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Lavorare con lentezza

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Già il titolo è una dichiarazione di intenti. Poi ci sono gli anni settanta, per la precisione la fine di quel decennio. Il periodo in cui io sono nato, il periodo in cui i miei genitori e i miei zii avevano la stessa età che io ho oggi. E sono sicuro, anche se loro sono di Roma e non di Bologna, che il clima in cui sono vissuti fosse lo stesso. L’impegno politico che si mischiava con le canne, un senso di appartenenza e comunità (non ancora di recupero), una gran voglia di cambiare il mondo, molta fantasia e il desiderio di essere quella generazione che finalmente avrebbe cambiato le cose.

Ecco cosa traspare da questo film. Tutto il desiderio di scardinare quei canoni ammuffiti di una società vecchia e stantia. Il gridare in faccia ai padroni di non voler fare la fine dei propri padri operai, il diritto ad un lavoro che non fosse sfruttamento.

Lavorare con lentezza, per l’appunto.

In una Bologna frastornata e scioccata dalle trasmissioni di radio Alice assistiamo a varie storie e sottostorie, a vari personaggi che intrecciano le loro vicende e si scontrano poi con una realtà terribile e assurda.

Un ennesimo ragazzo morto, le barricate per le strade, gli scontri con la polizia.

Un’ennesima e sconvolgente mediocre storia italiana.

Dove alla fine è sempre quel potere e coloro che ci stanno dietro a vincere, dove la repressione chiude bocche e vuole appassire le idee.

Il film è girato e costruito con lo stesso tono dissacratorio di quelli che fecero radio Alice. Molto divertenti e azzeccati sono i siparietti in stile cinema muto, nostalgici i momenti psichedelici, autogestiti quelli musicali (con gli Afterhours che rifanno gli Area). Ma su tutto si respira un’aria di possibile cambiamento, di rottura con la società italiana precedente.

Si parla di sesso in maniera oscena e informativa, le canne girano che è una meraviglia, l’eroina deve ancora arrivare, la musica non è mai stata così innovativa e carica di rabbia e energia e soprattutto si prova ad essere un vero gruppo di persone, una vera comunità.

Il socialismo e il comunismo vengono applicati alla vita quotidiana ma con quel tocco di follia che ne scardina l’impianto totalitario.

Maodadaisti si definiscono i ragazzi di radio Alice.

Ma anche le storture del tempo in alcuni casi vengono alla luce. Per quanto le ragazze cerchino di emanciparsi e i ragazzi di essere di larghe vedute se una (la Pandolfi) ha più di un uomo è una troia. E poi in radio le canzoni commerciali non devono essere passate e allora si censura a chi quella musica piace veramente. E poi gli studenti universitari, che sono ancora quelli che se lo possono permettere con una famiglia dietro che li mantiene.

Perché i veri e soli proletari del film sono Sgualo e Pelo. E loro per campare fanno lavoretti per il boss del quartiere. Ladro e filosofo e anche un po’ anarchico. Uno che pensa ai soldi ma con una sua morale.

E adesso ci siamo noi, stessa età ma venti anni dopo.

Cosa è rimasto di allora?

Il potere è sempre lo stesso, se non è addirittura peggiorato.

Oggi come non mai parole come produzione, guadagno, impresa, profitto sono ovunque.

Solo che non c’è più un movimento che si ribella, non c’è più un gruppo, non c’è più una società.

Sono rimasti i singoli.

Io, per esempio.

Che sono ancora dall’altra parte della barricata.

Solo che non voglio armi, né violenza.

La mia rivoluzione sto cercando di farla con le parole.

Lavorando, sempre, con lentezza.

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