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Il Tema del Doppio nella Letteratura

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Il Tema del Doppio nella Letteratura

Dalla mitologia in poi il tema del doppio è sempre stato caro alla narrazione, Giano Bifronte e la doppia personalità, il protagonista e l’antagonista, il vincitore e lo sconfitto. Il tema del doppio in letteratura è ricorrente, ed offre infinite possibilità

Uno degli esempi più famosi è senz’altro quello di Stevenson, con il suo misterioso caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, ma anche Oscar Wilde affronta l’argomento se pur in maniera translata, nel ritratto di Dorian Gray. Perfino Shakespeare impernia un’intera tragedia sul tema dell’identificazione con l’altro in Lady Macbeth, mentre Mary Shelley esplora anche lei le frontiere del confronto con l’altro se stesso in Frankestein. Sono tutti diversi aspetti della medesima espressione, l’identificazione con l’altro, e la proiezione di se stessi verso un oggetto o un soggetto esterno, reale o virtuale che sia. La doppia personalità per il tenebroso Mr. Hyde, un inquietante ritratto per Dorian Gray, un complice e antagonista per Lady MacBeth e la generazione di una creatura a propria immagine e somiglianza, se pur distorta, per Frankestein. Nel 1886, epoca in cui Stevenson scrive Lo Strano Caso del Dr. Jeckill e Mr. Hyde, furoreggiavano in società e nei salotti le discussioni sulle nuove teorie evoluzionisticche propugnate da Darwin. Contemporaneamente si iniziava appena a sentir parlare dell’inconscio e di tutto il mondo sommerso nell’inconsapevolezza della mente umana, con i primi approcci alla psicanalisi di Sigmund Freud. Sembra che il giovane ed irrequieto Stevenson avesse nei suoi anni dorati frequentato i vicini ambienti malfamati dei quartieri bassi, rigorosamente in incognito, come si usava allora tra i rampolli delle famiglie bene, ed avesse veramente conosciuto nei suoi vagabondaggi notturni, tra le follie illecite della sua città natale, uno stimatissimo professionista, di giorno, che si trasformava in un losco avventuriero, di notte. E’ un poco la sintesi del falso perbenismo della società vittoriana di allora, che poi a ben pensarci non si discosta neanche molto dalla nostra mentalità odierna. Ancora adesso, in pieno XXI secolo ognuno di noi cela sotto una facciata rispettabile da esibire negli ambienti mondani, un substrato di passioni, desideri ed esigenze rigorosamente celato dietro una maschera di convenienza sociale. Stevenson enfatizza questo dualismo naturale, trasformando il lato passionale in un esasperazione quasi animalesca, e finge una scissione para-scientifica del bene dal male, operando una separazione addirittura fisica tra le due distinte personalità. La storia in breve è quella di un distinto e stimatissimo Dottore che sperimenta su se stesso gli effetti di un siero, che avrebbe come scopo appunto quello di separare le due entità, isolando e rendendo inefficace il male, a beneficio del bene. Una scoperta scientifica volta alla salvezza delll’umanità dal suo lato oscuro. Ma la strada della ricerca, si sa, è costellata da fallimenti, ed infatti questo rivoluzionario esperimento sfugge di mano al suo creatore, e la creatura “malevola” prende spesso il sopravvento, assurgendo a vita propria, e pretendendo una riconoscimento della sua autonomia. Chi è destinato a soccombere in questa lotta impari è ovviamente il Dottore, e il confronto violento tra queste due personalità, incarnate in due identità fisiche separate e distinte, campeggia come fulcro principale di tutto il romanzo. L’intuizione di Stevenson è stata proprio quella di rappresentare il lato malvagio come una persona fisica separata, e la sperimentazione scientifica gli è servita solo come alibi per realizzare uno sdoppiamento quanto più concreto possibile e come tale dunque molto più inquietante. Qui non abbiamo come in psicanalasi una proiezione mentale che opera al di fuori di se stessi, ma letteralmente una persona fisica separata, dotata di una sua propria identità anagrafica, con tanto di