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26° TORINO FILM FESTIVAL – TORINO 2008

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L’uscita un po’ ritardata delle mie impressioni sul 26° Torino Film Festival, mi consente anche di commentare la notizia della rinuncia di Moretti alla sua organizzazione per i prossimi anni.

«Sono stato felice della possibilità che mi è stata data e alla quale mi sono dedicato con grande impegno. Il prossimo anno realizzerò il mio nuovo film e non potrò più garantire la stessa attenzione e lo stesso lavoro al Torino Film Festival. Lascio un Festival unico nel panorama italiano, che potrà crescere ancora continuando a sostenere il buon cinema indipendente e d’autore. Naturalmente il successo di questi due anni non sarebbe stato possibile senza il prezioso contributo di collaboratrici e collaboratori, che ringrazio con amicizia e che spero continueranno a lavorare nelle prossime edizioni del Festival. Sono grato a Torino che mi ha accolto con molto affetto e discrezione».

Assolutamente legittimo e naturale che Nanni Moretti abbia voglia di tornare ad occuparsi del suo cinema, era anche previsto che lo avrebbe fatto in tempi brevi, aveva dichiarato la sua disponibilità per un paio d’anni, e nonostante il rinnovato invito del Museo Nazionale del Cinema e dell’Associazione Cinema Giovani a proseguire, il regista romano aveva probabilmente già deciso. Ma siccome in Italia si pensa sempre male, ed io non sono un’eccezione, prima di sapere di questa decisione, avrei scommesso che Moretti non sarebbe durato a lungo. Dai miei appunti di quei giorni: «… dall’aria che tira, si è ben compreso che il minimo passo falso gli sarà fatale». Le sensazioni in questi due anni a Torino, è che non tutti fossero con lui, e che in diversi non l’abbiano mai visto di buon occhio, per varie ragioni, soprattutto politiche, intese sia in senso ampio che cinematografico. Le ultime polemiche di quest’anno sulla non presenza di film italiani in concorso (giustamente, se mancava la qualità), ed affidare l’apertura al film di Oliver Stone “W.”, sul presidente americano uscente W.Bush, non voluto al Festival di Roma, si inseriscono a mio parere in questo filone. Comunque è stato lo stesso Moretti a tagliare la testa al toro, annunciando la sua rinuncia nel momento di maggior culmine, dati alla mano, del Festival di Torino.

79% in più di incassi, oltre il 70% in più di spettatori, +47% di accrediti, già l’anno scorso, +44% di vendita biglietti, +20% di abbonamenti nei primi tre giorni di quest’anno (rispetto l’anno scorso).

Personalmente, il Festival di quest’anno, mi ha ovviamente sorpreso meno di quello scorso, essendo una continuazione dell’ottima strada tracciata in precedenza. Anche quest’anno si sono proposte interessantissime retrospettive come quella su Roman Polanski, Jean-Pierre Melville e la ” British Renaissance ” movimento cinematografico inglese degli anni 1980-1990. In generale, le pellicole del concorso ufficiale, dei fuori concorso e delle altre sezioni del Festival, sono risultate di buona qualità, ma non hanno espresso delle punte di eccellenza di riconoscibile valore, come, a mio parere, era avvenuto l’anno precedente. Per il concorso ufficiale, fra le diverse pellicole che ho visionato, parlerò più avanti del film vincitore, “Tony Manero”di Pablo Larraín (Cile/Brasile, 2008, 35mm, 98′), e del film che più mi ha incuriosito, “Die Welle” di Dennis Gansel (Germania, 2008, 35mm, 93′). Volevo segnalare due film, da prendere in considerazione in un’eventuale uscita. Il primo è “Filth And Wisdom” di Madonna (proprio lei, la cantante), ma non scandalizzatevi, nonostante o forse grazie al mio grande scetticismo è risultata essere anche una pellicola gradevole, che ha confermato la buona presenza scenica del leader del gruppo rock “Gogol Bordello”, Eugene Hutz, già visto nel film “Everything Is Illuminated” a fianco di Elijah Wood. Il secondo è il documentario di Gabriele Vacis “Uno Scampolo di Paradiso”, in cui il regista ci parla della sua città natale, dove ancora vive, Settimo Torinese, e delle dinamiche di crescita di un paese di provincia legato a Torino ed alla Fiat, dal dopoguerra ad oggi.

Si spera che, nonostante la rinuncia di Moretti, il Festival di Torino resti legato al buon lavoro fatto negli ultimi due anni, e che il successore mantenga viva la qualità cinematografica proposta e la sobrietà dell’evento, senza piegarsi ad esigenze “politiche” o “commerciali”, rinunciando ad idee da “tappeto rosso”, a cui peraltro il Festival, nella sua storia, non si è mai piegato. Un’ ultima raccomandazione sarebbe quella di migliorare l’aspetto organizzativo, soprattutto se fossero mantenuti i presupposti di presenze degli ultimi due anni. Gli aspetti da migliorare sono diversi, nella gestione delle sale e dei film (non è concepibile che ad una proiezione ci siano più persone rimaste fuori, di quelle presenti all’interno), nella tipologia di sala (in alcune sale è realmente faticoso leggere i sottotitoli, per gli schermi troppo bassi), nelle fruizioni delle sale stesse (non si capisce dove inizia una fila, per quale sala è, e che tipo di fila sia, se per l’accesso o per il biglietto), nel rapporto capienza del cinema, numero di biglietti venduti, numero di accrediti assegnati, per assicurare un logico numero di spettatori alle proiezioni, senza doversi imbarcare in code chilometriche e tempi di attesa eccessivi, in modo da poter organizzare una buona mappatura del Festival ed assistere a tutte le pellicole interessate.

