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Tre Colori – Film Blu – Krzysztof Kieslowski

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LA NATURA AMBIGUA DELLA LIBERTA’

 
1.     il blu e i contes philosophiques di Kieslowski
    “Film blu” narra la vicenda di una giovane donna che perde il marito e la figlia di pochi anni in un incidente stradale, al quale lei stessa è sopravvissuta, e vive un tormentato periodo di rivoluzione interiore, nel quale ha solo coscienza della vacuità di ciò che la circonda: dall’ultima composizione del marito, musicista famoso – rimasta incompiuta -, ai percorsi abituali attraverso i quali si snoda l’intera esistenza. Come strappata traumaticamente a una rete di legami consolidati con la realtà, in questo periodo di riassestamento interiore è posta forzatamente in una diversa prospettiva rispetto alla sua stessa (precedente) vita. Questa appare, ai suoi occhi, progressivamente più estranea: finché la scoperta di una relazione che il marito aveva con un’altra donna arriva definitivamente a riscuoterla dal torpore in cui era scivolata, con il renderle evidenti fino in fondo l’ambiguità di cui erano intessute le cose che le appartenevano – in una vita ormai da lei distante come un remoto passato. Quella scoperta sarà il passo decisivo dallo sconcerto al disincanto: una maturazione che le consentirà di “resuscitare”; e di far risorgere, assieme a se stessa, quella partitura che il marito stava componendo, e che lei inizialmente non avrebbe voluto fosse mai conclusa e resa pubblica.
 Kieslowski gira il primo film con budget occidentale, e il maggior finanziamento è stato ben utilizzato dal regista, che ha girato una delle sue opere più belle dal punto di vista estetico, in cui l’abituale attenzione per il dettaglio e l’intelligenza nell’uso dei simboli si avvalgono per la prima volta di una grande produzione. Ma “Film blu” è soprattutto il film di un regista polacco che scruta (e indaga clinicamente) la vita della società occidentale: non più semplicemente l’uomo e i mali connaturati alla sua natura, come negli episodi del Decalogo. Kieslowski, come sempre, affianco alla trama sviluppa (così come si svela il mistero in un giallo) una riflessione articolata, fatta di suggestioni,  impostata su un teorema di fondo di precisione e coerenza assolute.
 Il ciclo di film “Tre colori” intende esaminare, in rapporto ai tre colori della bandiera francese (la bandiera della Rivoluzione), in ciascun film uno dei tre termini del motto “liberté, egalité, fraternité”, in cui si rintracciano tre grandi mitologie della “società borghese”. In “Film blu”, Kieslowski svela la natura ambigua della libertà. Libertà di costruire – in piena disponibilità di mezzi e autonomia di scelte – la vita di ciascun individuo, di una famiglia e di una società? O non prigione di abitudini, gabbia di affetti artificiali e semplice necessità di quotidiane sicurezze? Libertà allora da tutto questo – come aspirazione segreta, ma “rimossa” e fastidiosa come la presenza di topi nella nostra casa? E, allora, aspirare alla libertà cosa significa: uno stimolo alla coesistenza sociale, o una subdola vocazione alla solitudine?
 Kieslowski in primo luogo evita di affidare il suo “punto di vista etico” a un film sulle brutture della società in cui viviamo: non gira una specie di documentario, non fornisce una piatta descrizione del male nel quotidiano …non è un minimalista; e non vuole colpire allo stomaco, ferire lo spettatore. Tutto ciò che in Kieslowski c’è, di critica sociale, è sfumato e ridotto a scenario della vicenda sviluppata nella trama. Kieslowski è un ottimo “drammaturgo”: per la lucidità con cui mantengono fede agli assunti, i suoi film sono quasi “contes philosophiques”. Sua preoccupazione, nell’affrontare un film, è quella di creare una “situazione drammatica” particolare, non comune (e, nel caso di “Film blu”, “estrema”), calata in una realtà di cui ci dà una descrizione soltanto trasversale ed incidentale. Allo stesso tempo, Kieslowski evita di raccontare una vicenda che sia scopertamente paradigmatica: “il film avrebbe dovuto inizialmente raccontare la storia di qualcuno che esce di prigione e capisce che la libertà che ha ritrovato è in realtà una schiavitù. (…) Ma ci sembrava un po’ troppo rigido, perché anche una situazione particolare della nostra vita può ugualmente essere una prigione”[1]. Il fascino dello stile di Kieslowski sta in effetti nella sua capacità di toccare grandi questioni dell’esistenza in via quasi incidentale, lasciando allo spettatore la libertà di decifrarle attraverso gli indizi di cui è disseminato il film.
