amici in carne e ossa. La lettura di un libro ha più chance di aprirci la mente rispetto alla lettura del suo riassunto su Wikipedia. Eccetera.
Lo stesso discorso vale per la musica: acquistare un disco fisico… accompagnare il primo ascolto con la visione dell’artwork, e/o la lettura dei testi e dei credits… riporre l’album in uno scaffale, seguendo il proprio personale criterio (alfabetico, cronologico, di genere)… sono cose che creano un rapporto intimo tra l’ascoltatore e l’opera ascoltata, di gran lunga più intenso rispetto a un pugno di files digitali stipati insieme a millemila altri nella memoria di un cellulare o di un hard disk. 
Ovviamente l’acquisto dei dischi ha un costo che per alcuni può costituire un impedimento oggettivo. Ma molti di coloro che non acquistano dischi avrebbero i mezzi economici per farlo, se  lo volessero; la semplice verità è che non glie ne può importare di meno.
La cura enorme che i Deadburger riversano sull’artwork e sul packaging è prima di tutto un modo per dire “grazie” a coloro che ancora si ostinano ad acquistare album sotto forma di supporti fisici, supportando gli artisti, e dimostrando di continuare ad attribuire importanza alla musica. Mi sembra cosa buona e giusta cercare di dare loro qualcosa che sia bello non solo da ascoltare, ma anche da guardare, tenere in mano, leggere, riporre sullo scaffale.
Quanto ai booklet dei dischi Deadburger… sono concepiti come veri e propri libri. Apportano  tutta una serie di stimoli ulteriori, che vanno a interagire con quelli delle canzoni, in un gioco di scambi e arricchimenti reciproci. È un modo per consentire, a chi fosse interessato a questo, un approccio più approfondito all’album e a quel che c’è dietro di esso.
Sono consapevole che è sempre più difficile trovare tempo e voglia per gli approfondimenti di qualunque tipo. Corriamo sempre tanto. Siamo costantemente sommersi sia da cose da fare sia da sequenze infinite di stimoli apportati dalla nostra connessione perenne. E viviamo un’epoca in cui la velocità è considerata un valore a prescindere (come nei social, dove conta più l’immediatezza della reazione che non la sua ponderatezza).  
Anche io devo correre molto, per necessità più che per scelta… ma, quando posso, amo decelerare, e soffermarmi un po’ di più su qualcosa. Spero possa essere lo stesso anche per qualche ascoltatore dei Deadburger.

Davide

Secondo te qual è lo stato di salute attuale della scena underground italiana?

Vittorio

C’è chi sostiene che la nostra scena sia in fase di decadenza, adducendo come prova la ‘leggerezza’ e l’autoreferenzialità di gran parte dell’attuale “indiepop” italico. A me pare che questo giudizio sia frutto di un equivoco lessicale: quel tipo di indiepop non è, e non vuole essere, “indie”, nel senso con cui questo termine veniva inteso in passato. Non vuole cioè essere “altro” rispetto alle proposte delle major, ma fargli concorrenza sul loro stesso terreno. Ambisce alla immediata presa radiofonica, esattamente come la musica cosiddetta mainstream, 
È una scelta totalmente lecita, e che richiede anch’essa talento; è però un mondo che non seguo, perché non mi può piacere tutto, i miei gusti sono altri.
Sgombrato il campo dall’equivoco di cui sopra, direi che in Italia c’è una scena autenticamente underground che gode di eccellente salute artistica. Penso ad etichette come Snowdonia  (che solo nel 2020 ha pubblicato ottimi album di Mangiatutto, Roger Rossini, Odla; sono onorato che i Deadburger facciano parte di questa famiglia) e Setola di Maiale (suo uno dei dischi “avant” più belli del 2020, “Celante” di Patrizia Oliva). E penso a sperimentatori come Claudio Milano, Luca Collivasone, Caterina Barbieri, Machweo; a psychobardi come Trip Hill, Lay Llamas, In Zaire, King of the Opera; all’art-rock (e/o art-songwriting) di Iosonouncane, Maisie, Bachi da pietra, Oteme, Forbici di Manitù, Mariposa; ad ingegni multiformi che fanno mille cose diverse e tutte bene, come Bruno Dorella e Samuele Venturin; a nuovi scintillanti talenti, giovani e originali, come Any Other e i So Beast. Ma anche ad alfieri storici della canzone d’autore tuttora ispiratissimi, come Cesare Basile, Paolo Benvegnù, Alessandro Fiori, Marco Parente, Andrea Tich, il duo Lalli/Risso, che con gli artisti underground hanno in comune lo spirito creativo, il rifiuto dei luoghi comuni del mainstream,  l’attitudine alla ricerca.
All’ottima salute artistica del nostro underground si accompagna purtroppo una pessima salute economica, ma questo non è un problema solo italiano. Il progressivo crollo delle vendite dei supporti fisici ha colpito ovunque, e ovunque ha creato maggiori difficoltà alle realtà underground che non a quelle mainstream, per l‘ovvia ragione che le prime partivano già da numeri inferiori. La pandemia ha esasperato tali difficoltà, impedendo l’attività concertistica, che per molti musicisti underground era rimasta l’unica vera fonte di reddito.
Di fronte al calo delle vendite dei supporti, c’è chi ha cercato di reagire inventandosi format fruibili solo su abbonamento (la collana “19:40″ di Enrico Gabrielli e Sebastiano De Gennaro;  l’iniziativa “Fuori di Testo” di Giovanni Succi). Chi ha provato a raggiungere bacini di pubblico più ampi, con progressivi aggiustamenti di tiro nella propria musica e/o nelle strategie di promozione (gli Zen Circus in questo hanno centrato l’obiettivo). Chi, come i C+C Maxigross, ha per la prima volta deciso di pubblicare un nuovo album solo in digitale, e solo su Bandcamp, e senza possibilità di ascolto preventivo, chiarendo le ragioni di tale scelta in un comunicato (del quale accludo il link: http://www.ccmaxigross.com/sale-disco) che spiega, con grande sincerità e chiarezza, il quadro dei meccanismi economici con cui l’underground deve fare i conti; a partire dalla sostanziale inesistenza di ritorni per gli artisti dai servizi di streaming a pagamento quali Spotify (definiti “perfetto esempio di sistema anti-musica” e “sfruttamento legalizzato”). 
Spero che a breve i concerti tornino ad essere consentiti. Per molti ciò significherà, finalmente, un po’ di ossigeno. Tuttavia, ragionando sul medio-lungo termine, mi è difficile essere ottimista per le proposte sperimentali. Temo che avranno sempre meno ritorni non solo come vendita di album, ma anche come concerti. Questo perché la fruizione della musica in rete, basata (almeno nella maggior parte dei casi) su gratuità e velocità, favorisce un approccio del tipo “…se una cosa non mi piace subito, interrompo l’ascolto e passo a qualcos’altro”; approccio poco congeniale alle proposte musicali che richiedono ascolti più attenti, e possibilmente ripetuti.

Davide

Cosa seguirà?

Vittorio

Dopo aver tanto lavorato ai Deadburger, mi sto adesso dedicando a terminare altri progetti che sono in gestazione da tempo. Le mie prossime uscite discografiche dovrebbero essere, salvo imprevisti, l’album di esordio di Ossi, l’album in duo con Filippo Panichi, e la ristampa restaurata degli Overload. 

Davide

Grazie (anche per avermi ospitato nella traccia finale) e à suivre…

Commenta