Chissà perché i primi fotogrammi di questo film-documento, già scomparso dalle grandi sale, almeno a Roma, la mia testa li mette subito accanto alle prime sequenze picaresche dell’ “Armata Brancaleone” di Monicelli. Credo sia la velocità della violenza che mi conduce istintivamente a tale analogia visiva. E’ rapido lo smantellamento di una famiglia americana della classe medio-bassa a cui si pignora la casa in tempo di recessione così come lo è la calata dei pirati saraceni nell’ “Armata” quando saccheggiano, amputano arti, sbranano a mozzichi pulcini vivi nel giro di pochi minuti. Nel secondo caso, oltre all’apparato della fiction, l’amara ironia di fondo con cui si guarda un lontano Medioevo pieno di delirio, salva da una tristezza estrema; nel primo caso invece si tratta di crudele e attuale realtà.
In effetti, se ci si pensa, il progresso è veloce quanto la rabbia. E’ veloce uno schiaffo, una pugnalata, l’imperativo categorico di un comando al soldato, il lancio di un missile o di una mina, uno sparo, uno scippo, un incendio, il crollo di un palazzo o di una diga, la deforestazione, una sniffata di cocaina, l’automobile concepita dai futuristi, una tarantolata, un attacco kamikaze, uno stupro. Eppure si dice che la vendetta si consumi lentamente e un omicida seriale si prende sempre i suoi tempi per architettare il suo folle riscatto. Dunque la violenza-velocità sembrerebbe un effetto, conseguenza di una causa che ha tempi di maturazione ben più dilatati dell’azione, tempi che preludono ad un evento in cui, sovente, sarebbe possibile indagare in anticipo per evitare o limitare colpi e contraccolpi. Ma il nostro tempo è questo: ci richiede velocità a tutti i costi. La velocità è forza, dominio. Sono veloci i titoli dei telegiornali, somma ed elenco di tanti effetti. A volte il loro montaggio rasenta quello di un thriller. E’ la velocità con cui si susseguono e permangono le immagini nel cervello che può creare sindromi ossessive fino a mandare in corto l’intera struttura neuro-vegetativa. Ne “La camera chiara” Roland Barthes definisce “spectrum” l’oggetto immortalato dalla fotografia: uno spettro, un fantasma immobile in un tempo sconosciuto eppure presente, vivo e morto al contempo, o meglio, reale in un innesto di tempi che comprendono l’attimo e la morte ma anche la permanenza nella storia. Perciò l’immagine può essere percepita anche come pericolosa illusione o ribaltamento di un canone temporale univoco. Dave Eggers nel romanzo dal titolo “Conoscerete la nostra velocità”, descrive la lentezza di cui è accusato dal mondo circostante il protagonista. Lui possiede sicuramente un’intelligenza più vitale dei suoi coetanei ma è rallentato a tal punto dalla velocità con cui riceve input la sua testa disordinata e distratta, da sembrare ritardato, tant’è che sente spesso il desiderio di “rientrare carponi nel suo cervello”. Ma è vero altresì che esistono contesti in cui la tempestività può fare la differenza tra la vita e la morte ed è quindi imprescindibile, come nel caso di una rianimazione o di un pericolo da schivare. Anche lo spettacolare avvitamento su se stesso di un pattinatore, richiede una veloce realizzazione per renderlo un campione. Allora ben venga la velocità quando è necessaria ma siano benvenuti con altrettanta dignità la lentezza, la riflessività o il rallentamento, quando potrebbero scongiurare disastri, anche perché può capitare che siano illusoriamente confusi o classificati. Il rischio è quello di centrifugare tutto senza discernimento, anche la vita insieme alle cose.
Purtroppo è inequivocabile la violenza dell’attuale capitalismo o quella velocità che archivia l’orrore per passare con disinvoltura all’orrore successivo. Michael Moore ci dice, ad esempio, che esiste un occulto business di multinazionali che stipulano polizze milionarie sulla morte dei loro dipendenti socialmente più marginali, giovani donne, ad esempio… E la velocità con cui si agita e delibera la Borsa di Wall Street?