A mio Padre, cui Avatar sarebbe piaciuto moltissimo
Avatar è un film d’eccezione. Esteticamente bellissimo, il film di James Cameron è baciato dalla grazia di un equilibrio, quasi miracoloso, fra leggerezza e impegno, vocazione commerciale e profondità di contenuti. E la sua semplicità non costituisce un limite, ma anzi un motivo di valore. L’opera è tanto chiara e lineare da correre il rischio non solo che tale qualità (la chiarezza) non venga riconosciuta come un motivo di valore, ma soprattutto il rischio che il suo messaggio non venga apprezzato in tutto il suo peso, per quanto è in piena luce. Capita spesso, infatti, che alle cose troppo semplici e chiare non si presti un’analisi che ne restituisca il giusto valore, specie se si ha un atteggiamento critico intrinsecamente (anche se non intenzionalmente) snobistico.
A me sembra che Avatar sia un film destinato a segnare la storia del cinema, per un triplice ordine di motivi, ciascuno dei quali gode virtuosamente degli altri, se ne avvantaggia e ne risulta maggiormente avvalorato.
Il primo di questa serie di motivi, che proverò ora ad esporre, è di natura squisitamente tecnica (ed è quello forse più ovvio, ma se ci fermassimo solo ad esso nel valutare il film il giudizio sarebbe assai riduttivo); il secondo è di natura stilistica e sostanziale; il terzo, infine, di natura socio-culturale.
1. Fermiamoci dunque un attimo a considerare l’importanza del dato tecnico, quello più ovvio e appariscente. Avatar è un film che sfrutta il 3D avvalendosi di una tecnologia innovativa (la ripresa binoculare), con risultati magnifici, i quali possono a loro volta godere dell’ambientazione immaginifica sul pianeta Pandora, che ha consentito ai creatori di questo mondo di sbizzarrirsi sul coté del “meraviglioso”. Sono un piacere per gli occhi, mai goduto prima al cinema, le multicolori e lussureggianti forme di Pandora, le sue bellissime flora e fauna.
Il 3D, da circa un anno, si è andato diffondendo in ambiti però ancora circoscritti: film soprattutto di animazione (“Up”), o in stop motion (“Coraline”), o alcuni film di genere (horror e fantascienza) che potevano essere fruiti sì “anche” in 3D, ma come opzione alternativa alla visione tradizionale. Con Avatar le cose sono destinate a cambiare irreversibilmente. Fosse solo semplicemente perché è il film del regista campione d’incassi di Titanic, concepito per e con questa nuova tecnica, e lanciato sul mercato mondiale con lo scopo dichiarato di battere il precedente sul piano dei record d’incassi.
Andare a vedere Avatar in 2D è andare a vedere un’opera dimidiata: più che come vedere un film in televisione, sarebbe quasi come quando si vedeva un film a colori su di una vecchia tv in bianco e nero (accadeva ancora poco più di una ventina di anni fa).
E’ con Avatar che il 3D ha ormai le carte in regola per proporsi come una rivoluzione cinematografica paragonabile al passaggio dal bianco e nero al colore. Esattamente come nella diffusione del colore, sono arrivati prima i kolossal hollywoodiani; e non immagino – si intenda bene – che il passaggio sarà repentino e immediato. Anzi, nel “passaggio” al colore l’interregno è stato graduale e lunghissimo: a parte il fatto che ancora oggi il bianco e nero viene usato talvolta per ragioni espressive, ancora nei primi anni settanta c’erano registi europei che dovevano sperimentarsi per la prima volta con il colore, quando un “Via col vento” risale al 1939.
Avatar non è il primo film in 3D, ma resterà probabilmente nella storia del cinema come il film spartiacque, quello che avrà segnato un prima e un dopo. Prima di Avatar, non mi era mai parso che le sale cinematografiche tradizionali dovessero urgentemente adeguarsi all’eventualità di un film in 3D. Oggi, constatare che, in alcune sale, Avatar viene proiettato in 2D equivale a constatare un’arretratezza tecnologica media delle sale, che Avatar ha di colpo reso evidente. Tale arretratezza dovrà necessariamente essere colmata: non sarà più ammissibile che, nel suo week end di uscita, un film faccia registrare un’offerta tanto inferiore alla domanda, con il tutto esaurito nelle sale dov’è proiettato in 3D, e lasciando invece mezze vuote le sale dove viene proiettato in 2D. Il pubblico lo vuole giustamente vedere in 3D, e le sale non attrezzate manifestano improvvisamente un vistoso anacronismo.
