“Comincio a credere che l’arte per l’arte sia una gran frottola[1]”; così scriveva Paul Cézanne nel 1866 al suo amico intimo, Emile Zola.
Contro l’Estetismo e il Dandismo puro di chi inseguiva l’utopico, narcisistico e vano tentativo di rendere la propria vita un’opera d’arte, l’artista francese affidava all’amico scrittore una profonda verità: l’arte ridotta al mero compito di prolificare se stessa diventa soltanto una grande menzogna.
L’artista non deve perseguire il Bello per amore del Bello, ma dev’essere mosso dall’Amore per la Verità; un quadro non deve semplicemente provocare all’osservatore piacere estetico, ma instaurare con lui un dialogo. Da rappresentazione deve diventare realtà, da dipinto filosofia.
Ma dove è possibile trovare questa fuggevole Verità, come la si può ritrarre per affidarla agl’occhi dell’osservatore?
La risposta di Cézanne è semplice, ma meditata: nella Natura.
“Usciamo a studiare la bella natura, cerchiamo di liberare lo spirito e di esprimerci secondo il nostro temperamento personale. Del resto, il tempo e la riflessione modificano a poco a poco la visione, e infine giunge la comprensione”[2].
Essa non si trova nella metafisica, nella teologia o in un mondo al di là della nostra cognizione, ma sotto i nostri occhi. Eppure ciò non la rende semplice da comprendere, tutt’altro; soltanto agl’occhi d’uno sguardo attento e paziente la Verità si disvela.
Per questo motivo i soggetti nella pittura di Cézanne sono estremamente semplici; ritratti, scene familiari, mele, paesaggi. Ma su tutti, uno si ripete in maniera quasi ossessiva: “Le mont Sainte-Victorie”.
Innumerevoli nella sua produzione artistica sono le tele che rappresentano questa montagna della Provenza, tutte dipinte in quelli che furono gli ultimi anni di vita, quasi avesse compreso che la Verità si nasconde sulla cima di quella vetta e volesse affidarne ai posteri il segreto.
“Lo stesso soggetto, visto da inclinazioni differenti, offre una materia di studio così interessante e varia che credo potrei lavorare per mesi senza cambiare posto, solo inclinandomi un po’ più a destra o un po’ più a sinistra[3]”, scriveva al figlio nel 1906, ed infatti nessuno di questi dipinti è una semplice copia dell’altro, ma soltanto il cambio di inclinazione, di meteo o di luce rende ognuno di essi unico e irripetibile.
Secondo la filosofia buddhista, è possibile osservare le cose in infiniti modi differenti e questo continuo cambiamento di visuale rende ogni oggetto infinito, in perpetuo divenire.
Allo stesso modo, Cézanne comprende che lo studio della realtà dev’essere attento e meditato; non esiste un unico mont Sainte-Victoire, ma tanti quanti i mutamenti climatici, le ore del giorno, le inclinazioni dello sguardo, gli stati d’animo dell’osservatore e gli osservatori stessi. Non basta dipingere una sola rappresentazione della montagna, poiché limitandosi a questa si coglierebbe soltanto una millesima parte della Verità; al contrario, esse non sono mai abbastanza e maggiore è il loro numero, maggiore diventa la comprensione del monte, della realtà e della Verità stessa.
In questo modo, la pittura semplice di Cézanne diventa un puro messaggio spirituale, molto simile a quello che fu del Buddha duemila e cinquecento anni or sono.
A tal proposito, è possibile cogliere una strettissima affinità tra la pittura di Cézanne e una parabola riportata nel Canone Pali (la principale testimonianza delle parole di Siddharta).
Vedendo dei dotti brahmani litigare sull’Essere e sulla sua causa, Buddha li interruppe e raccontò loro di un re che fece chiamare a corte un gruppo di ciechi dalla nascita.
Il sovrano mise loro innanzi un elefante e ad ognuno di essi fece toccare una parte differente dell’animale; ad uno la proboscide, all’altro la zampa, ad un altro l’orecchio e così via.
Quando tutti ebbero toccato l’elefante, domandò loro di descriverlo e, ovviamente, ognuno ne parlò in modo differente; per il primo era come una corda, per l’altro come un vaso, per il terzo come una coperta.
Ben presto iniziarono a litigare, passando persino alle mani e il tutto davanti agli occhi divertiti del re, il quale, avendo una visione completa dell’animale, sapeva che in parte tutti avevano ragione e tutti avevano torto, poiché guidati da una visione parziale della Verità.
Lo stesso aneddoto raccontato da Buddha è messo in atto da Cézanne tramite la sua pittura.
Egli svela all’osservatore attento gli infiniti volti della realtà dietro ai quali si nascondono le porte della conoscenza; sta a noi scegliere se rimanere ciechi o diventare re.
[1] Cézanne Paul, “Lettere”, SE, Saggi e Documenti del Novecento pag. 51.
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