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41-bis OP

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carcere duro[1]
 
Gli uomini condannano l’ingiustizia
perché temono di poterne essere vittime,
non perché aborrano di commetterla.
Platone
 
La legge 26 luglio 1975, n. 354 (meglio nota come “Ordinamento Penitenziario-OP”[2]), nacque dalla necessità di attuare il definitivo e improrogabile passaggio da un sistema punitivo statale autoritario ad uno più democratico, dando seguito al movimento di riforma dei codici penali che mirava a tradurre finalmente nella legislazione ordinaria i principi della Carta Costituzionale[3] e gli impegni assunti negli accordi internazionali intervenuti nel frattempo[4]; tuttavia occorre riconoscere che tali principi sono stati, nel corso dei decenni, in larga parte traditi dalla incapacità cronica del sistema amministrativo di attuarli concretamente, a fronte di fenomeni mai risolti quali il sovraffollamento delle carceri e l’uso irrazionale delle risorse umane e finanziarie spesso dovuto a modelli organizzativi quantomeno inadeguati.
La stessa legge, che aveva attribuito un ruolo marginale alla materia della “sicurezza penitenziaria” proprio per dedicarsi maggiormente all’aspetto “rieducativo” del trattamento penale, si era dotata di una “norma di salvaguardia” cui ricorrere in situazioni di eccezionale gravità, l’art.90[5], che doveva servire proprio a questo: ove ricorressero alcune condizioni di pericolosità interna al carcere, l’art. 90 consentiva che le esigenze di sicurezza prevalessero su quelle del trattamento e della rieducazione dei detenuti, permettendo in tal modo restrizioni altrimenti contrarie alle norme di legge.
Con l’avvento degli anni ’80 e la progressiva uscita dal periodo dei cosiddetti “anni di piombo” di più intensa lotta alla criminalità organizzata (di stampo terroristico), si assistette ad una inversione di tendenza che portò ad un ridimensionamento delle carceri e delle sezioni di massima sicurezza e, a livello legislativo, all’approvazione della legge 10 ottobre 1986, n. 663, meglio nota come “legge Gozzini”, frutto di più proposte di riforma dell’ordinamento penitenziario avanzate sia dalla classe politica che dalla magistratura di sorveglianza, il cui obbiettivo principale fu quello di permettere che l’esecuzione tendesse a favorire il graduale reinserimento nella società del soggetto, attraverso un più agevole accesso alle misure alternative alla detenzione e con la previsione di determinati meccanismi che incentivassero la partecipazione e la collaborazione attiva del detenuto al trattamento[6]. La nuova legge tentò altresì di risolvere il problema legato all’utilizzo arbitrario ed indiscriminato dell’art. 90, senza però rinunciare a strumenti di differenziazione dei trattamenti per motivi di sicurezza. A questo scopo, fu abrogato l’art. 90 e si trasferì il suo contenuto, in parte rivisitato, nell’art. 41-bis di nuova creazione, rubricato “Situazioni di emergenza” e originariamente composto da un solo comma: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro (di grazia) e giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto[7]“.
Verso la fine degli anni ottanta l’opinione pubblica assunse un diffuso atteggiamento critico verso le nuove forme di premialità (riconosciute anche da altri provvedimenti normativi oltre la legge Gozzini), ritenute eccessivamente permissive[8]. Il fortissimo sgomento provocato dalle stragi di Mafia del maggio/luglio 1992 nella stessa opinione pubblica italiana e internazionale, in cui trovarono la morte, tra gli altri, i Magistrati Falcone e Borsellino, spinsero Governo e Parlamento ad adottare il d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (il cosiddetto “decreto anticriminalità”), recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” (convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356), il quale introdusse un comma 2 all’art. 41-bis, che in seguito alle diverse modifiche e integrazioni apportate nel corso degli anni sempre in senso rafforzativo del rigore delle misure[9], ora dispone:
“2. Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis[10] o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente. In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4-bis[11]“.
