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In difesa delle lettere

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Breve saggio

in difesa delle lettere

Sgomberiamo subito il campo da un possibile, ragionevole equivoco: le lettere di cui si parla non sono, per traslato, le opere dell’ingegno, ma quei semplici oggetti, composti di foglio e busta, costituenti mezzo di comunicazione, usato d’ordinario per corrispondenze con una persona lontana.
Avrebbe, infatti, questo scritto voluto essere una ferma presa di posizione, una dignitosa rivendicazione, una battaglia, sia pure, non lo nego, di retroguardia.
Dato però l’odierno, ed ormai cronico, andazzo delle poste, dovrò adattarmi a qualche cosa di meno ambizioso, definibile più modestamente come uno scampolo di nostalgia.
Come potrei, in tale situazione -dato che fra i miei difetti più gravi non ha mai albergato l’ottimismo- combattere una battaglia già perduta in modo definitivo, storico?
Il mio intento era, o per dir meglio sarebbe stato, quello di rivendicare il primato della lettera, come mezzo di comunicazione di idee e sentimenti, rispetto al telefono e ad altri mezzi meccanici portati dal progresso.
Non posso però non rendermi conto che una missiva impiega a percorrere lo spazio fra due luoghi del nostro bel paese un tempo medio compreso fra i quattro giorni ed i quattro anni (adesso che è tutto elettronico, perchè con i sistemi “antiquati” andava assai meglio).
Ed allora?
Allora, non credo che tutte le mie armi -parlo di mezzi come mezzi della polemica beninteso ed anche per restare ancorato alla metafora guerresca dell’esordio- siano spuntate.
Dice la pubblicità della S.I.P.: “Il telefono, la tua voce”. E’ innegabile, ma io posso replicare con tutta tranquillità: “La lettera, la tua anima”.
Intendo dire che, rispetto alla immediatezza data dalla voce umana, posso vantare per il mezzo da me difeso, accanto ad una indubbia minor celerità, una ben maggiore precisione. Una telefonata può essere anche deludente, ed anzi non riesce quasi mai a non esserlo data la forzata concentrazione di tempo, mentre una lettera raramente lo è, o lo è soltanto se colui che scrive vuole deliberatamente lasciare le cose nel vago.
Una lettera è meditata, perfino allorchè appare scritta ab irato, e ciò perchè -se non altro durante la stesura- l’estensore ha il tempo, quel tempo di contare fino a trenta prima di dire cose irrimediabili
-come suggeriva quel saggio imperatore romano- che gli consente, gli impone, di ben valutare ciò che vuol esprimere.
Stendhal dice da par suo (in una lettera, ovviamente) lui, uomo totalmente immerso nel suo tempo quanto consapevolmente destinato all’immortalità, che “L’exprit examinant les dègrès de probabilitè, le coeur sent mois”. Il che non significa affatto, come ad un lettore superficialmente potrebbe apparire, che l’intelletto deve (può) eliminare il sentimento; sebbene che, in primo luogo, ogni problema umano è innanzitutto un problema logico e, inoltre e conseguentemente, che la ragione, la riflessione non debbono eliminare i sentimenti, tutti i sentimenti (perchè se questo avesse inteso avrebbe detto “le coeur ne sent pas”) ma solo quel troppo di sentimento che, non preceduto da un esame critico, null’altro sarebbe se non un intrico di sensazioni fuorvianti.
“L’exprit” serve dunque a far chiarezza, a togliere “il troppo e il vano”.
Questo fu, sin dalle lontane origini, il pregio ineguagliabile della scrittura, che divenne sempre più necessaria come garanzia di esattezza di quanto si intendeva trasmettere o tramandare.
La tradizione orale aveva i fondamentale difetto che, alla fine, dopo giorni o anni (immaginiamo dopo secoli!) non si poteva mai avere la sicurezza che quel che arrivava fosse conforme a quel che era partito, avendo ciascun uomo la naturale tendenza ad arricchire con le proprie idee, magari per travisare quelle degli altri, il messaggio originario.