2. Passando agli aspetti stilistici e contenutistici, il motivo per cui Avatar mi pare un film di importanza molto rilevante è rappresentato anzitutto dal suo costituire una sintesi riuscitissima (mi verrebbe da dire “perfetta”) di modi, temi e forme del cinema commerciale statunitense degli anni 2000. E’ difficile trovare un film che sia al contempo ed in egual misura “classico” e “post-moderno” come riesce ad esserlo Avatar, parlando un linguaggio che arriva alla più vasta platea possibile – mantenendosi cioè comprensibilissimo e di immediata fruizione – e al contempo spaziando liberamente tra i generi con citazioni e rimandi davvero “d’ogni genere”, in modo attuale e aggiornato ai tempi (senza cioè risultare uno stanco esercizio di stile, né riecheggiare il già visto in modo da non dire qualcosa di nuovo). Se per “post-moderno” può ancora intendersi anche il saper dire qualcosa di originale attraverso tutti elementi già “usati”, Avatar è “il” film post-moderno per eccellenza, restando al contempo assolutamente e rigorosamente “classico”, tradizionale nello stile e lineare nello sviluppo narrativo (caratteristiche che ne garantiscono la fruibilità più ampia).
Avatar trascende i generi, e li ricomprende in un’opera mirabilmente compatta. I rimandi contenuti nel film sono poi davvero tanti. E’ di fondo un western classico (con tanto di indigeni armati di arco e frecce). E’, naturalmente, il classico “anti-western”, dove cioè – a parti rovesciate rispetto al western di vecchia data – i bianchi sono i “villains” e gli indiani gli “eroi”: difatti, a chiunque viene subito in mente “Balla coi lupi”. Sull’impianto western si innesta (più appariscente) la fantascienza, ibridata con il film bellico e con il fantasy. Il rimando primo è alla saga di Alien (esplicita e diretta la scelta di Sigourney Weaver, in un personaggio dalle caratteristiche similari). Anche in questo caso la prospettiva del film di fantascienza classico appare radicalmente rovesciata: al punto che, con estrema e consapevole coerenza, nel finale si sente dire che “gli alieni” sono costretti a tornarsene da dove erano venuti. Attenzione: gli alieni sono gli umani. Della saga di Alien (di cui Cameron aveva diretto il secondo episodio), viene mantenuta la visione negativa dell’invasione terrestre del cosmo, dell’autoinganno da parte delle autorità nei confronti degli equipaggi delle proprie astronavi, scientemente e nascostamente ritenuti sacrificabili in nome di brutali interessi economici militari. Se lo spunto è mantenuto, tutto il contorno è invertito e radicalizzato fino alle estreme conseguenze.
Gli appassionati di David Cronenberg potranno poi riconoscere una trasparente ascendenza cronemberghiana nel “meccanismo” di contatto fra esseri viventi costituito dall’allaccio di alcuni filamenti nervosi contenuti nella chioma (sia degli esseri animati, sia degli alberi): un procedimento che ricorda certe ossessioni del regista canadese (specialmente le protesi di “eXistenZ”), qui ammantate di una carica “spiritualista” di segno ovviamente diverso rispetto alle morbosità cui fa riferimento la poetica di Cronenberg.
Dei riferimenti a Terrence Malik e Hayao Miyazaki dirò tra poco.
Anche i rimandi a Matrix, e in generale a tutto il cinema che parla di realtà virtuali, sono evidenti: quello che vale la pena sottolineare è come il film di Cameron superi a pie’pari tutta la problematica bio-etica e i risvolti psicologici che sino ad ora il cinema aveva affrontato, nel trattare soggetti quali la clonazione e la manipolazione virtuale del reale. Avatar molto più semplicemente ci dice che tutto questo sarà, e non si sofferma a problematizzarne i risvolti. Punta, infatti, ad altro. In qualche modo, anche più in alto.