 Voler sintetizzare le riflessioni di Kieslowski sarebbe un modo di distorcerle: forse si potrebbero ricucire parole all’infinito, attorno alla poetica di questo artista fondamentale del Novecento; però quello che lo fa grande è la sua dote di scolpire tra le immagini riflessioni (di grande lucidità e sottigliezza) senza avvalersi di modi diretti per esprimerle, ma filtrandole attraverso le suggestioni della visione. Nei film di Kieslowski si avverte una risonanza contemporaneamente metafisica ed estetica. “Pochi cineasti pervengono, come Kieslowski, a trovare degli equivalenti concreti, sensibili, di idee astratte, di intuizioni intellettuali”[2]. Quasi nessun regista, o romanziere, si è dimostrato altrettanto capace di calare in una struttura narrativa un “teorema”, preventivamente elaborato, che fosse in grado di suscitare lo stesso stupore che le intuizioni di Kieslowski destano nello spettatore – senza mai apparire scontate, astratte, deboli nella costruzione o nella resa. Il cinema, anzi, più della narrativa, è un’arte che non tollera eccessive prese di posizione intellettuali o schematismi avulsi dalla narrazione. Dove questi esistono, in genere appesantiscono ciò che dovrebbe essere leggero, e provocano dubbi sulla necessità di girare un film e di esprimersi artisticamente. Il fatto che Kieslowski sia riuscito a dimostrare che uno sguardo attento può evitare la retorica, e muoversi agilmente tra le righe di un preciso pensiero, va considerato a mio avviso il principale motivo della sua originalità e della sua assoluta grandezza.
 
2. la gabbia della negazione
      Durante tutta la prima parte del film, Julie (la protagonista) scopre/insegue/è catturata dall’apparizione del vuoto che si cela sotto le apparenze. Il tranquillo scorrere delle cose in una fase di continuo dormiveglia, al quale Julie è sottratta, è ricordato dalla lunga sequenza iniziale, in cui, prima dell’incidente, la strada percorsa dall’automobile è osservata da insolite inquadrature poste al di sotto dell’auto, con primissimi piani dei pneumatici in corsa. La vita che corre incontro, ignara, alla propria fine. Un particolare – gocce d’olio che colano da qualche conduttura – suggerisce il possibile guasto, causa dell’incidente, ignoto ai passeggeri della vettura.
 Julie, in ospedale, fa un primo incontro con lo spettro della negazione. E’ l’angosciosa attrazione per il suicidio. Ma qualcosa in lei resiste, e non la fa agire con determinazione: forse è già la curiosità inconscia per una ripresa dell’esistere, assistendo allo sciogliersi e allo scorrere via della sofferenza. Assistiamo in questa scena a una prima emersione delle tensioni e delle contraddizioni che si agitano nell’animo di Julie. Resta bloccata con le pillole in mano; è un momento di sospensione, in cui l’immobilità è tensione vibrante. “La forza vitale e quella suicida agiscono in lei con eguale intensità e potenza, annullandosi vicendevolmente (…). L’immobilità si rappresenta, (…) da questo momento in avanti, come la prima, provvisoria soluzione o istintiva, primitiva reazione di Julie alla condizione paradossale in cui si trova e, come tale, in prima istanza si traduce nell’inerzia assoluta”[3].
 Dimessa dall’ospedale, Julie si trova a fare i conti con ogni genere di suppellettili che le erano familiari, e che adesso, a lei superstite, appaiono reperti di un’altra vita, bruscamente interrotta, che già non le appartiene più. Dalla stessa villa di campagna, che decide di vendere, alle bozze della composizione musicale cui il marito stava lavorando, fino al contenuto della borsetta che teneva con sé al momento dell’incidente. E’ straordinaria la scena in cui svuota il contenuto della borsa, si sofferma su un lecca-lecca (blu), appartenuto alla figlia morta e non ancora scartato, un lecca-lecca che prima prova a succhiare, poi rabbiosamente distrugge a morsi e ingoia disperatamente. Mentre rovescia il contenuto della borsetta assistiamo a un traumatico recupero alla memoria di oggetti confusamente ammassati nell’inconsapevolezza che la vita si sarebbe spezzata (così caotica apparirebbe una nostra condizione interiore, se la “congelassimo” in un momento qualsiasi della nostra esistenza). Ora tutta quella roba è sopravvissuta al contesto che dava ad essa un senso, e privata in modo insopportabile della sua leggera inconsistenza: ha acquistato un innaturale valore “archeologico”. Julie è presa dalla smania di disfarsene, di distruggerla. Tenta dapprima a dare una ripresa alle cose (succhia il lecca-lecca come nulla fosse); poi, accortasi del suo patetico tentativo di riappropriazione di un contesto ormai distrutto, è schiacciata dall’angoscia e frantuma, coi denti, il lecca-lecca, per ingoiarlo al più presto tutto d’un morso.