In origine, tale disposizione era valida solo per tre anni, ma successivi interventi legislativi (a partire dalla legge 16/2/95 n. 36) ne hanno prorogato di anno in anno la vigenza, fino a quando con la legge 23/12/02 n. 279 se ne approvata la validità permanente: ora l’art. 41-bis non ha più alcun limite temporale.
Il provvedimento di autorizzazione all’applicazione del “regime speciale” nei confronti di un singolo detenuto, è adottato con decreto motivato del Ministro della Giustizia (anche su richiesta del Ministro dell’Interno), sentito l’ufficio del Pubblico Ministero che procede alle indagini preliminari (ovvero quello presso il giudice procedente) e acquisita ogni altra necessaria informazione presso la Direzione Nazionale Antimafia, gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell’ambito delle rispettive competenze.
Il provvedimento stesso ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del
·                     profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione,
·                     della perdurante operatività del sodalizio criminale,
·                     della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate,
·                     degli esiti del trattamento penitenziario,
·                     e del tenore di vita dei familiari del sottoposto.
Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa (art.41-bis, comma 2-bis).
I detenuti sottoposti al “regime speciale” di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria.
La sospensione delle regole di trattamento può comportare:
·                     l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, e prevenire contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione o ad altre alleate;
·                     la determinazione dei colloqui nel numero di uno al mese da svolgersi ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti. Inoltre sono vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi, salvo casi eccezionali determinati volta per volta dal direttore dell’istituto oppure, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria. I colloqui vengono sottoposti a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria; solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto oppure dall’autorità giudiziaria (e solo dopo i primi sei mesi di applicazione del “regime speciale”), un colloquio telefonico mensile con i familiari della durata massima di dieci minuti (sottoposto, comunque, a registrazione). I colloqui sono comunque videoregistrati. Tali disposizioni non si applicano ai colloqui con i difensori con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari;
·                     la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno e l’esclusione dalle “rappresentanze” dei detenuti e degli internati;
·                     la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia;
·                     la limitazione della permanenza all’aperto (che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone), ad una durata non superiore a due ore al giorno (tale periodo di tempo può essere ridotto a non meno di un’ora al giorno soltanto per motivi eccezionali). Possono essere, inoltre, adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi “gruppi”, scambiare oggetti e cuocere cibi (art.41-bis, comma 2-quater)[12].
Il detenuto o l’internato ovvero il difensore, possono proporre reclamo avverso il procedimento applicativo, presentandolo nel termine di venti giorni dalla comunicazione del provvedimento del Ministro al Tribunale di Sorveglianza di Roma[13] (art.41-bis, comma 2-quinquies). Il tribunale, entro dieci giorni decide in camera di consiglio, sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento. Se il reclamo viene accolto, il Ministro della Giustizia, ove intenda disporre un nuovo provvedimento, deve, tenendo conto della decisione del tribunale di sorveglianza, evidenziare elementi nuovi o non valutati in sede di reclamo (art.41-bis, comma 2-sexies).
Attualmente, i dati ufficiali del Ministero della Giustizia indicano in 681 (su un totale di 68.121 circa) i detenuti nelle carceri italiane in regime di “carcere duro” di cui solo tre donne[14].
Con le ultime modifiche apportate, il regime del 41-bis OP per i detenuti è stato probabilmente inasprito nella maggiore misura permessa dai principi costituzionali e da quelli in materia di diritti dell’uomo, tant’è che, fino ad ora la norma ha resistito a numerosi ricorsi[15], di fronte alla Consulta e a livello internazionale di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, diretti a farne dichiarare l’illegittimità.
 