nome. Il sogno della creatura è quello di poter vivere liberamente le sue passioni, di dare sfogo alle inclinazioni malvagie che albergano nel suo animo senza limiti né freni. Il fatto che sia appunto una personificazione corporea, separata da quella del dottore, costituisce l’alibi vittoriano per eccellenza. Il trionfo del perbenismo dilagante, in virtù del quale la cosa fondamentale è l’apparenza, dietro cui possono essere celate ogni tipo di malefatte e nefandezze, in quella tendenza al compromesso che fu tipica dell’era vittoriana. Anche la casa del Dottor Jeckill, dotata di una facciata solida e rispettabile lato strada, offre sul retro, che affaccia su un vicolo secondario, un cortile squallido, sporco e miserevole, come una seconda natura da tenere rigorosamente nascosta. Del resto sembra davvero che allora le città fossero impregnate da questo evidente contrasto sociale, da una parte l’eccesso di ricchezza, l’alta rispettabilità e la solidità delle posizioni privilegiate, dall’altro, e spesso a pochi isolati di distanza, se non addirittura nel vicolo accanto, la miseria, la corruzione, lo sfruttamento della prostituzione, il crimine e il delitto, frequentemente impunito in quei quartieri popolosi e malfamati che furono poi teatro delle gesta criminali di Jack Lo Squartatore. Alla fine, nel romanzo, a causa di un ingrediente venuto a mancare, o mutato nella composizione, la formula chimica originaria non è più riproducibile e il Dr.Jeckill perde definitivamente il controllo sul suo alter ego, soccombendo così al suo lato oscuro, e votandosi alla morte. E’ la chiusura moralistica che Stevenson ha scelto, saggiamente, per non attirarsi le critiche della società contemporanea, come accadde invece con Oscar Wilde e il suo Dorian Gray, e per insegnare che alla fine, per dirla con Star Wars, il lato oscuro della forza predomina sempre, se gli si dà corda. E vediamo invece come Wilde affronta un analogo tema in quello che è, a ragione, considerato il capolavoro e il manifesto dell’Estetismo. Anche qui, Dorian Gray, come il Dr.Jekyll, indaga sul lato oscuro della sua anima, ma non già per sopprimerlo, piuttosto per coltivarlo, invece. Dorian Gray è malvagio, dentro, pervaso da quella malvagità perversa e affascinante, completamente incurante delle conseguenze delle sue azioni, egli ambisce a liberare le sue più infime pulsioni, riuscendo ad assicurarsi però, al contempo, l’eterna immunità. Entrambi però sono condannati alla via del non ritorno, sebbene in Wilde il moralismo occulto sia talmente latente da non essere quasi rilevato, tanto da attirargli le ire della critica e della società contemporanea. Mentre il povero Dr. Jeckill, dopo il barbaro omicidio di Sir Danvers Carew, non può più tornare dentro se stesso, ed è condannato a morire, seppellito e perduto per sempre nella contrapposta identità fittizia di Mr. Hyde, Dorian Gray invece non lotta, ma si compiace del suo lato malvagio, si compenetra della sua efferatezza, si impregna nel male a tal punto da diventare un tutt’uno con esso. Il patto di Dorian Gray è inconsueto, Wilde, ossessionato dalla bellezza e dalla perfezione estetica, gli conferisce un particolare dono. Le sue nefandezze e le conseguenze delle sue bieche e riprovevoli azioni si riflettono non già su di lui, come persona, bensì sul suo simulacro artificiale e fittizio. E’ il ritratto ad assumere al suo posto quelle pieghe malvagie della bocca, quel luccichio sinistro dentro gli occhi, che all’inizio Gray osserva compiaciuto. Ma, come per Jeckyl, la via del non ritorno è già segnata, e presto il peso dei crimini commessi si fa sentire, la conquistata immunità è solamente estetica e non morale. Gray abbandona crudelmente la giovane amante, il ritratto accusa il colpo, e il protagonista se ne compiace, ella si suicida, e ancora il nostro eroe negativo non registra alcuna consequenza né fisica né morale, ma alla fine il percorso della sua decadenza è tale da portarlo all’omicidio, un assassinio reale, perpretato di sua propria mano. Dopo la morte di Jim Vane, tornando a casa, viene colto da un irrefrenabile disgusto per