 Il maggiore reperto del passato è senza dubbio la composizione musicale incompiuta. C’è chi propone a Julie di volerla portare a termine. Lei rifiuta. E’ il gesto normale della moglie di un artista defunto: gli altri lo conoscevano per il suo talento; egli, per loro, era l’artista, e nient’altro. Ma per lei, la moglie, egli era il marito, un uomo innanzitutto e non un artista: perciò lei si oppone alle pretese del mondo esterno di riappropriarsi, del marito scomparso, nella specie dell’artista. E se fosse, invece, la sensazione, non veramente consapevole, di non conoscere, lei per prima, chi fosse suo marito e cosa fosse la vita che si è lasciata alle spalle – di lì l’impulso a cancellare e dimenticare?
 Il suo dramma, adesso, non è (come ripete a una invadente giornalista) semplicemente quello di “aver perso marito e figlia”, piuttosto quello di una progressiva percezione dell’ottusità e della vanità di tutte le cose, che, malgrado lei ne sia libera, la imprigionano con l’ambigua trama di significati che esse, le cose, non posseggono – come si crede – di per sé, ma di cui vengono arbitrariamente caricate. Adesso Julie non è soltanto “una che non fa niente”, ma una donna privata di un universo di certezze, su cui riposava la pacifica serenità in cui procedeva la vita. Perciò i suoi tentativi di negazione sono rivolti innanzitutto a se stessa, nei confronti di ogni sensazione e sentimento – e non più soltanto dei reperti del passato.
 A se stessi però non ci si può sottrarre[4]. Questo Julie lo dovrà accettare, nonostante la sua voglia di soffocare l’emotività. Un tentativo del genere è quello che fa invitando a fare l’amore con lei il collaboratore del marito, di lei da sempre innamorato: qualcuno, quindi, preda di una passione-illusione che ancora dà un senso a lei stessa. Voler distruggere in lui questa illusione, esortandolo poi a non vederla mai più, è un cinico modo di disfarsi del peso di ciò che lei ancora rappresenta per quell’uomo. Un altro patetico tentativo di non sentire è il torturarsi il dorso della mano contro il ruvido muro di cinta della villa: o che forse sia un tentativo di riuscire finalmente a piangere, nell’inconsapevole intenzione di ricominciare a provare dolore, ricominciare a sentire?
 
3. uno sguardo rinnovato
Film Blu descrive il tentativo della donna di uccidere le sue emozioni: ma quello che nasce come disegno disperato di negazone di sé, si trasforma in un lento riapprendere la vita[5].
      Julie risale la china dell’isolamento quando scopre di non poter annullarsi. Ma da sola non sarebbe in grado di riscattarsi, se non fosse per alcuni richiami che provengono casualmente dall’esterno. In realtà si tratta di una lenta trasformazione, in cui i suoi gesti e le sue reazioni oscillano tra la risposta a questi richiami e il rigetto di ciò che le si propone, come il rifiuto di accettare la catenella che il ragazzo testimone dell’incidente le vorrebbe restituire. O, ancora, il rifiuto crudele di mettere in salvo nel proprio nuovo appartamento l’uomo braccato che si rifugia su per le scale del palazzo. Del resto, quando i condomini le chiedono di firmare per cacciare dal palazzo la prostituta che abita al piano sotto al suo, lei dice di “non volersi immischiare” (ancora un rifiuto a lasciarsi invischiare dalla realtà, dunque): ma quando questa le si presenta per ringraziarla (con il suo rifiuto di firmare è stata infatti determinante per permettere alla prostituta di restare a vivere lì), quasi inaspettatamente si trova coinvolta nella vita di questa ragazza, che appare gioviale, simpatica e disponibile a fare amicizia.
 Il processo è graduale ed è scandito dai diversi momenti in cui Julie si rifugia nella solitudine di una piscina deserta dai riflessi azzurri. Sono momenti che consistono in brevi vie di fuga “drammatiche” della tensione accumulata durante la visione del film, e in calme pause di riflessione per Julie. A un certo punto, la vediamo ancora in piscina, non più sola, ma circondata da uno stuolo di chiassosi bambini. E ancora, ciò che del mondo la piscina non riesce a lasciar fuori, sono i passaggi della composizione musicale lasciata incompiuta dal marito: questi continuano a tornarle in mente come un richiamo persistente, e nel silenzio spettrale della piscina, dove solo lo sciabordio dell’acqua si sente, quella sontuosa frase musicale continua a penetrarle nel cervello anche se lei, per non sentirla, si cala sott’acqua…
 Il colore blu è associato, nel film, ai momenti di resistenza, da parte di Julie, al richiamo della solarità, della vita, della musica (i riflessi azzurri nel silenzio della piscina ne sono appunto un esempio).