Serve una vittima
e poi si potranno usare le maniere forti.
Francesco Cossiga


[1] Nell’immagine l’automobile su cui viaggiava Giovanni Falcone, dopo l’attentato del 23/5/1992 a Capaci (PA), esposta al 1°Salone della Giustizia, Rimini dicembre 2009.
 
[2] L. 26-7-1975 n. 354 Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Pubblicata nella Gazz. Uff. 9 agosto 1975, n. 212, Serie Ordinaria.
 
[3] Art. 27 Costituzione della Repubblica. PARTE I, DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI, TITOLO I, RAPPORTI CIVILI, comma 3:
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Antecedentemente alla L.354/75 l’intera normativa penitenziaria era disciplinata dal Regolamento per gli Istituti di Prevenzione e Pena istituito dal fascismo nel 1930 (Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 787). Le linee programmatiche della legge 354 del 1975 costituirono una vera e propria svolta nell’ambito del sistema carcerario allora esistente. La staticità della fase esecutiva della pena prevista dal Regolamento del 1931 veniva messa in discussione con l’introduzione del dinamismo in una esecuzione flessibile e funzionale ai progressi del condannato sulla strada della rieducazione.
 
[4] Risoluzione O.N.U. 30 agosto 1955 contenente le Regole minime per il trattamento dei detenuti, al rispetto del quale l’Italia si era impegnata a adeguare la propria legislazione in materia penitenziaria. Cfr. “L’art. 41-bis l. 354/75 come strumento di lotta contro la mafia” di Elisa Fontanelli in “L’altro diritto Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” http://www.altrodiritto.unifi.it/index.htm.
 
[5] Art.90 L.354/75 (abrogato) “Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza, il Ministro per la grazia e giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”.
 
[6] L’innovazione più importante della Gozzini è la possibilità per il condannato di ottenere misure alternative allo stato di detenzione, con il preciso scopo di sottrarre il condannato dal contatto con l’ambiente carcerario. In particolare, la legge prevede le seguenti misure: permessi premio, affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà, liberazione anticipata.
 
[7] “…La nuova disposizione mirava a chiarire, più di quanto facesse l’art. 90 o.p. quali fossero i presupposti che dovevano ricorrere affinché il Ministro di grazia e giustizia potesse esercitare il suo potere di sospensione delle ordinarie regole trattamentali: essa fa riferimento, infatti, a “casi eccezionali di rivolta o altre situazioni di emergenza collettiva”, circoscrivendo dunque l’ambito di operatività dello strumento alle sole situazioni che si presentassero come del tutto imprevedibili e che si connotassero per l’eccezionale gravità.
L’art. 90, invece, parlava genericamente di “gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza”, lasciando evidentemente un margine di discrezionalità più ampio all’amministrazione nel decidere quali situazioni potessero determinare il ricorso alla sospensione suddetta…” Fontanelli, op. cit.
 
[8] Cfr. “Diritto e Procedura Penale (all’italiana…)” di Alberto Monari, Kultunderground n.157, rubrica Diritto, Agosto 2008.
 
[9] L. 16 febbraio 1995, n. 36, L. 7 gennaio 1998, n. 11, L. 23 dicembre 2002, n. 279 e da ultimo L. 15 luglio 2009, n. 94.
 
[10] Art.4-bis, 1 comma, L.354/75: “…delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale (Associazione di tipo mafioso), delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600 (Riduzione in schiavitù), 600-bis primo comma (Prostituzione minorile), 600-ter, primo e secondo comma (Pornografia minorile), 601(Tratta e commercio di schiavi), 602 (Alienazione e acquisto di schiavi), 609-octies (Violenza sessuale di gruppo), e 630 del codice penale (Sequestro di persona a scopo di estorsione),..”.
 
[11] “…si intendeva colpire la compagine mafiosa agendo specificamente sui soggetti che, usufruendo dei diritti inerenti al normale regime penitenziario, si riteneva mantenessero i contatti con le associazioni criminali. Per raggiungere questo obbiettivo il legislatore scelse di utilizzare lo stesso strumento che nel passato aveva dimostrato una notevole funzionalità nel controllo dei detenuti…” Fontanelli, op. cit.
L’art.4-bis della Legge subordina la concessione di benefici carcerari e misure alternative alla detenzione (permessi premio, lavoro all’esterno, affidamento ai servizi sociali, semi-libertà, detenzione domiciliare) alla collaborazione con la giustizia e alla mancanza di elementi per ritenere ancora esistenti collegamenti con la criminalità organizzata;.
[12] Per la partecipazione del detenuto o dell’internato all’udienza si applicano le disposizioni di cui all’articolo 146-bis delle norme di attuazione del Codice di Procedura Penale: “Partecipazione al dibattimento a distanza”, in altri termini la “videoconferenza” (art.41bis, comma 2-septies).
 
[13] In precedenza, era competente il Tribunale di sorveglianza con giurisdizione sull’istituto al quale il detenuto era assegnato. Il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento. Cfr. lettera g) del comma 25 dell’art. 2, L. 15 luglio 2009, n. 94.
 
[14] Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.) – Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, dati aggiornati al 11/08/2010, in www.giustizia.it
 
[15] Da ultimo la Corte Costituzionale, con sentenza 26 – 28 maggio 2010, n. 190 (Gazz. Uff. 3 giugno 2010, n. 22, 1ª Serie speciale), ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quater, lettera f), 2-quinquies e 2-sexies, sollevate – con riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 113, primo e secondo comma della Costituzione.

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