il ritratto, al punto tale da scagliarsi su di esso armato di un coltello, per distruggerlo. Con questo atto finale, egli uccide con la sua immagine, invecchiata, dura e perversa, anche la sua entità reale e fisica, innocente, bellissima e intatta. E’ la morte di entrambi, questa volta. E Wilde si riscatta nel finale, benchè non gli sia poi mai stata perdonata la voluttà con dui Dorian si tuffa nel malvagio, compiacendosene, per buona parte dell’opera, e della sua breve vita dissoluta. Da non dimenticare poi che con un indomito colpo di coda, l’autore attribuisce questa ribellione non già al disgusto delle azioni compiute, ma piuttosto al ribrezzo provato verso l’esteriorizzazione di quelle azioni, operate sul ritratto. Gray colpisce non per redimersi, ma per conferire al ritratto l’antico splendore, ossia la vera corrispondenza con la sua immagine reale, come abbiamo visto incontaminata. Il fatto che poi il meccanismo operi al rovescio, portando alla sua dissoluzione fisica e alla morte, è l’unico risvolto morale che si può attribuire a quest’opera, fondamentalmente incompresa. Ecco così che due autori diversi per epoca, per stile, e per contenuti, affidano alla tematica del doppio il difficile compito di giudicare sulla malvagità dell’uomo. Sia Jeckyl che Gray imboccano la stessa via, cercano un modo per ottenere l’immunità dalle loro azioni, perseguono l’indulto morale, abusano del loro libero arbitrio, e quando le conseguenze si fanno pesanti, scaricano il peso della colpa sul loro alter ego, esimendosi così dal giudizio ed eludendo la resa dei conti. Entrambi poi, quando vengono scossi da un evento drammatico, focalizzano la realtà, ed operano sullo sdoppiamento tentando di ricongiungere le parti scisse, nel far questo vanno incontro al loro destino finale, alla ricerca dell’identità perduta sanciscono definitivamente la loro condanna e la propria morte. In Lady Macbet di William Shakespeare, invece, ritroviamo l’identico tema, trattato in maniera molto più complessa. Per tutta la tragedia Shakespiriana si ha, fortissima, la sensazione che i dialoghi tra moglie e marito siano in realtà le percezioni e i monologhi interiori di una sola persona. Come se l’introspezione psicologica operasse al contrario, dividendo in due una persona, piuttosto che congiungerne due. Sembra, che Lady Macbeth conosca il marito così a fondo da essere fusa con lui, ma allora perché questa caratterizzazione così androgina, questo piglio maschile, questa volitivà di fondo, se non per accentuare e sottolineare il fatto che sono entrambi due espressioni della medesima personalità? E’ un gioco sottile quello di Shakespeare, quando conduce le divagazioni mentali con tale accortezza da farle sembrare un soliloquio spiriturale. Il delirio di un’anima in pena. Non a caso i due non sono mai in sintonia perfetta, quando uno tentenna l’altro traina, quando uno retrocede l’altro sopravanza. Come a sottolineare un’ambivalenza di fondo. Quando Macbeth, dopo un primo silenzio assenso con cui aveva acconsentito al diabolico piano, tenta di retrocedere dalle sue posizioni, ed esamina con la moglie i pro e i contro di un tale gesto, appare evidentissima l’intenzione dell’autore di riprodurre, in questo singolare coro a due voci, la divagazione mentale di un essere unico, intento a valutare le conseguenze dei suoi gesti, e la loro opportunità. Un monologo interiore, travestito da dialogo. Anche le conseguenze dell’atto sulle loro menti sono come sdoppiate, da una parte abbiamo l’incredibile audacia dell’azione omicida, dall’altro le inquietanti apparizioni dello spettro che sembrano sottolineare una tendenza decisamente schizofrenica del soggetto. Shakespeare in quest’opera passeggia beatamente tra gli anfratti delle introspezioni psicologiche in un’interpretazione quasi freudiana di questo antichissimo dramma. E’ come se identificasse in Macbeth il lato fisico dell’azione, la concretezza, la forza, il movimento, e in Lady Macbeth l’introspezione psicologica, la pianificazione, l’istigazione al delitto, la sofferenza, e infine la colpa. Entrambe le entità sdoppiate anche