 La prima volta che ascoltiamo il motivo musicale è dal tv-color portatile sul quale Julie, ancora in ospedale, segue il funerale del marito e della figlia. Poco dopo – ancora in ospedale – Julie si sveglia di soprassalto, destata da quelle stesse note, e “disorientata, sembra cercare fuori di sé la fonte del proprio sussulto. Da dove giunge la musica? E’ sogno o realtà, è fuori o dentro Julie?”[6]. La musica segna nel film l’irruzione dell’interiorità della donna, e scandisce le tappe del suo particolare percorso iniziatico. Essa vale “più come presenza drammaturgica e narrativa, che come architettura di suoni”[7]. Dal momento di quel risveglio, di quel brusco ridestarsi alla realtà dalla propria dimensione interiore (da lì proveniva la musica), “ogni impulso di vita, di musica, verrà contrastato dalla volontà di autoannientamento e di silenzio, espressa con la scelta del blu”[8].
 Per l’uso particolare della musica e de colore, “Film Blu è un’esperienza cinematografica totale (…). Kieslowski esplora qui, in modo innovativo, la ricchezza sensibile del materiale percettivo, scolpendo per così dire la luce e il suono”[9].
 Kieslowski ha disseminato per il film altri “simboli” che, analogamente a quello della musica, suggeriscono un richiamo alla vita. Tutti appartengono a quel “ragionare per immagini”, suo caratteristico. “Gran parte del messaggio del film è affidato ad eventi in cui l’evidenza della situazione supplisce ogni referenzialità dialogica”[10]: “bagliori d’incubo, dettagli di quotidianità, frammenti di ricordo e lacerti di vissuto. Come la Veronica del film precedente, la Julie di Film Blu non ci racconta gli eventi ma le loro periferie sensibili”[11].
 Addirittura, potrebbe alludere alla trasformazione interiore di Julie – che ricomincia a “farsi prendere” dalle cose – il dettaglio di una zolletta di zucchero che, immersa per metà nel caffè, assorbe la bevanda fin nella parte ancora emersa, dove è trattenuta tra le dita della donna. Naturalmente, il simbolo più significativo, al punto da apparire come evidente metafora, è il nido di topi che Julie si ritrova in casa. Il fastidio dei topi è paura della solitudine in cui si è cacciata, per essere libera dal mondo che l’ha fatta soffrire? Senza dubbio è paura di sé in trappola. In effetti, i topi non sono in trappola: sono liberi in una stanza della casa: ma sono sempre animali che, nella nostra psicologia, ci fanno apparire in trappola, quando si annidano nelle nostre stesse abitazioni. Julie li vuole morti: allo scopo si fa prestare un gatto, ma non ha il coraggio di tornare in casa per disfarsi di quello scempio, e si fa ripulire l’appartamento dalla nuova amica del piano di sotto… un’altra persona intrappolata dalla società. In tutta la vicenda, Kieslowski sembrerebbe alludere al cinismo dell’indifferenza reciproca della metropoli contemporanea.
 Arriva ad essere struggente la scena (particolarmente significativa, tant’è che il regista la ripropone in ciascuno dei film della trilogia), montata con dissolvenze splendenti di luce, in cui vediamo una vecchina ingobbita avanzare a fatica per la strada reggendo in mano una bottiglia vuota. Capiamo poi che tutto quello sforzo è dedicato alla riposizione della bottiglia in un contenitore per il vetro, nel quale con altrettanta commovente fatica l’anziana donna spinge la bottiglia, perché il vetro possa essere riciclato. Si tratta di un gesto quasi inconsistente di salvataggio: anche per una cosa così piccola vale la pena di fare tanta fatica? Che giusto valore hanno allora, sul serio, le cose? La scena non è osservata da Julie. Kieslowski ce la mostra infatti mentre si bèa di un limpido sole, all’aperto e in vista di quella vecchina; ma per tutto il tempo la protagonista resta ad occhi chiusi. E’ una specie di compassione, da parte del regista: quasi che assistere a quel delicato gesto di conservazione potesse essere troppo per Julie. Ma, intanto, anche lei sta attraversando la sua tormentosa fase di recupero dei valori non artificiosi che vanno attribuiti alle cose.