Vi sono, insomma, trascesi e ricompresi, fantascienza, western, film di guerra, fantasy, melodramma: quello che colpisce è soprattutto la levità e la nonchalance con cui Avatar riesce a trascorrere da un genere all’altro. E fa contenti, con ciò, gusti e palati molto diversi, tutti incuriositi e chiamati a vederlo, e poi soddisfatti, all’uscita dalla sala, almeno per due motivi. Il primo motivo è la soddisfazione epidermica, sensoriale, per il “meraviglioso” cui si è assistito, dispensato con mani piene e generose nel corso del film. Il secondo, di cui forse si è meno immediatamente consapevoli, e però funziona come soddisfazione più profonda, ed arriva a tutti (qualsiasi siano i gusti dello spettatore) è l’appeal esercitato dalle emozioni basiche che Avatar va a ridestare a un livello più intimo della coscienza.
Al cuore del film riposa un archetipo forte, declinato in modo genuino e potente (tanto da risentire anch’esso, in un circolo davvero virtuoso, dell’appagamento epidermico e sensoriale suscitato dal “meraviglioso”, dal fantastico). E’ il tema, sommamente liberatorio, del personaggio (il protagonista) che riscopre la sua autentica e più vera, profonda identità, al momento di venire a contatto con una società più autentica. All’interno di questa società, una volta accolto, egli letteralmente ri-nasce, nasce una seconda volta. Tra i Na’vi, viene progressivamente e inarrestabilmente liberata un’identità che si celava dietro alla sua prima, in-autentica identità. Ciò è sottolineato e accompagnato, nel film, da uno studiato e riuscito passaggio dai toni freddi dell’ambientazione “umana” a quelli delle scenografie “pandoriane”, cromaticamente vivissime e trionfanti di luci e fosforescenze.
Dunque è naturale – perché segue la logica dell’archetipo – che il protagonista diventi l’eroe massimo, e che sia destinato inevitabilmente al trionfo. Grazie alla potenza interiore scatenata dalla sua mutazione, egli trascina nel suo processo di liberazione il popolo che ha scelto (e che lo ha scelto), e insieme ad esso gli spettatori tutti, in una catarsi collettiva altamente liberatoria. Naturalmente il lieto fine non è solo giustificato, in quest’ottica, ma è necessario al dispiegarsi completo del tema.
Che il tema di fondo sia quello della riscoperta di una identità più autentica è tanto evidente agli autori del soggetto, da averlo voluto esplicitare sin dal titolo “Avatar” (non “Pandora”, o “I Na’vi”, o altro…). Fin dal titolo il film si riferisce alla dualità e alla trasformazione. La liberazione dalla prima identità è il punto da cui l’evoluzione della vicenda trae origine, ed è opportunamente rafforzato, questo tema, dal motivo parallelo dell’handicap motorio del protagonista, che ritrova le gambe nel suo avatar. La scena in cui è pazzo d’entusiasmo non appena recuperato l’uso delle gambe, nel suo avatar, è la prima scena in cui lo spettatore vive una catarsi. Quella scena è l’incipit del bildung, il percorso di formazione in cui da quel momento saremo al centro con il protagonista.
Avatar è, assolutamente, un film “impegnato”, da prendere molto sul serio: ancora una volta, in un mirabile equilibrio tra vocazione “riflessiva” e vocazione “commerciale” (in cui, virtuosamente, la vocazione riflessiva dovrebbe beneficiare, anziché essere banalizzata, dalla vocazione ultra-commerciale dell’opera). Che sia “impegnato” non è in se e per sé un valore quanto lo è il fatto che si risolva convincentemente in un messaggio positivo molto forte.
