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L’ultimo suono del tutto

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L’ultimo suono del tutto

Tum.

(il suono di un grosso tamburo

fatto vibrare per svegliare la luna)
Tum.

(il suono dell’ultimo libro sulla faccia della terra

che cade da una scrivania impolverata)

Grida d’uccelli. Si apre una finestra, trecento metri circa, sulla sinistra, vicino all’albero caduto. Un cigolio leggero, metallico, poi l’anta si apre del tutto, e il vento, togliendola dalla presa insicura della mano, la fa sbattere contro il muro macchiato. Nel silenzio rimbomba l’eco tra gli edifici.
Un cane scuro e magro si ferma di scatto, con le orecchie dritte, e le tre zampe buone pronte a schizzare via, come il vento. Appoggia male la zampa ferita, che sembra quasi piegata alla rovescia. Vuota la vescica contro la gomma di una centoventisette che in tempi migliori poteva essere bianca, e con i suoi occhi neri neri scruta nervoso il pomeriggio opaco che lo circonda.

Tum.

(il suono di un cuore amplificato mille volte)

Il cane abbia furiosamente al nulla che sovrasta questa parte della città, e poi si getta tra le macerie, sparendo alla vista. Venite, sembra dire, venite se potete. Il mio regno giace dove il melo spezzato traccia lettere al cielo. Venite.
Io aspetto in silenzio in questa stanza devastata, con gli occhi sbarrati, la mascella come paralizzata, tentando di convincere il mio cuore a rallentare il bolero che sta impazzando, in tutto il suo tragico splendore, dentro al mio petto e alla mia testa.
Chiudo gli occhi e li riapro più volte. Passo la lingua contro i denti. La gola è secca e di tutto il giorno è rimasto solo il sapore stantio di un po’ di vecchia birra. Il cielo è grigio; poche nubi, ma molto scure fanno da rattoppo per una realtà che sembra avere ormai perso ogni colore.
E sento ancora i mortai cantare in lontananza. Sento le favole dei bambini risuonare in ogni pozzanghera che appesta la via del corso, sento le grida dei vecchi nei cortili ora distrutti, sento le litanie sussurrate al buio dentro i bunker levarsi al cielo per pregare e preparare nuova rabbia.
Il freddo del fucile non mi tranquillizza. I denti si stringono ancora, fino allo spasmo. Mi sembra di sentire le formiche camminare lungo il muro. I topi respirare tra gli scatoloni di cartone accartocciati per l’umidità, disposti come mandala vicino al vecchio armadio.
Dalla finestra di prima odo una voce giovane dire qualcosa in fretta.
Un’altra risponde più adagio, saggiando le parole una per una, gustandone il suono e aspettando dal cielo come un responso. Un’altra finestra si apre sulla strada. Mi immagino un viso sporgere.
Stringo le mani attorno alla canna, chino il capo, chiudo gli occhi.
Dove sono?, mi chiedo.
Chi sono?
Un diavolo che prende il suo pezzo di inferno tra le strade di una vecchia città?
Una vittima.
Si?
Rilasso la presa. La destra scende fino al calcio, e poi risale al grilletto. Mi metto in posizione, con il fucile a quarantacinque gradi sul petto. La schiena scivola contro il muro, guidata dalle gambe che iniziano a distendersi. L’orecchio tocca il legno della finestra. Sono di nuovo in piedi.
Il caricatore è al suo posto. La sicura è tolta. Il mondo è là fuori che aspetta ancora me.
La prima voce ricama una ghirlanda nell’aria. Sembra un ragazzino.
Forse chiede aiuto. Forse il pane.
La seconda risponde con un tono differente, secco, schivo.
“Uno”, penso, “due”
” tre”.
Chi sono? Mi chiedo.

Nessuno.

Fuoco.

Tum.

(il suono dell’ultimo uomo che cade al suolo,

l’ultimo suono del tutto)
Marco Giorgini

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