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Furyo

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Le 120 Giornate Di Giava
 
Sadismo. La guerra vorrebbe disciplinare pulsioni ingovernabili. La disciplina giapponese ritualizza il sadismo. Violenza culturale: costringere gli inglesi ad assistere all’harakiri. L’angelo demone (Celliers/Bowie) arriva, e destabilizza. Il desiderio è pulsione di mero possesso. Non c’è nulla di “umano” nel film “Furyo”. Non sembra possibile coltivare alcun vero affetto: salvarsi dal “morbo” diffuso – febbre tropicale in questa prigione umida, foresta claustrofobica – sembra possibile solo nel distacco ironico di Lawrence, che si sforza di capire ma ha una pietà distante, avvizzita; o nell’ubriachezza di Haru/Takeshi, che augura Buon Natale, ma non libera nessuno. La prospettiva di essere vincitori o vinti, prigionieri e basta o soldati comunque, anche se prigionieri, cambia a seconda della cultura di appartenenza, ma non muta il destino: l’insensatezza di sopravvivere o soccombere è dettata dal caso, non esistono torto e ragione, esistono unicamente pulsioni di desiderio insoddisfatto. La frustrazione crea violenza, la guerra ne è un prodotto. Il desiderio si corazza nella disciplina bellica, si vorrebbe auto-escludere. Ma è un tentativo impossibile: esso fluisce tra le maglie della disciplina, destabilizzandola e distorcendola in sadismo. La violenza intrinseca nella disciplina bellica è un tentativo malriuscito e maldestro di governare pulsioni non soddisfatte, irrigidendole nella violenza inferta a sé e o all’altro. E’ in sé tarata, come “disciplina”: contiene una sostanza di pulsione distruttiva, unico sfogo d’uno stato esistenziale insoddisfatto, in cui non si dà possibilità al desiderio di trovare sfogo e di sedarsi. Di qui il clima raggelato del film, in cui l’atrocità viene sempre rinviata e trattenuta, tenuta a distanza; di qui la difficoltà per lo spettatore a prender parte alla vicenda – difficoltà che è voluta: un distacco narrativo ricercato, reso – anche – con piccole ellissi vagamente stranianti. E soprattutto con una musica suadente che è in contrasto, enorme quanto impercettibile (per la sua ipnotica, iterativa costanza), con una lacerante violenza psichica. Che implode su se stessa. E trascende la pellicola, persistendo oltre essa. Oltre al sorriso-fermo immagine finale del condannato a morte Haru.

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