qui sono condannate a morte, ma in tempi e modi diversi, consoni alla loro personalità esteriore. Macbeth perisce in combattimento, da guerriero quale è, Lady Macbeth invece soccombe lentamente, consumata dall’angoscia, fino al momento del suicidio catartico e liberatorio. E come nella migliore tradizione psichiatrica, è la mente ad arrendersi per prima, il corpo dopo. Un’altra sconvolgente interpretazione, per di più di mano femminile, conferita al tema del doppio in letteratura, è quella di Mary Shelley con il suo Frankestein. Qui le implicazioni filosofiche si fanno molto più forti, soffocate, al punto da essere quasi invisibili, dal contesto fortemente drammatico della narrazione. Il lettore infatti si concentra sul mostro, sull’aspetto fantascientifico della vicenda, sull’orrore, e non focalizza quelle che sono invece le connotazioni psicologiche. Victor Frankestein è, alla pari del Dr.Jeckil, un uomo di scienza. Anche lui insegue un sogno di gloria, ridare la vita ai defunti, riportare al mondo le persone care, annullare la morte. Una provocazione fortissima, giustamente punita dal succedersi degli eventi che infine condannano questa eccessiva aspirazione dell’uomo verso irrealizzabili sogni e visioni di onnipotenza. E fin qui siamo sul concreto, la Shelley condanna la falsa onniscenza dell’uomo, e segue i dettami di sfiducia e incertezza tipici della sua epoca, improntata a un eccesso di sicurezza sulle possibilità umane, cavalcando le creste dell’allora floridissima rivoluzione industriale. Ma guardando bene, attraverso i risvolti narrativi dell’opera, ecco che troviamo delle sorprese interessanti. Victor non fallisce, ma anzi riesce nel suo intento, chiuso nel suo laboratorio, trascurando tutto e tutti, affetti familiari, impegni e doveri, dona la vita a una creatura artificiale, composta sottraendo furtivamente pezzi di cadavere dagli obitori e dai cimiteri. Ma lungi dal celebrare questa vittoria, egli fugge, terrorizzato, dopo aver constatato l’orrore di questa sua creazione. Una vera e propria sfida alla giustizia divina, andando contro le leggi del creato egli sfida Dio, e resta sconvolto dal suo successo, abbandonando a se stessa la creatura appena concepita. Egli è padre e madre allo stesso tempo, ma genitore snaturato, perché non cresce, non alleva, non istruisce, ma rifugge ed abbandona. E dunque allora nella Shelley questo dualismo tra il bene e il male si fa virtualmente sempre più sottile. Mentre nelle opere esaminate in precedenza era facile individuare tra le due metà quale fosse l’incarnazione dell’uno e quale dell’altro, qui la suddivisione delle colpe non è cosa istintiva. Già, perché la creatura orrida, ripugnante e artificiale, ha un animo nobile, è delicata, buona nel profondo, romantica e comprensiva, anela all’amore, vuole amare ed essere riamata, apprezzata e accettata. Ma invece vive l’abbandono, perseguitata come un mostro a causa del suo orrendo aspetto fisico, diventa un mostro perché condannata dalla società attuale, che non la può accettare per quello che è. Il padre putativo, lo scienziato, l’eroe positivo, invece, non è affatto tale, perché rifugge dalla creatura partorita con un senso di repellenza, vedendo in essa il simulacro delle sue stesse colpe di alterigia e di orgoglio. E’ Victor Frankestein, l’uomo e lo scienziato, ad aver sfidato per primo le leggi divine, a essersi arrogato diritti non umani. Suo è il peccato, sua la colpa. La creatura impersonifica dunque il male riflesso del suo creatore, ed anche qui entrambe le metà dello stesso essere sono destinate a perire, non prima di aver attraversato il globo terracqueo in una sorta di pellegrinaggio di espiazione terribilmente mistico. Ecco dunque come quattro validissimi autori, consacrati alla storia, si sono avvicinati a quello che è uno dei temi privilegiati della psicanalisi, la scissione dell’animo umano tra rigore e controllo, da una parte, e passione e sregolatezza dall’altra, apponendo la firma ad alcuni dei migliori capolavori letterari di tutti i tempi.

Sabina Marchesi

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