 
 E’ necessario che l’esperienza del vuoto abbia posto una grande distanza tra il presente e la vita passata, perché Julie trovi il coraggio di affrontare con decisione le occasioni che le si presentano. A un certo momento, comunque, decide di voler ascoltare la partitura. Partecipa attivamente alla composizione della parte incompiuta dell’opera: suggerisce il coro e tenta addirittura lei stessa soluzioni melodiche. Quando la televisione (onnipresente nel film[12], assieme ad altri strumenti tecnologici che pullulano nella vita quotidiana, a mediare tra i rapporti umani -simbolo della mancanza di autenticità, dell’artificiosità delle nostre relazioni) le mostra delle foto del marito che si nascondevano nel suo pianoforte, lei fa caso a una donna che non conosceva. Il migliore amico del marito, il collega musicista adesso incaricato di completare la composizione (che è anche l’uomo, innamorato di lei, servendosi del quale Julie aveva tentato di distruggersi i sentimenti), le svela che quella donna era l’amante del marito. Dunque, davvero Julie non conosce il proprio passato, non sa nulla della realtà dei rapporti intercorsi con la persona più cara che le sia vissuta a fianco.
 L’esperienza che ha fatto della vanità di tutto e la distanza che ha accumulato rispetto al passato le forniscono una sorprendente sicurezza al momento in cui decide, senza indugio, di voler conoscere quella amante del marito, una giovane avvocatessa.     
 
 La fine del film è condotta sulla falsariga della elaborazione definitiva della composizione musicale, con il coro che recita i versi di San Paolo sull’amore (dalla Lettera ai Corinzi): “potrei anche fare, essere… qualunque cosa, ma sarei niente, senza l’amore”. La musica sottolinea scene in cui si rivedono i vari personaggi comparsi nel film, e infine la scena d’amore tra Julie e il compositore ex collega del marito. Le parole di S. Paolo in questo contesto possono anche portare a pensare che, per realizzare davvero l’amore-carità paolino, si deve essere disposti ad accettare la fatalità del caso e della vita, con tutte le sue ambiguità. Ma rivedendo insieme tutti i personaggi del film, con la loro diversa umanità, appare evidente il monito a superare la solitudine: e senz’altro l’amore ricercato adesso da Julie, ideale come una composizione musicale, è altro che la “libertà” fatta di isolamento in cui si era cacciata. 
 


[1] K. Kieslowski, Una trilogia per sperare. A colloquio con Krzysztof Kieslowski e Krzysztof Piesiewicz, a cura di M. Fabbri, in K. Kieslowski, K. Piesiewicz, Tre colori. Blu, Bianco, Rosso, Bompiani, Milano, 1994, pp.314-315.
[2] A. Peck, Bleu. Une autre femme, in “Positif“, n.391, settembre 1993, p.18-19 (trad. it. da: C. Simonigh, Krzysztof Kieslowski. Tre colori – film blu, Lindau, Torino, 2001, p.121).
[3] C. Simonigh, op. cit., p.32.
[4] “La libertà a cui ambisce Julie diventa così una libertà illusoria, poiché nella vita è possibile liberarsi da tutto, fuorché da se stessi” (S. Murri, Krzysztof Kieslowski, Il Castoro Cinema, n.175, 1996, p.144).
[5] S. Muri, op. cit., p.144.
[6] C. Simonigh, op. cit., p.35.
[7] E. Comuzio, La musica del film, in “Cineforum“, n.327, ottobre 1993, p.64.
[8] C. Simonigh, op. cit., p.37.
[9] A. Peck, op. cit., p.18.
[10] S. Murri, op. cit., p.147. “Raramente, in questo film che, nonostante la forte orditura sonora, potrebbe quasi essere definito ‘muto’, accade che il personaggio di Julie emerga attraverso il dialogo” (C. Simonigh, op. cit., p.72).
[11] L. Miccichè, in M. Sesti (a cura di), Krzysztof Kieslowski, Dino Audino Editore, Roma, 1996, p.59.
[12] Come quando Julie è ancora in ospedale, e assiste al funerale del marito che viene trasmesso per televisione. L’invadenza dell’immagine riprodotta (Julie scopre l’amante del marito attraverso fotografie mostrate per televisione; altrove nel film compaiono fotocopie, ecografie, ecc.) è solo uno degli elementi che contribuiscono alla reificazione dell’esistenza. E’ significativo il gesto, di una fragilità atroce, di Julie mentre vede inquadrate, in tv, le bare della figlia e del marito: tende le dita verso la piccola bara della figlioletta, quasi per colmare la distanza posta tra lei ed essa dal mezzo, la televisione.

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