Il cinema occidentale, avvezzo, nella stragrande maggioranza delle sue opere “impegnate” (come del resto la cultura occidentale tutta), a molcersi nella decadenza e nel perpetuo ritratto di una civiltà allo sfascio, ritrova con quest’opera un segno positivo. E’ vero: l’umanità, viene detto in Avatar, ha reso inabitabile la Terra. Il futuro dell’umanità dunque è segnato, e in senso tutt’altro che ottimista. Per giunta, all’umanità non è bastata come lezione l’aver reso inabitabile la Terra. La specie umana, nel film, persevera nella sua condotta malsana, intrisa di “ubris” e tracotanza, di totale menefreghismo della dimensione spirituale (dimensione spirituale che è letteralmente “innervata” nel corpo della Natura, secondo l’affascinante sistema nervoso di Pandora, ove ogni albero è come il neurone di un immenso cervello planetario…). La “ubris“, la tracotanza della Cultura umana (l’antitesi Natura-Cultura è altro evidente archetipo su cui riposa il film) sono motivate unicamente dalla ricerca del profitto economico, dello sfruttamento delle risorse naturali. La Natura viene vista appunto come strumento di profitto, dall’uomo: mai se ne riconosce realmente l’essere depositaria di una dimensione spirituale e ancestrale, come meravigliosamente descritto nel dolce, bellissimo e convincente ritratto della cultura degli indigeni Na’vi (che liquidare semplicemente come “new age” risulta alquanto banale e minimizzante).
Tutto questo viene detto, senza mezzi termini. Ma il bello di Avatar è che, prese le mosse dalla constatazione degli esiti più negativi della Civiltà umana occidentale, il film rifiuta categoricamente qualsiasi esito negativo. E’ come se dicesse: “sì, abbiamo abbondantemente preso coscienza del disfacimento: vogliamo immaginare l’alternativa?”. Avatar si presenta come un percorso catartico che raggiunge meravigliosamente lo scopo, tanto è convincente sia sotto l’aspetto puramente contenutistico sia sotto l’aspetto drammaturgico. E forse possiamo solamente sottovalutare quanto sarebbe stato facile risultare banale e sconfortante nel fallito tentativo di risultare edificante, e perciò quanto sia importante l’esito convincente di un’opera sotto questo profilo più ambiziosa di quanto appare (tanto difficile era la scommessa).
Per apprezzare il modo raffinato e non banale con il quale i temi del film sono tradotti in termini concreti, basterebbe constatare dettagli (ce ne sono molti) quali l’accento posto su alcune sfumature della lingua dei Na’vi mentre questa viene insegnata al protagonista. Tra le sfumature linguistiche, occorre ricordare almeno quella che verrà ripetuta più volte nel corso del film, quel “Io ti vedo” (in luogo dell’ “Io ti amo”), che – ci viene spiegato – nella lingua Na’vi sta a significare “guardarsi dentro”, e indica all’altro il raggiungimento di un’intesa spirituale, ed il conforto che discende da questa intesa.
I due numi tutelari del film appaiono Malik e Miyazaki.
Miyazaki principalmente per come è declinato il tema della Natura. Mi sembra esservi poi più di una citazione del bellissimo “La principessa Mononoke”, sia nel tono complessivo dell’opera (una battaglia devastante condotta al cuore della Natura, senza pietà, da parte dell’uomo), sia in alcuni motivi (i bianchi spiriti della foresta), sia, soprattutto, nello spirito catartico e votato alla speranza che impregna Avatar allo stesso modo che avviene nella poetica del maestro dell’anime giapponese. Si esce dalla visione del film con una suggestione di rigenerazione molto forte, rarissima nel cinema occidentale e invece tipica del grande Miyazaki.
Citare Malik potrebbe essere ritenuto un paragone irriverente, ma se da parallelo il confronto si intende come omaggio, i conti tornano. Del resto, è impossibile non pensare a “La sottile linea rossa” o a “The new world”, mentre si guardano, in Avatar, analoghe meraviglie di luce che filtra attraverso la flora, e una Natura che si carica di spiritualità. Per di più, il motivo di Pocahontas, la figlia del re indigeno che si innamora dell’invasore è comune sia a “The new world” sia ad “Avatar”, al punto che i più maligni potrebbero parlare di un’operazione di “copiatura” da parte degli sceneggiatori di “Avatar”, quando a mio avviso il tema va ancora una volta compreso in termini di archetipo e di fiaba; e dunque, con specifico riferimento al film di Malik, come omaggio.