La telefonata va bene per gli auguri di compleanno (naturalmente quando la ricorrenza è rammentata all’ultimo momento) ed è addirittura necessaria per la conclusione di contratti di borsa, ma nelle innumeri altre occasioni che sorgono dalla vita di relazione non può competere con lo scritto.
Se Meucci (o Bell, non voglio impancarmi in polemiche) avesse inventato i telefono un paio di secoli prima, e cioè trent’anni prima della fine del seicento, saremmo privi di fonti storiche di importanza determinante per ricostruire la vita degli uomini che ci hanno preceduto in questo mondo.
A parte le lettere d’affari o simili (anche queste però vere e proprie miniere d’informazioni, se pur in subiecta materia) le lettere del settecento, e non soltanto quelle di personaggi illustri anche se principalmente quelle, ci forniscono una tale ricchezza di dati e di idee da cui non è possibile prescindere per un’esatta conoscenza della storia. So bene che qualche studioso arriccia il naso di fronte alle lettere (salvo poi ad utilizzarle) affermando che con l’esame delle lettere non si fa della storia, ma semplicemente dell’aneddotica. Se alcune lettere mi chiariscono le abitudini ed il carattere di un personaggio storico, è indubbio che posso ricavarne la spiegazione di suoi comportamenti che, se non conoscessi quei particolari, il più delle volte di per sè insignificanti, resterebbero come meri dati, fatti accaduti ma inesplicabili.
A quel tempo delle lettere si facevano copie, che venivano lette in riunioni.
Un biglietto di Voltaire valeva un elzeviro, una sua lettera aveva la pregnanza di un saggio.
Quale critico odierno, ora che pare che la stroncatura non sia più di moda ma anzi indice di cattivo gusto, direbbe per telefono ad un autore: “Il vostro libro avvicina davvero alla natura, perchè dopo averlo letto vien voglia di mettersi a quattro zampe?” (oltretutto, della telefonata non sarebbe restata traccia). La pubblicità del fatto fece sì che il malcapitato autore, che sperava in un incoraggiamento e dovette restare perciò non poco deluso, fu spronato dalla sferzata e non smise affatto di scrivere, per fortuna possiamo dire noi.
Quando m’innamorai di una donna, e non è poi un secolo, non pensai nemmeno per un attimo di dirglielo per telefono -credo che, intelligente com’era, lo avrebbe ritenuto di pessimo gusto, perchè avrebbe voluto dire imporle la mia presenza senza esserle vicino- ma, essendo impossibilitato a vederla di persona e volendole d’altro canto subito manifestare il mio sentimento, le scrissi una lettera, e l’esito fu felice. Dubito assai che ora vivrei con lei se mi fossi servito del telefono.
Le uniche occasioni in cui mi espressi con totale abbandono, e senza quella timidezza che abitualmente rende difficili i rapporti fra le generazioni, verso il mio secondo figlio fu allorchè gli inviai tre lunghe lettere nella città in cui prestava il servizio militare.
Ritengo altresì che sarebbe assai utile che i ragazzi che i ragazzi potessero esaminare nelle scuole le lettere degli scrittori, quei messaggi cioè che vengono inviati non, come i libri, ad incertam personam, ma ad una persona determinata, dove le idee dell’autore, senza la preoccupazione dell’immortalità, vengono espresse direttamente, non quindi per la mediazione dei personaggi, ed anche su cose della vita di ogni giorno. Sarebbe un modo intelligente, e legittimo, di contrastare il linguaggio degli slogan pubblicitari, devastante per il gusto e per l’apprendimento della lingua.
Debbo ammettere tuttavia, e potrebbe sembrare una contraddizione con l’assunto fin qui sostenuto, che fra i generi letterari i romanzi epistolari non sono quelli che prediligo, per la ragione che, sostanzialmente e nonostante l’apparenza, con le lettere nulla hanno a che vedere, null’altro essendo se non un artificio per esprimere
-assertivamente a due voci- le opinioni di un solo individuo, che finisce inevitabilmente a dar ragione a se stesso. Vi è quindi un tasso di callidità superiore a quello contenuto in qualsiasi romanzo tradizionale, in cui le tesi dell’autore sono esposte dai personaggi, che se assumono per intero, senza farsi schermo di un interlocutore fantasma, la responsabilità.
