Tra le ottime produzioni inglesi di questo ultimo periodo è doveroso citarne una, che ha chiuso il suo ciclo di sei puntate giusto ieri: Luther, crime drama prodotto dalla BBC, magistralmente sorretto da un cast ottimo, su cui eccelle Idris Elba, alias John Luther, DCI, che dovremmo apprezzare anche il prossimo anno nel ruolo di Heimdall in Thor. La forza delle produzioni inglesi, rispetto a quelle americane, di norma dipende da attori particolarmente bravi ed espressivi (e qui non ce n’è uno che sia sotto misura), dalle trame più realistiche e crude (Luther non è un telefilm per bambini, principalmente per la violenza psicologica e la tensione) e dai dialoghi. E a questo si aggiunge spesso che lo svolgimento su soli sei episodi permette un ritmo elevato e senza pause, anche quando la costruzione, come in questo caso, si affida anche a puntate più tradizionali, utili per lo sviluppo dei rapporti tra personaggi e per rendere più completa la psicologia dei personaggi.
Questo serial segue le vicende di un detective della omicidi di Londra, con buone capacità di intuizione e un forte senso del ruolo della polizia di “protezione” dei cittadini, ma con un carattere difficile che lo rende poco incline a seguire le regole che il suo distintivo gli imporrebbero. Luther è un personaggio “ruvido” ma senza echi da giustiziere tradizionale, anche se, quando la storia inizia, è appena ritornato al lavoro dopo un periodo di sospensione, causato dal fatto che la persona che è riuscito a catturare per una serie di delitti nei confronti di bambini è finito in coma dopo una brutta caduta, che lui non gli ha evitato. Il rapporto difficile con la moglie Zoe (l’ottima Indira Varma) che l’ha lasciato e che si sta mettendo con un altro uomo (Paul McGann, alias Mark North, ottavo Doctor Who della serie in onda a fine anni 90), si sommerà poi allo svolgimento di tutta la storia, ma l’elemento chiave della vicenda sarà il suo primo nuovo incarico, riguardante il duplice omicidio dei genitori di Alice Morgan (la splendida Ruth Wilson, vista di recente nel remake de Il Prigioniero), che sposterà ulteriormente il suo concetto di bene e male, di giusto e sbagliato, rendendolo una figura ancora più cupa e moderna.
Non ci troviamo di fronte a un Jack Bauer inglese, anche se spesso i conflitti interiori e le situazioni di più o meno intensa visione personale della giustizia potrebbero ricordarlo, ma come l’ex CTU di 24, o il commissario svedese Wallander, qui abbiamo a che fare con un personaggio perennemente accigliato, in qualche modo stanco e disilluso, in cui la vita privata si mischia, con conflitti, con quella professionale. E le intuizioni di John Luther, che spesso gli permettono, da una mezza frase o da una espressione, di capire con chi ha a che fare, non ricordano per niente quelle di Patrick Jane o del Dottor Lightman. Non sembra esserci infatti scuola, in Luther, ma solo l’anima del poliziotto, lo spirito di chi ha visto centinaia di casi di omicidio, la maggior parte dei quali probabilmente conclusi senza che la legge potesse davvero rendere giustizia alle vittime.
Che dire ancora? Un capolavoro, a mio avviso, dal ritmo convinto e dall’ottimo finale, che spero possa arrivare anche da noi. Intenso e tragico, e, dulcis in fundo, tra l’altro incorniciato da una sigla splendida (by Massive Attack) – come non mi capitava di sentirne dalle prime stagioni di Dead Zone.