3. Infine, il valore socio-culturale del film Avatar, quale blockbuster di origine statunitense.
Prima accennavo ai rimandi alla tradizione dell’antiwestern (“Balla coi lupi”, e prima ancora, “Piccolo grande uomo”), e al cinema di fantascienza in cui gli extraterrestri sono rappresentati come i “buoni”. Avatar radicalizza queste tendenze, portandole sino alle estreme conseguenze: l’Uomo che come si è detto diventa letteralmente l’alieno; il protagonista, di cui viene celebrata la “fine” del corpo umano (con l’ultima inquadratura dedicata al risveglio, in primissimo piano, dei suoi occhi ormai non più di “avatar”, ma definitivamente na’vi); e soprattutto, il fatto che tutto il film, per risultarne un messaggio positivo, deve necessariamente abbandonare e liberarsi dell’ottica culturale “civilizzata”, occidentalizzata, tornando “ai primordi” di una civiltà che vive in stretta simbiosi con la Natura.
Questa appare l’unica possibile sintesi, fra Cultura e Natura, successiva all’ultimo stadio dell’antitesi fra i due termini: ultimo stadio ormai irreversibile in cui l’uomo occidentalizzato non può che scomparire e rinascere ormai sotto altra forma, nella civiltà “primitiva”. In qualche modo, è un recupero delle origini.
Tutto questo in termini filosofici.
Più spiazzante però, si fa il discorso in termini storici. Non dimentichiamo infatti che stiamo parlando del più commerciale fra i prodotti commerciali: un blockbuster hollywoodiano nato e concepito per battere i record di incassi.
Ebbene, è davvero notevole che tale “prodotto” si faccia portatore anzitutto di un’accusa tanto radicale e diretta alla politica estera statunitense, del presente e del passato. A un certo punto del film, si sente il “cattivissimo” comandante in capo pronunciare pressappoco queste parole: “occorre un attacco preventivo. Occorre usare il terrore prima che il terrore ci faccia guerra”. Ritengo davvero superfluo ogni commento. Per di più, un esercito iper-tecnologizzato si andrà a scontrare – per il possesso di una risorsa energetica del sottosuolo (a buon intenditor…) – con un popolo armato quasi solo di arco e frecce: il divario tra le armi in uso alle rispettive parti appare tanto simile a quelli ostentati nelle contemporanee “guerre al terrorismo”.
Sorprende, e fa piacere, che il film macina-incassi a livello planetario, della Hollywood del 2010 sia così apertamente “schierato”.
Ma soprattutto, ciò che dà valore a questo aspetto dell’opera è il fatto che esso sia strutturato in termini davvero universali: funzionali cioè a non essere letti (se non in minima parte) come un riflesso circostanziato dell’oggi, quanto piuttosto come una critica, schietta e precisa, dell’attitudine imperialista-colonialista della Civiltà occidentale tutta. Per restare in epoca moderna: il film vale come allegoria di quanto accaduto nelle Americhe dopo la loro scoperta da parte di Colombo, quindi ovunque negli imperi coloniali europei prima, statunitensi poi. Quanto ancora agli Stati Uniti, ovvio sin quasi al non accorgersene, il riferimento al genocidio dei nativi americani. E aggiungerei infine un chiaro riferimento ad un altro genocidio, purtroppo attualmente in corso anche se ignoto ai più: quello degli indios dell’Amazzonia (sul quale, in ambito cinematografico, si veda il film “Birdwatchers” di Marco Bechis). Anche gli indios dell’Amazzonia vengono privati delle loro foreste, abbattute con i medesimi mezzi, e la stessa brutalità, adoperata dagli umani nel film Avatar.
A me pare che questo film, per tutti questi motivi, lungi dall’essere sopravvalutato corra il rischio di essere invece anzi sottovalutato. O meglio che ne risultino esaltati principalmente l’originalità e i meriti tecnici, mentre sfuggano, proprio da sotto gli occhi (paradossalmente per la troppa chiarezza e semplicità con cui vengono affrontati), gli altri motivi di valore. Il rischio che questi ultimi vengano sottovalutati, a mio giudizio, esiste non tanto nel senso che essi non vengano riconosciuti e apprezzati, quanto che non se ne arrivi a valutarne l’importanza e il peso specifico, che trascendono quelli di una “bella favola”.