Pellicola vincitrice del 26° Torino Film Festival – “Tony Manero”di Pablo Larraín (Cile/Brasile, 2008).

Santiago del Cile, 1978, nel pieno della dittatura di Pinochet.

Le star del cinema americano si vedono al cinema, e la televisione di regime organizza concorsi a premi per trovare i sosia cileni dei vari Chuck Norris, John Travolta ecc…

Il cinquantenne Raùl Peralta alias Tony Manero (dalla pellicola “La Febbre del Sabato Sera”), è un ballerino ormai sul viale del tramonto, che aspira a vincere il concorso come suo sosia, per uscire dalla miseria che lo circonda. Raùl-Tony, oltre ad essere ormai uno spiantato che vive di espedienti per sbarcare il lunario, è in realtà una persona abbietta, che risiede a pensione da una donna sua coetanea innamorata di lui (forse hanno avuto una storia precedente). L’uomo ha una relazione con la figlia di lei, ma non nasconde neppure l’interesse sessuale verso la figlia adolescente della sua ragazza, fidanzata con un giovane militante clandestino, contrario al regime. Tutto il gruppo gestisce un ristorante bettola, dove si organizzano anche spettacoli di ballo, di cui Tony è la star principale. Tony non ha alcun legame di affetto con le persone che lo circondano, si muove seguendo solo i suoi interessi personali, nel suo unico obbiettivo di vincere il concorso televisivo dei sosia di “Tony Manero”. Non è assolutamente interessato alla terribile situazione sociale derivante dal regime dittatoriale, non dimostra nessun tipo di umanità e di solidarietà nei confronti degli altri, ed arriva persino ad uccidere per perseguire il suo scopo.

La pellicola traccia in maniera drammaticamente lucida, la devastazione del regime dittatoriale di Pinochet, devastazione non solo sociale ed economica, ma anche spirituale, dove le persone cancellano qualsiasi solidarietà politica, civile e morale nei confronti delle altre persone, nell’unico tentativo di elevarsi dalla “feccia”, seguendo i modelli consumistici americani dell’epoca.

“Die Welle” di Dennis Gansel (Germania, 2008).

In una scuola superiore della città, viene organizzata una settimana a tema, dove ogni studente sceglie un corso che illustri i vari modelli politici sociali, da quelli anarchici, ai regimi totalitari.

Rainer Wenger è un giovane insegnante dal passato rivoluzionario, proveniente dagli ambienti di sinistra dei centri sociali e delle occupazione di case, molto carismatico e ben voluto dai suoi allievi.

Gli viene assegnato il corso sull’autocrazia, nonostante gli sforzi di vedersi assegnato quello sull’anarchia, ed a malincuore accetta l’incarico. Mr. Wenger si accorge ben presto che i suoi studenti trattano molto superficialmente il tema del nazismo, bollandolo come una cosa negativa successa nel passato, che però oggi non potrebbe più realizzarsi. Allora, gli viene in mente di spiegare il fenomeno del nazismo, creando un gioco di ruolo in cui la classe utilizzi le metodologie, gli slogan ed i comportamenti alla base della nascita di una dittatura. Lui stesso viene proclamato leader, e la classe comincia a darsi delle regole di comportamento comuni, diventando così un movimento a cui viene assegnato una sigla identificativa, “l’onda”, e si decide anche una divisa (una semplice camicia bianca ed un paio di jeans) ed un saluto che identifichi il gruppo. Il carisma del professore ed il passa parola, fa presto confluire nella classe parecchie persone anche da altri corsi, e si decide quindi di chiudere il numero per non penalizzare gli altri professori. Nella classe si instaura una vera solidarietà ed un senso di appartenenza molto forte, le regole che annullano l’individualità all’interno del gruppo, se da un lato ne fanno uscire le persone meno disposte ad accettarle, costrette a lasciare il corso, dall’altro migliora la qualità dei rapporti invece di chi ha deciso di accettarle, con un netto miglioramento generale anche del lavoro scolastico. La simulazione funziona fin troppo bene, e ben presto il movimento esce dalla classe e dalla scuola. Vengono organizzati volantinaggi e scorribande, utilizzando anche internet, per dar rilievo al gruppo, e la solidarietà fra i propri membri, si esprime anche all’esterno. Quando alcuni studenti, soprattutto i più emarginati precedentemente, si identificano troppo nella simulazione e nel movimento, la situazione degenera in fanatismo, e non si è più disposti ad accettare chi non fa parte “dell’onda” e ne segue le sue regole. In giro c’è un po’ di preoccupazione, ma ormai la settimana è giunta al termine, ed il professore ha raggiunto il suo scopo, ha dimostrato ai suoi allievi che la dittatura è sempre possibile, in qualsiasi condizione ed epoca. Il professore non si è reso conto, però, che ha anche ormai perso il controllo della cosa, e le conseguenze saranno drammatiche.

Questo film, che trae ispirazione da un esperimento scolastico effettuato in un’università americana alla fine degli anni 60′, e che ho personalmente più apprezzato del precedente, candidato anche nelle aspettative di molti ad ottenere il riconoscimento del Festival, è stato ben giudicato dalla stampa, ma ritenuto troppo fantasioso nello svolgimento: non si è accettata la tesi della dittatura “facile”, argomentando che se così fosse, nel mondo dovremmo assistere alla nascita di regimi totalitari in continuazione. Queste spiegazioni mi hanno lasciato perplesso, e per un momento mi è venuta in mente la situazione in Italia …

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