E’ ovvio che un tale scarso apprezzamento per u genere letterario trovi la sua eccezione: come non ammirare la perfezione della forma, la magistrale esposizione di un distillato di perfidia di un de
Laclos? Ma qui siamo in presenza del capolavoro, e non vedo nulla di equivoco nel sostenere la scarsa validità di opere che narrino viaggi nell’aldilà, facendo l’eccezione di Dante.
I romanzi epistolari mi hanno sempre fatto l’effetto di quelle compagnie di giro che, per scarsità di budget, erano costrette a far recitare due parti allo stesso attore: il pubblico avvertito non mancava di accorgersi della cosa e il risultato dell’operazione non era positivo.
Neppure altri mezzi tecnici portati dal progresso possono competere con la lettera. I registratori ed altri simili ordigni trasmettono bensì, come il telefono, la voce di chi parla (con l’indubbio vantaggio di conservarne il suono) ma, a meno che non si tratti di un oratore, che per di più non sia in preda ad emozioni od amnesie, il discorso risulta farcito di incisi, ripetizioni, correzioni che non rendono l’ascolto soddisfacente, almeno non in misura pari alla lettura di uno scritto, che può essere meditato ed è esaminato in silenzio, il che favorisce la concentrazione.
L’estetica, infine. Provate a confrontare la caduta di un registratore, o di una cassetta registrata -quel rumore sgradevole, di pentola fessa, come percussione di un cranio fratturato- con quella di una lettera, che va verso il suolo planando come un gabbiano o, se cade da molto in alto, con il lento, circolare evoluire di una farfalla.
Dopo questa autentica perorazione, mi par di sentire la maligna domanda di quanti, che so bene essere al maggioranza, siano di parere contrario al mio: tu, coerentemente a quanto sostieni, scrivi spesso lettere?
Ahimè no! Bisogna pur essere onesti, nemmeno io lo faccio più; anch’io mi servo sempre più spesso del telefono. E la pigrizia non può costituire una valida giustificazione.
E’ proprio il caso di dire, con Orazio: “Video meliora proboque , deteriora sequor”.
La tesi resta nondimeno del tutto valida. Per dimostrarlo, come un avvocato che difende la sua causa, non ho che a citare i miei testimoni. Commuovetevi con me leggendo le lettere fra Eloisa ed
Abelardo, entusiasmatevi con quelle in cui Madame Du Deffand raccontava le dispute che si svolgevano nel suo salotto fra i frequentatori abituali, che si chiamavano Voltaire, D’Alambert,
Montesquieu; inteneritevi per la delicatezza di sentire, per la sollecitudine con cui Saba scriveva alle sue Line. E basta coi testi, perchè la lista, per fortuna mia e di tutta l’umanità, non avrebbe fine!
E non limitatevi a leggere le lettere; scrivetene anche!
Confido, infatti, che queste poche righe possano costituire al tempo stesso una proposta ed un proponimento: scriviamoci qualche lettera, rubando magari un poco di tempo non soltanto al cinema ed alla televisione, ma perfino alla lettura; sono tutte cose splendide, ma passive!
Vediamo di renderci attivi, con profitto nostro e degli altri!
Diciamoci nella forma migliore di cui siamo capaci(il che non guasta!) le cose che finirebbero irrimediabilmente per restare non dette, che potremmo rimpiangere di esserci tenute dentro.
E’ questa una nostalgia che soprattutto i meno giovani possono intendere, perchè ognuno di loro ricorderà, come io ricordo con un’amarezza che ancora mi pesa, le cose rimaste sepolte in noi quando muoiono i nostri genitori e, in genere, tutti coloro con i quali ci siamo voluti bene.
La timidezza, la pigrizia, la tendenza a rinviare le spiegazioni, a sfuggire i nodi cruciali del rapporto con altre persone pure a noi vicine, ci hanno impedito di far sapere a chi ci era caro quel che ci passava per la mente, quel che avevamo in cuore.
Questi rimpianti, credetemi, diventano insopprimibili, mettono radici dentro di noi; per dirla con i giuristi, passano in giudicato, e non esiste, nella vita, alcuna possibilità di riaprire un giudizio di revisione.

Giovanni Lodi

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